Quale nuovo welfare?

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di Nicoletta Pirotta (IFE – Iniziativa Femminista Europea)

Ogni due anni il laboratorio di ricerca legato al Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano elabora un rapporto che analizza lo stato di salute del sistema sociale italiano, mettendo in luce le traiettorie e le prospettive del cosiddetto “secondo welfare”.

Il laboratorio di ricerca lavora in stretta collaborazione con “Veneto Welfare”, un’unità operativa regionale che sostiene lo sviluppo della previdenza complementare e del welfare integrato.

Il Quinto Rapporto analizza il welfare italiano nel biennio 2020-2021, considera la composizione della spesa pubblica sociale, l’impatto della pandemia e le traiettorie di sviluppo del secondo welfare.

Prima di entrare nel merito di alcuni dei contenuti che emergono da Rapporto, credo sia utile ricordare, il più sinteticamente possibile, le fasi di trasformazione del sistema di sicurezza sociale attraverso cui si è giunti al modello del “secondo welfare” (per approfondire si veda, nel sito www.ifeitalia.eu, la voce: “welfare bene comune”).

La Prima fase vede la trasformazione del sistema da “welfare State” a “welfare mix”, (anni 80/90 del secolo scorso) nel quale i soggetti privati assumono via via un ruolo centrale nella gestione ed erogazione dei servizi a scapito del pubblico.

La Seconda fase attua la trasformazione da “welfare mix” a “community welfare market” (o “secondo welfare”), determinata dalla recessione economica conseguente alla crisi del 2008.

In Italia nel 2013 Fondazione Cariplo e Borsa Italiana, insieme ad altri partner finanziari europei lanciano l’IPO (Initial Public Offering) solidale mentre Cariplo, Compagnia San Paolo, Banca Prossima, Assifero, Alleanza Cooperative Italiane varano  “Il manifesto per l’alleanza fra la finanza e le grandi reti di rappresentanza del terzo settore”  con l’obiettivo di creare un nuovo modello di welfare fondato in particolare sul welfare aziendale.

I tre “pilastri” che sostengono il modello del “secondo welfare” sono:

  • un welfare aziendale e territoriale relativo ai “dispositivi in denaro e servizi forniti ai dipendenti da datori di lavoro come conseguenza del rapporto di impiego (es.: misure sostegno al reddito, previdenza complementare, flessibilità oraria…)”;
  • un welfare filantropico che comprende le iniziative di enti filantropici (Fondazioni di origine bancaria di comunità, di impresa, di famiglia…) rivolte al sostegno e/o all’attivazione di organizzazioni, istituzioni e comunità per rispondere ai bisogni di chi è ai margini e promuovere “coesione” sociale;
  • un welfare di prossimità cioè “interventi e misure co-progettate che mirano al benessere collettivo partendo da una lettura condivisa di bisogni insieme alla promozione di reti territoriali formali e informali (composte da attori pubblici, privati, associazioni e cittadini)”

Il pilastro strategico del modello è il welfare aziendale, nel quale un ruolo non secondario viene affidato, sul piano contrattuale, ai sindacati.

Il Rapporto sottolinea l’efficacia dei “flexible benefit” (ossia l’insieme di beni o servizi non monetari che le aziende distribuiscono ai propri dipendenti in aggiunta al salario: mezzi di trasporto collettivo quali bus o navette per raggiungere il posto di lavoro, voucher e buoni acquisto come buoni pasto o buoni carburante, corsi di lingua e altri corsi di formazione, benefit di utilità sociale, polizze sanitarie, tasse di previdenza complementare, interessi agevolati su mutui e prestiti, asili nido, borse di studio e rimborso spese scolastiche, abbonamenti a cinema e teatri, uso di cellulare e pc, automobile, abitazione in affitto, ecc.).

Secondo Tiziano Barone, Direttore di Veneto Lavoro, “a fronte della crisi e dell’indebolimento delle basi sociali del welfare state tradizionale, è probabile che nel prossimo futuro assisteremo a una crescita esponenziale di strumenti di welfare nella contrattazione aziendale e territoriale”

Al contempo Barone riconosce una delle criticità di fondo del welfare aziendale e cioè il fatto che “se non strutturati, gli interventi possono comportare divisioni nel mercato del lavoro tra chi è disoccupato e chi invece lavora e, tra questi, tra chi è impiegato in grandi aziende che hanno implementato misure di welfare e chi invece lavora in piccole imprese che non ne hanno alcuna”.

Sempre per quanto riguarda il welfare aziendale, Valentino Santoni, ricercatore del Laboratorio “Percorsi di secondo welfare”, ha sostenuto che andrebbe data rilevanza alle prestazione sociali e sanitarie (assicurazioni, ndr), quindi sarebbe cruciale facilitare l’utilizzo dei “fringe benefit” promuovendo la nascita di “voucher welfare” o “welfare card”. Così come servirebbe promuovere professionalità e ascolto dei bisogni favorendo per esempio l’introduzione nelle aziende di figure professionali (Welfare Manager o l’Assistente sociale di fabbrica) che puntino a “facilitare” l’attivazione di misure di welfare attente ai bisogni dei lavoratori.

