Sabato 28 Gennaio si è tenuto al CSO Pedro di Padova, nell’ambito del Festival di Sherbooks, una conversazione con Wom edizioni e Cronache Ribelli intitolata “guerra e violenza”. Guerra e violenza sono due concetti che spesso si intrecciano nella storia dell’umanità, nel loro potenziale distruttivo che hanno sugli esseri viventi, sulla natura, sulla cultura di interi popoli. Questo talk ha messo in relazione due libri che hanno trattato il tema, in forme e modi diversi, ma efficaci: “Diario di un disertore” pubblicato da Cronache Ribelli e “Guerra alla guerra”, classico del pacifismo globale di Ernst Friedrich, riedito da Wom edizioni. A presentare i due libri ci sono Matteo Pinna di Wom Edizioni e Matteo Milenni di Cronache Ribelli. Modera Tommaso Baldo, storico e collaboratore di global project.
La storiografia, a livello mondiale, ormai parla della prima guerra mondiale come una guerra civile Europea o seconda guerra dei trent’anni, che perdura dal 1914 al 1945. Questo è un aspetto importante da tenere presente nelle vite dei due autori. Entrambi militanti libertari, esprimono un netto rifiuto alla guerra fra imperialismi unito a una forte volontà di cambiare il mondo e opporsi a fascismo e nazismo. Bisogna cercare di capire qual è il loro insegnamento, tenendo conto che rifiutano la guerra fra stati ma stanno nella guerra civile. Appena finita, la prima guerra mondiale viene raccontata subito in maniera romantica.
Il titolo del libro di Friedrich, “guerra alla guerra”, sembra un ossimoro. Il testo, pur essendo pacifista a pieno titolo, porta avanti l’idea che per far smettere le guerre in senso capitalistico, l’azione deve essere attiva contro gli stati borghesi che spingono e motivano guerra. Il contesto è quello dell’impegno internazionalista di pacifismo attivo anarchico. Il volume alla prima stampa uscì in quattro lingue: tedesco, inglese, francese e olandese. L’intento era di mettere in dialogo fra loro popoli che fino a qualche mese prima erano in guerra. Il capitale era l’obiettivo primario di Friedrich: “finché il capitale governa e opprime il popolo le guerre continueranno ad esserci, combattete il capitalismo e combatterete contro ogni guerra”. Nella sua attività politica, Friedrich inaugurò un museo a Berlino, l’anti kriegs museum, il museo dell’antiguerra. L’edificio fu perquisito e distrutto, le foto originali andarono perdute, requisite dalla polizia di Weimar. Nonostante la repressione, il museo riaprì in anni successivi fino all’arrivo dei nazisti, che lo trasformarono in un centro di reclutamento.
In “Diario di un disertore” Bruno Misefari, militante libertario con idee ben salde, vive svariate situazioni: si parte col tentativo di arruolamento, il rifiuto verso la scuola ufficiale, il carcere, la clandestinità, l’espatrio, l’arresto, l’arruolamento forzato e l’obbligo di andare al fronte. Il libro è stato ripubblicato per dare continuità al lavoro di divulgazione storica svolto in questi anni. La prima guerra mondiale oggi, sia a livello istituzionale che scolastico viene narrata come una guerra di indipendenza: non vengono negate le sofferenze dei, ma ci si sofferma più sullo spirito patriottico di unità e interesse nazionale che avrebbe animato i soldati. La realtà che emerge a livello storiografico risulta completamente diversa.
Ad esempio, il maggio radioso viene solitamente descritto con migliaia di persone in piazza. In realtà gli interventisti erano una minoranza, anche se decisamente aggressiva e sostenuta economicamente. Basti pensare che negli anni 1914-1918 il 70% del bilancio dello stato italiano viene investito in commesse di guerra. L’Italia non voleva entrare in guerra: c’erano manifestazioni da nord a sud, in tutte le città; in tutte le province italiane ci furono scontri a fuoco fra renitenti, disertori e forza pubblica. Il libro esprime bene quella che era l’opinione della pancia del paese, che si era reso perfettamente conto che si stava combattendo una guerra contro la classe. Su un esercito di circa 5 milioni di soldati, la metà erano contadini, il resto operai e artigiani.
