“Fine lavoro mai”: neuro(in)sostenibilità della vita messa a lavoro

Il 14 gennaio è stato presentato al Centro Sociale Django di Treviso il libro Fine lavoro mai: Sulla (in)sostenibilità cognitiva del lavoro nell’epoca digitale (2022, Eris Edizioni) con l’autore Ivan Carozzi. Moderava il dibattito Gaia Righetto, attivista del Cs Django, che ha iniziato chiedendo se le “grandi dimissioni” – l’ondata di autolicenziamenti che ha coinvolto diversi paesi dall’inizio della pandemia di COVID-19 – possono essere interpretate come una forma contemporanea di rifiuto del lavoro.

Secondo Carozzi, la pandemia ha rappresentato per molte persone un momento di riflessione su quanto di soddisfacente ci fosse nella propria vita. A questo proposito, una grande fonte di insoddisfazione è proprio il lavoro, in particolare il “lavoro di merda”, per usare l’espressione di David Graeber. Alcuni hanno interpretato le grandi dimissioni come una dimostrazione del fatto che in molti possono permettersi di non lavorare, cosa che in Italia ha alimentato gli attacchi al reddito di cittadinanza. Tuttavia, questa narrazione non tiene conto del fatto che molte dimissioni sono avvenute per cambiare lavoro alla ricerca di qualcosa di diverso e, soprattutto, che la radice del problema sta nella qualità e nella remunerazione del lavoro in offerta (si pensi per esempio alla ristorazione), soprattutto nel contesto attuale di aumento del carovita.

Ivan Carozzi ha proseguito raccontando la genesi del libro, datasi su proposta della editor di Eris Edizioni Rachele Cinerari, curatrice della collana BookBlock. Ai tempi dell’Onda studentesca del 2008-09, il Book Bloc si riferiva agli spezzoni che aprivano i cortei con scudi raffiguranti copertine di libri. Da qui il nome di una collana che affronta tematiche legate alle istanze dei movimenti contemporanei. La proposta di Rachele è arrivata sulla scia di un articolo, scritto da Carozzi per che-fare.com, intitolato “È ora di parlare della sostenibilità neurologica del lavoro cognitivo”.

L’articolo raccontava la situazione personale di Ivan come precario dell’industria culturale milanese, situazione che però lo accomuna con molti di coloro che lavorano nel settore in senso ampio. Si tratta di quelle figure che per vivere devono svolgere una molteplicità di lavori diversi legati alla produzione di conoscenza: “Invecchiando mi rendevo conto che questa situazione era insostenibile anche dal punto di vista cognitivo. L’avere sempre un ‘device’ in tasca, con tantissime chat di lavoro, crea un fortissimo affaticamento mentale, anche i momenti di socialità sono intervallati dalle notifiche, le vite vengono così assediate dal lavoro”.

L’espressione “neurosostenibilità del lavoro cognitivo e digitale” ha avuto fortuna, probabilmente proprio perché molte persone si sono riconosciute nelle condizioni descritte. Così è nata l’idea di scrivere un libro intervistando una gamma di profili lavorativi di un settore in cui parlare apertamente della propria stanchezza è un tabù. Infatti, mostrare debolezza rischia di intaccare la competitività di una persona sul mercato del lavoro culturale, appunto a causa della precarietà di quest’ultimo. Si trattava quindi di uscire allo scoperto e dichiarare la propria stanchezza.

Per quanto incentrato sul contesto italiano e sul lavoro cognitivo, il libro affronta anche altre dimensioni geografiche e produttive del lavoro digitale, per esempio la manifattura di componentistica elettronica in Asia, in particolare gli stabilimenti della Foxconn a Shenzhen, in Cina. Queste fabbriche avevano acquisito una triste notorietà agli inizi degli anni 2010 a causa di un’ondata di suicidi operai. Erano infatti diventate una sorta di “universo concentrazionario” in cui gli operai, dopo lunghi turni, potevano solo andare a dormire nei dormitori dell’azienda stessa. È proprio dalle finestre di questi dormitori che alcuni operai si buttarono.

Questo è il contesto in cui emerge il poeta operaio Xu Lizhi. La figura del poeta operaio è stata importante anche in Italia, perché le fabbriche erano tra le altre cose un luogo di socializzazione e produzione di cultura. Xu Lizhi era un migrante interno che non accettava l’idea che la sua vita si riducesse a un pendolo tra la catena di montaggio e il dormitorio. Per questo scriveva, mandava curriculum alle librerie di Shenzhen, si prese anche un periodo di pausa dal lavoro nel tentativo di cambiare vita, senza però riuscirci. Alla fine tornò in fabbrica ma si suicidò poco dopo, lasciando una poesia in cui in qualche modo annunciava la propria partenza (cosa che è successa anche nel caso di alcuni musicisti trap in Occidente). “Le poesie di Xu Lizhi sono bellissime. Una si intitola ‘La vite’, parla di una vite che cade dalla catena di montaggio. Leggendola, ho pensato che magari quella vite poi è entrata a far parte di un computer da cui ho ricevuto una mail, così ho capito davvero che questa storia in qualche modo mi riguarda.”

Una storia riguardante invece l’Europa è quella di Moritz Erhardt, stagista ventunenne tedesco impiegato a Londra dalla Merril Lynch. In questa banca d’investimento americana molto prestigiosa, come nell’alta finanza in generale, vige un modello lavorista estremo che viene compensato con altissime remunerazioni. Moritz ha lavorato quasi ininterrottamente per due settimane, cosa che gli ha causato una grave crisi epilettica che l’ha ucciso. Eppure, anche in questa routine estenuante, alle cinque del mattino trovava uno spicchio di tempo per scrivere a sua madre. “Ho interpretato questo elemento come una prova del fatto che esiste una parte di noi che non può mai essere trasformata in un automa al servizio della produttività”. Sono questi conati prepolitici, individuali e collettivi, che possono essere organizzati attraverso proposte dotate di una progettualità volta al cambiamento.

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