Il 16 gennaio la giornalista e scrittrice statunitense Sarah Jaffe è stata al Centro Sociale Django di Treviso per presentare il libro Il lavoro non ti ama. O di come la devozione per il nostro lavoro ci rende esausti, sfruttati e soli” (2022, Minimum Fax). Ha intervistato l’autrice Gaia Righetto, attivista del CS Django.
Uno dei messaggi principali del libro è che, al giorno d’oggi, ci si aspetta che la gente ami il proprio lavoro. Ma le cose non sono sempre state così. Qual è stato il percorso che ti ha portato a sistematizzare questa intuizione in un libro?
Ho cominciato a scrivere di lavoro a tempo pieno a partire dalla crisi finanziaria del 2008-09. Prima, però, ho lavorato per molti anni nella ristorazione. Una volta diventata giornalista, sono rimasta colpita dal fatto che le condizioni nei due settori erano per certi aspetti alquanto simili. In entrambi bisognava lavorare moltissime ore al giorno per salari bassi. Con la graduale deindustrializzazione del lavoro negli Stati Uniti, tante persone sono rimaste bloccate in un settore terziario precarizzato (ristorazione, turismo, assistenza alle persone) ed estenuante perché si tratta di mansioni in cui bisogna sempre sorridere e sembrare di buon umore, anche se la soddisfazione intrinseca che queste occupazioni possono offrire è assai esigua.
Il mio primo libro, intitolato Necessary Trouble: Americans in Revolt (2016), racconta i movimenti sociali negli Stati Uniti dopo la crisi finanziaria. Proprio nell’anno della sua pubblicazione, com’è noto, è stato eletto alla presidenza Donald Trump. Ironicamente, è stato un buon tempismo perché quel contesto politico contribuì all’ascesa di un’ondata di scioperi in svariati settori, cosa che mi ha portato a scrivere il mio secondo libro. La versione originale – intitolata Work Won’t Love You Back – è uscita nel 2021, nel bel mezzo della pandemia del COVID-19, quando la relazione di moltissime persone con il proprio lavoro è cambiata.
Il libro sfida l’idea secondo cui, se non lavorassimo, non avremmo nulla da fare. Quali sono le origini di questa narrazione e com’è diventata dominante nella nostra cultura?
Sarah: Mi piace sempre far notare che il lavoro salariato non è stato inventato perché la gente si annoiava. In realtà, tutto è cominciato con le enclosures, ovvero la separazione dei produttori diretti dai mezzi di produzione, la terra in primo luogo. Tale separazione ha reso il lavoro salariato l’unica forma di accesso ai mezzi di sussistenza. Tuttavia, quando il lavoro di fabbrica era la forma dominante di impiego, nessuno si aspettava che gli operai lavorassero perché erano innamorati del proprio lavoro in quanto tale. Si riteneva che la gente lavorasse perché non aveva scelta o perché, grazie alle lotte sul luogo di lavoro, avevano conquistato nelle fabbriche condizioni, salari e spazi di socializzazione dignitosi. Si trattava di occupazioni che non erano intrinsecamente soddisfacenti ma che erano state migliorate dalle lotte operaie, anche attraverso la rivendicazione di lavorare meno.
Questo è però cambiato con la deindustrializzazione, perché gli operai e i sindacati sono stati costretti a “pregare i posti di lavoro” di rimanere. Invece, nel caso di molte occupazioni del terziario (pensiamo alla sanità, l’istruzione, la cultura, ecc.), il lavoro di cura nei confronti del pubblico genera l’aspettativa che ci si presenti sempre con una maschera di felicità, addirittura che questa maschera non sia tale ma che rifletta una genuina passione per il proprio lavoro. La prima metà del libro riguarda il lavoro di cura, sia quello che secondo la concezione dominante le donne dovrebbero svolgere in casa per amore sia quello salariato. La seconda parte riguarda invece il lavoro creativo, che ci si aspetta sia fonte di soddisfazione intrinseca. Il lavoro di cura e quello creativo sono le basi su cui si appoggia la narrazione per la quale bisogna amare il proprio lavoro.
Nel libro citi molte autrici e autori che amiamo, Marx, bell hooks, Selma James e Silvia Federici. In che modo il concetto di lavoro riproduttivo come declinato da Silvia Federici ti ha ispirato?
Mi ha fatto molto piacere che il mio libro sia stato tradotto in italiano, perché ho un notevole debito intellettuale con autrici e autori italiani. Silvia Federici in primis, ma anche Antonio Gramsci.
Federici, che mi ha ispirato anche per la sua esperienza militante nella Campagna per il salario al lavoro domestico, ha mostrato come le enclosures non abbiano avuto un impatto uniforme in termini di genere. Le donne sono state assegnate principalmente al lavoro riproduttivo non salariato in casa, mentre la mascolinità è stata associata al compito di portare a casa il salario.
Questa prospettiva permette di vedere come la svalutazione del lavoro domestico ha comportato la svalutazione del lavoro di cura in generale – nelle scuole, negli ospedali, ecc. – attraverso la sua femminilizzazione. Inoltre, nel contesto della crisi ecologica, è importante capire come le donne e le persone razzializzate e colonizzate, al pari della natura, siano per il capitalismo razziale e patriarcale mere risorse di cui appropriarsi, logica che sta portando alla devastazione del pianeta.
Sono molte le esperienze di organizzazione e lotta nei luoghi di lavoro che abbiamo visto negli ultimi anni, con modalità variegate e fasi d’intensità alterne. Che lezioni possiamo trarre da questo periodo di lavoro in pandemia?
La pandemia ci ha diviso in tre gruppi, chi può lavorare da casa, chi ha continuato a lavorare come prima ma con maggiori rischi e chi ha perso il lavoro o ha ricevuto dei ristori. Queste differenze si sono tradotte in forme diverse di organizzazione e rivendicazione: c’era chi aveva bisogno di migliori ristori per sopravvivere e chi invece voleva evitare di infettarsi sul posto di lavoro. Un elemento che ha accomunato molti settori è però stata un’accresciuta percezione dei rischi del lavoro. Persino i lavoratori dei set cinematografici si sono posti la questione della sicurezza e dei dispositivi di protezione individuale, cosa che prima non accadeva. In sostanza, questa esperienza comune ha rivelato che ai padroni non gliene importa granché se moriamo.
Un altro autore che citi è Mark Fisher, soprattutto per quanto riguarda la depressione e la salute mentale. In che modo questi temi si collegano al lavoro?
Bisogna riflettere sul fatto che è il sistema a renderci infelici. Mark Fisher aveva capito che la medicalizzazione della salute mentale la individualizza. Il problema diventa così il cervello di ognuno ma non il sistema che ci fa lavorare così tanto. È importante che le organizzazioni della sinistra non solo affrontino politicamente la salute mentale ma si dotino di spazi materiali dedicati alla cura reciproca, perché il sistema uccide.