Perù – La presidente Boluarte ha più morti sulla coscienza che giorni di governo

La presidente peruviana Dina Boluarte ha più morti sulla coscienza che giorni di governo. Non è uno slogan antagonista di chi da oltre due mesi sta nelle strade e nelle piazze peruviane a chiedere le dimissioni della presidente, la chiusura del Congreso ed elezioni anticipate, ma i tragici dati raccolti dalla Coordinadora Nacional de Derechos Humanos dall’inizio dell’estallido social peruviano: al 26 gennaio, infatti, la repressione ordinata nei palazzi del potere e messa in atto crudelmente dalle forze armate, ha generato 56 vittime (di cui 7 minorenni), 46 dei quali sono per responsabilità diretta dello Stato, e 912 persone rimaste ferite.

Il report della CNDDHH è tragicamente impietoso ed evidenzia in modo chiaro gli altissimi livelli di repressione e violazioni dei diritti umani messi in atto premeditatamente dal governo peruviano. Per la portavoce della CNDDHH Jennie Dador, «il report mostra come in 50 giorni di governo della presidente Boluarte ci sono stati vari tipi di violazioni dei diritti umani, il che richiede una soluzione politica come le sue dimissioni e la richiesta di nuove elezioni generali».

Richieste, quelle delle dimissioni della presidente e di elezioni anticipate al 2023, che si fanno ogni giorno più forti da parte della popolazione, che negli ultimi dieci giorni è in mobilitazione non solo nelle varie città della nazione con scioperi, manifestazioni e soprattutto coi tantissimi blocchi stradali, ma anche con le carovane di centinaia di persone che da ogni dove stanno raggiungendo la capitale Lima per unirsi alle proteste sotto i simboli del potere.

A queste mobilitazioni, il governo sta reagendo sempre di più con la forza e con una repressione che non conosce pieta: dai massacri nelle lontane città del sud a maggioranza indigena, come a Juliaca, all’assalto coi blindati dentro all’Università pubblica San Marcos (la più antica del paese), la repressione non conosce limiti: ad essere colpiti non sono solo i manifestanti, ma anche gli operatori e i volontari sanitari che durante le manifestazioni si prendono cura dei feriti e soprattutto numerosi reporter, indipendenti o meno, che documentano l’efferata violenza messa in atto dalle forze dell’ordine.

Il report d’altro canto parla chiaro: «la risposta dello Stato peruviano alle mobilitazioni è stata una brutalità senza precedenti nella storia della democrazia nel paese, in questo secolo. Massacri perpetrati in tre città, insieme a esecuzioni extragiudiziali più limitate altrove. Al momento di questo rapporto, 46 civili sono morti a causa dell’uso della forza da parte della polizia e dei militari».

Nel report, suddiviso in quindici punti, si parla di uso arbitrario della forza, con lacrimogeni e proiettili sparati direttamente al corpo dei manifestanti, che hanno causato le vittime e le centinaia di feriti. L’uso arbitrario della forza è stato particolarmente evidente nei massacri di Andahuaylas (12 dicembre), Ayacucho (15 dicembre) e Juliaca (9 gennaio) che hanno causato la maggioranza delle vittime.

Un secondo punto del report denuncia l’utilizzo di torture e violenze sessuali nei confronti dei manifestanti sia durante gli arresti nelle piazze sia durante la presa in carico nelle strutture carcerarie. Particolarmente gravi le condizioni inumane e degradanti subite dagli accusati di terrorismo, costretti in celle piccolissime e senza luce.

Il report segnala anche le pratiche utilizzate dalla polizia per reprimere e criminalizzare la protesta: dalla militarizzazione nei territori dove il conflitto è stato più acceso, all’utilizzo dello stato d’emergenza che ha comportato la sospensione temporanea di alcuni diritti fondamentali (come per esempio quello di riunione). Ma soprattutto, sono segnalate le pratiche vigliacche di infiltrazione di agenti nelle manifestazioni e la semina di prove con cui colpire i manifestanti. Il tutto condito con una narrazione pubblica, a cui la stampa mainstream – o forse è meglio dire di regime – si è piegata volontariamente, di invocazione del dialogo e della pace (militarizzando i territori) e di criminalizzazione dei manifestanti con la pratica del “terruqueo” (pratica solitamente usata dalle destre con cui si denuncia l’apologia di terrorismo di manifestanti e di chiunque appoggi le manifestazioni antigovernative).

Infine, sono segnalati anche gli attacchi ai difensori dei diritti umani e ai giornalisti che documentano la repressione presenti nelle piazze, con minacce di morte, aggressioni, ferimenti e distruzione della strumentazione professionale.

Nel presentare il report, Mar Pérez (responsabile della Unidad de Defensores della CNDDHH) ha dichiarato che «esiste una carica profondamente razzista nell’attuazione della polizia, non è un caso che le morti siano state prodotte nelle regioni dove vive la popolazione indigena e che fino al momento a Lima non ci sono stati morti».

Purtroppo, le parole di Mar Pérez, sono già state superate dalla realtà: proprio sabato 28 gennaio, al termine di una imponente marcia che da Lima Sur ha raggiunto il centro città, è esplosa la solita violente repressione della polizia che ha causato la morte di uomo, altre 13 persone ferite ospedalizzate (di cui uno in gravissime condizioni in ospedale) e altre centinaia ugualmente ferite ma senza che abbiano dovuto, ricorrere alle cure ospedaliere. O potuto, dal momento che con l’intento di arrestare i feriti, la polizia ha caricato i manifestanti anche dentro le strutture sanitarie.

Quello che è considerato un governo democratico perché ha saputo fermare l’autogolpe di Pedro Castillo si sta quindi confermando come uno dei più sanguinari e criminali governi della storia del Perù, con una media drammatica e inquietante di più di una persona uccisa al giorno.

La soluzione alla crisi peruviana e la fine dei massacri nei confronti della popolazione non può che essere quindi quella delle dimissioni immediate della sanguinaria presidente Dina Boluarte e della chiusura dell’altrettanto sanguinario e corrotto Congresso, visti anche i risultati di alcuni recenti sondaggi che vedono la presidente e il Congresso con una percentuale di approvazione che si attesta al di sotto del 10% e viceversa con un’identificazione con la protesta in costante crescita che si attesta attorno al 60%.

Dina asesina renuncia” si sente gridare nelle strade peruviane. E chi ha a cuore la vita delle persone non può che essere d’accordo.

Foto di copertina: Wayka

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