Alcune considerazioni:

Mi pare di poter dire che il modello di “secondo welfare” confermi il carattere ideologico sul quale si sono fondate le trasformazioni del sistema.

Il modello non risponde ai bisogni di una società che cambia nella prospettiva di garantire ben-essere e buona vita alle persone, riconoscendo le differenze che attraversano la società (di genere, di classe, di provenienza) e avendo presente il quadro preoccupante dell’oggi (l’aumento esponenziale di spese militari a sostegno della guerra in Ucraina, la crisi energetica, il cambiamento climatico…).

Quando si dice di voler metter “le persone al centro” non si pensa a come definire i diritti collettivi e individuali da rendere esigibili per superare diseguaglianze ed esclusioni. Le si mette invece al centro del “mercato dei servizi” destinando loro voucher o benefit per l’acquisto di beni o servizi.

Il cuore del sistema di welfare non è più la lettura dei bisogni e la risposta adeguata ad essi ma la loro profittabilità, a conferma dell’alto livello di accumulazione capitalista in questo settore.

Si valorizza molto la dimensione territoriale. Una dimensione certamente ineludibile per garantire sicurezza sociale. Nella realtà, a causa del contenimento dei costi nella Pubblica Amministrazione, specie negli Enti Locali, assistiamo ad un altissimo livello di precarizzazione del lavoro, alla quasi scomparsa del turnover, a una diminuzione costante dei servizi a favore di politiche di bonus e sussidi.

Nella valorizzazione del livello locale si tende a sostenere e promuovere sempre più la dimensione regionale (il progetto di autonomia differenziata sarà la prossima frontiera).

Vale la pena ricordare che la regionalizzazione del sistema di welfare ha prodotto livelli di diseguaglianza insopportabili: in base agli ultimi dati disponibili, la spesa pro capite media, nel nostro Paese è di 124 euro, ma a Bolzano sale a 504 mentre in Calabria scende a 22!  E al Sud, in cui risiede il 23% della popolazione, si spende solo il 10% delle risorse destinate ai servizi socio-assistenziali. Il progetto di autonomia differenziata renderebbe ancora più diseguale e precaria la situazione facendo carta straccia dell’articolo 3 della Carta Costituzionale e ledendo il principio di solidarietà.

Il welfare aziendale viene considerato uno degli elementi cardine del “secondo welfare”: peccato che, come sostenuto anche da coloro che lo promuovono, esso rischia di produrre differenze formidabili fra chi ha un lavoro e chi no, fra chi può contare su un contratto di lavoro che prevede benefici e chi invece no. Anche qui non si garantiscono diritti egualmente esigibili ma si produce ulteriore differenzialismo a danno di chi è più fragile.

A chi è svantaggiato o, più facilmente, svantaggiata – vista la peggiore condizione delle donne specie se di classe impoverita o migrante – non resta che il welfare filantropico.

Ricordo che l’art. 37 del decreto legislativo 117/2017, cioè il Codice del Terzo Settore, definisce l’ente filantropico come ente costituito in forma di associazione riconosciuta o di fondazione.

Il re diventa nudo se andiamo al significato della parola, visto che si è scelto di utilizzarla. La filantropia, secondo il vocabolario, è la disposizione dell’animo a iniziative umanitarie che si traduce in attività dirette a realizzarle, mentre il filantropo è senza dubbio una persona generosa che aiuta il prossimo ma altresì una persona molto ricca e usa una parte del suo cospicuo patrimonio per iniziative caritatevoli. Sentimento e carità per l’appunto, non diritti.

Se questa è la realtà e queste sono le prospettive del welfare, assisteremo al consolidamento di un mercato dei servizi all’interno del quale il ruolo dello Stato si limiterà a quello di Ente pagatore.

Di fronte agli attuali scenari di guerra, alla recessione che ne consegue, alla crisi ambientale ed energetica che realisticamente produrranno ulteriore povertà ed esclusione, un welfare mercantile è il meno adatto a rispondere ai bisogni e a garantire diritti.

Il nuovo che avanza, per quanto riguarda i modelli di welfare, sa maledettamente di un ritorno non al secolo scorso, ma addirittura a quello precedente.

La campagna “Riprendiamoci il Comune” potrebbe essere uno strumento per spiegare e denunciare questa deriva e, in particolare, sottolineare la necessità che le municipalità riprendano in mano il ruolo che la Costituzione aveva loro affidato e cioè quello di garanti del livello di salute delle e dei cittadini.

Foto:

#OccupySF corporate welfare #OWS” di ericwagner (CC BY-NC-SA 2.0).

End Corporate Welfare” di WeNews (CC BY 2.0).

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 51 di Gennaio-Marzo 2023: “Riprendiamoci il Comune

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