Sabato 28 gennaio, al C.S.O. Pedro di Padova, nella cornice dello Sherbooks Winter Festival, si è svolta la presentazione del libro di Ferdinando Cotugno, Primavera Ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla terra (edito da Il Margine).
Il testo ripercorre la nascita e l’evoluzione dei movimenti sociali e climatici, analizzando come tali movimenti si siano sostituiti alla forma partito, come veri protagonisti e potenziali agenti di una rivoluzione ecologista. Rivoluzione che abbia come esito il rovesciamento di un sistema di produzione ed accumulazione capitalistico, vera radice della crisi climatica che mette a rischio la possibilità di sopravvivenza della specie umana sul pianeta. Un libro che ci propone una ri-politicizzazione del concetto di indipendenza, e che esce dai binari e dai cliché della narrazione emergenziale, che presta spesso il fianco alla narrazione del potere.
Ad accompagnare l’autore in questa discussione vi sono Antonio Pio Lancellotti di Global Project e Chiara Camporese di Fridays For Future Padova, che ci introducono al libro partendo dalle tematiche che attraversano il testo. Primavera Ambientale ci viene presentato come un “viaggio”, che parte dalla scala più grande arrivando al piccolo – descrivendo una crisi climatica che è sì crisi globale, ma che è la storia dei popoli – ma anche come una “lettera”, rivolta al lettore che prenderà in mano l’opera, con lo scopo di portarlo a partecipare a questa lotta climatica.
Il primo grande concetto affrontato è la frattura tra umano e non-umano: la crisi climatica è la crisi del rapporto tra i nostri corpi e la natura, il mondo che abbiamo intorno, che viene da noi percepito come “altro”; l’obiettivo è quindi ricostruire quel rapporto tra umano e non umano, riscoprendo il nostro essere natura.
Non c’è, tuttavia, azione per il clima senza conflitto, e qui l’autore lancia il primo invito ai movimenti per il clima: quello di appropriarsi sempre di più dell’azione politica, non avendo unicamente scopi limitati, locali e di testimonianza, ma riappropriandosi anche dei luoghi “di potere”. Un messaggio che è forse tra le parti più controverse del libro, e che tornerà nel seguito della presentazione quando si parlerà del rapporto tra i movimenti e la politica.
Si passa quindi ad illustrare i due termini con i quali si chiude il primo capitolo del libro, ovvero antropocene e capitalocene e le differenti responsabilità che scaturiscono dall’utilizzo di queste due espressioni. Se per antropocene si intende l’idea che le attività umane abbiano avuto, in maniera indifferente e come totalità, un impatto tale da incidere sui processi geologici, con il termine capitalocene si sottolinea come non tutto il genere umano sia responsabile indistintamente ed in egual misura di questa epoca di distruzione. La responsabilità è bensì da attribuire al determinato modo di produzione ed accumulazione, quello capitalista, vero agente dell’attuale crisi climatica.
Un concetto che permea il libro è il “punto di rottura”: il momento in cui l’individuo decide di non voltarsi più dall’altra parte, quando il soggetto si accorge del punto di collasso e decide di ricostruire quel rapporto discusso poc’anzi tra umano e non-umano, e in generale tra esseri viventi e natura.
Per l’autore vi sono stati due punti di rottura, un primo “sociale” ed un secondo “ecologico”, pur come punto di arrivo di un progressivo avvicinarsi all’idea che il collasso fosse reale e che esso fosse un’opportunità di rinascita.
Il punto di rottura “sociale” fu, come per molti della stessa generazione, il G8 di Genova 2001. Il momento in cui la società ammise di non essere più in grado di offrire un posto al suo interno a chi ad essa si opponeva.
Il punto di rottura “ecologico” fu invece – dal suo punto di vista – un viaggio, nel 2018, alle Isole Svalbard, arcipelago norvegese nel Mar Glaciale Artico. È qui che le conseguenze immediate, nel breve periodo, del cambiamento climatico si fanno più evidenti: l’assenza del freddo glaciale, temperature oltre le soglie, riflesse nel terrore degli abitanti, consapevoli di quello che si trovano di fronte.
Ed un altro viaggio dell’autore, stavolta in Uganda, ci permette di passare ad affrontare forse quello che è uno dei punti cardine della lotta climatica, ovvero le responsabilità della transizione ecologica: cos’è una giusta transizione, chi deve sostenerne i costi e, soprattutto, identificati i responsabili, come imporre ad essi di sostenere tali costi.
La giusta transizione, sostiene Cotugno, è quella che non distrugge la società: o essa avrà consenso o non accadrà, perché vedrà proteste ed opposizioni. L’autore vede come soluzione un giusto dosaggio tra politica dall’alto, dalle istituzioni – fatta di leggi ed investimenti – e dal basso, dai movimenti. La politica dal basso deve assumersi un ruolo divulgativo, dovrà costruire nuove pratiche e nuove idee di comunità, costruire consenso verso la transizione. Proprio questo dosaggio delle due componenti è visto come l’elemento correttivo che possa evitare la replicazione in futuro di modelli di sviluppo colpevoli della distruzione del mondo presente: evitare di ottenere un mondo futuro ad emissioni zero ma altrettanto ingiusto.
Ci si collega quindi all’idea di crisi climatica come chiave di riscrittura del mondo: la crisi climatica è vista dall’autore come un sintomo prezioso che permette di vedere alla luce del sole che la pretesa di inevitabilità del capitalismo non è più vera. Viviamo in un mondo al collasso, sia esso individuale, economico o climatico; la radice di essi è comune e si chiama capitalismo. Il problema identificato dall’autore è quindi quello di creare, normalizzare ed indirizzare un conflitto che è assente in rapporto alla misura della catastrofe che si prospetta in futuro. Un conflitto a cui segua la ricostruzione: la narrazione emergenziale si traduce infatti in azioni a scadenza (quali il taglio delle emissioni entro il 2050), ma non immagina un futuro a seguire. Serve immaginazione politica, serve immaginare cose impensabili e iniziare a costruirle.
Si ritorna a quella che è forse la parte più controversa e contestata di Primavera Ambientale, già accennata nel corso della presentazione, ovvero il ruolo dei partiti, delle istituzioni e della politica nella lotta climatica e nella transizione. Cotugno sottolinea come la politica di movimenti si sia sempre fermata un passo prima delle istituzioni: l’invito che l’autore formula è quello di intendere in modo dialettico il rapporto con le istituzioni, di rapportarsi ad esse ed ai partiti come movimento nel suo complesso e non come singoli attivisti, che ne verrebbero divorati. Cotugno sostiene la necessità dei movimenti di riprendersi le istituzioni per rispondere a quella domanda di radicalità che l’autore vede come presente nella società odierna: una domanda di radicalità che non percorre solo le questioni climatiche, ma, estendendo la visione, anche in economia e nel lavoro. l messaggio della lettera che costituisce il libro è di portare il discorso fin nel cuore delle istituzioni.
L’autore porta infine come esempio di questa domanda di radicalità i recenti avvenimenti di Lutzerath, villaggio della Renania dove le manifestazioni per impedire l’espansione di una miniera a carbone hanno portato ad un’enorme partecipazione popolare (circa trentamila partecipanti). Una capacità di mobilitazione che dimostra anche come i movimenti per il clima siano longevi ed in grado di aprire nuove stagioni di lotta. Cotugno conclude così con l’invito ad organizzare ed organizzarsi, di indirizzare, politicizzare ed organizzare questa disponibilità e questa domanda di radicalità.