Questa è una storia cancellata, soprattutto nei suoi numeri: 700 mila morti, 1 milione di mutilati, 900 mila denunce intentate dagli ufficiali superiori del regio esercito nei confronti dei propri sottoposti per una serie di atti come autolesionismo, abbandono delle postazioni al fronte, rifiuto di combattere, rifiuto di obbedire agli ordini. Non vanno dimenticate le donne costrette ad abortire nel dopoguerra in un paese profondamente cattolico, perché avevano avuto relazioni, in molti casi obbligate, in alcune libere con gli occupanti austriaci o tedeschi.
Anche oggi osserviamo una sorta di guerra civile globale: Capitol Hill, il golpe in Brasile o la resistenza in Rojava contro l’islamo-fascismo turco. Al contempo abbiamo una o più guerre tra imperialismi. Qual è il legame fra guerra e resistenza? Cosa ci insegna la memoria della scorsa guerra civile contro il fascismo e contro imperialismi?
Osserviamo la vita di Friedrich: scappato in Francia, entra subito nella resistenza francese e lotta contro i fascismi europei. Il suo spirito apparentemente entra in contraddizione con il titolo del libro, guerra alla guerra. In realtà il suo è un invito ad intervenire contro le forze che la producevano. Lo Stato è in sé forza guerresca, non esiste Stato che non sia lì per fare una guerra, gli è consustanziale, c’è lo stato e quindi c’è la guerra, le due cose non sono separabili, non esiste stato pacifista. Il discorso di Frederich originariamente può essere considerato anarchico: considerava che l’unico modo di disfarsi della guerra è eliminare le forme di stato così come lo conosciamo.
Non ci sono imperialismi buoni, ma non tutte le forme di oppressione di classe sono uguali. Ad esempio il regime di Putin, di Erdogan, di Bolsonaro possono essere considerati come una prima minaccia, ma non ci si può accontentare ed evitare di fare dei passi in avanti per superare imperialismo, capitalismo e guerra in quanto tali. Su questo la resistenza è lo strumento che ci consente di opporci al peggio senza accontentarci del meno peggio.
Non esiste una contraddizione irrisolvibile fra combattere la pace e una guerra come quella di resistenza. La resistenza ha tenuto insieme più elementi, sociali, di classe e di genere, perché era un esercito ideale, non politico. Somiglia alla resistenza attuale kurda, in lotta contro l’oppressione turca. In quei territori si sta combattendo non solo per l’autodeterminazione, ma anche per una nuova società: si punta a un cambiamento etico del paese, a modificare i meccanismi di funzionamento dei rapporti fra classi, stato e popolazione, ma anche quelli interpersonali. Come dicono gli zapatisti “non si può distruggere il sistema dell’oppressione con le armi dell’oppressione.”
Bisogna coltivare e lottare per la pace finché si può difendere. Nel momento in cui si tratta di combattere, si deve lottare non con la classe dirigente ma schierandosi dalla parte della classe oppressa, degli sfruttati di chi vive determinate condizioni. Il valore della resistenza sta anche nell’internazionalismo, nell’idea che si possa scegliere di combattere sotto un’unica bandiera, quella degli oppressi.
Anche noi non siamo mai in pace. Lo stato attuale nostro in realtà dovrebbe sentirsi in guerra e quindi essere in guerra contro la guerra, perché nonostante le bombe non ci cadano in testa, nello spirito internazionalista del volume, che dovremmo abbracciare, non mancano guerre per cui essere in guerra. Nonostante non ci siano Kalashnikov puntati addosso a noi personalmente, ci sono Kalashnikov puntati sui nostri simili per cui dovremmo quotidianamente, nel nostro piccolo, muoverci con azioni costanti, anticapitaliste, anche per loro e stare sul fronte con chi la guerra la subisce.