di Franco Pezzini
“Quasi non eravate ancora uomo, e già siete uomo di lettere”.
Marcel Proust, I piaceri e i giorni, con le illustrazioni originali di Madeleine Lemaire, trad. e cura di Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco, introd. di Mariolina Bertini, note e commento di Luzius Keller, pp. 327, € 14,50, Mondadori Oscar, Milano 2022.
“La caducità della bellezza, il tempo distruttore, l’incombere della morte”, suona efficacemente, dall’introduzione di Bertini, la tagline editoriale di questo esordio fulminante, apparso nel 1896 in un’edizione curatissima presso Calmann-Lévy, con introduzione di Anatole France e le strepitose illustrazioni di Madeleine Lemaire (l’una e le altre qui riportate), che pure all’epoca ebbe poco successo. Parlarne, con vene e polsi che tremano considerando chi sia l’autore, pare però importante: sia per la qualità altissima dell’edizione da poco proposta in Oscar – ottimamente curata, annotata e comprensiva oltretutto di una ricca Appendice di testi affini non ripresi in volume da Proust – e insieme l’estrema godibilità del volume anche a lettori odierni, con provocazioni gustose e intatte.
Partiamo da due dati di base: Les Plaisirs et les Jours – dal titolo ispirato a Le opere e i giorni di Esiodo, già a dirla lunga su uno scarto non solo d’epoca ma sociale tra il mondo di fatiche degli agricoltori della “porca Beozia” (così l’autore) dell’VIII secolo a.C. e quello raffinato ed edonistico, altoborghese o aristocratico, evocato da Proust – si presenta come raccolta di materiali vari, racconti, poemetti in prosa, schizzi in punta di penna chiusi a partire dal 1892. A dire che possono leggersi autonomamente: eppure l’immersione nel testo come materialmente fluisce, il caleidoscopio di amori, riserve mentali, struggimenti e rimpianti trattiene non solo qualcosa di unitario e coerente su un panorama di salotti di un’estenuata Parigi d’epoca, ma riesce a offrire sorta di tabelle tassonomiche su un modo moderno, disincantato e insieme sofferto, di vivere i sentimenti, che in qualche modo prefigura – la finzione, il teatro – e insieme contrasta con quello dell’età dei social.
Di qui una freschezza frutto, evidentemente, di una voce ineguagliabile, attentissima ai mezzitoni e ai sottotesti labirintici delle narrazioni d’amore e interiorità: con la prima e fondamentale differenza, rispetto a quanto ci sentiamo farfugliare attorno nel naïf dei post o delle chiacchiere correnti, di una lucidissima e spiazzante consapevolezza. A Proust non si sfugge, incalza il tuo modo d’innamorarti, di vivere l’amore e lo stesso rimpianto d’amore, senza che tu possa accampare teatrini con te stesso o con gli altri. Puoi crederti un grande romantico (penso a quanto su facebook si pontifichi sui sentimenti), ma in fondo sei questo, svelato nell’intimo senza scuse. Ciò che dunque offrono I piaceri e i giorni anche a un lettore non cultore specialistico di letteratura francese tra i due secoli è, vorrei dire, più ancora che la pur straordinaria lezione di sensibilità descrittiva, ciò che Anatole France sintetizza nell’introduzione: “una sicurezza che stupisce in un arciere così giovane. Non è affatto innocente. Ma è sincero e schietto fino al candore, e piace così. C’è in lui qualche cosa di un Bernardin de Saint-Pierre depravato e di un Petronio ingenuo”. Un candore dunque ben poco buonistico: di qui un esame soavemente spietato, tagliente, lucido fino all’implacabilità, di una serie di meccanismi mentali, retropensieri e retrosentimenti, che non concedono spazio a un’ingenuità di comodo. Anche la critica allo snobismo – ricorrente in vari di questi testi, basti pensare a Le amiche della contessa Mirto o a Snob – può farci riflettere, allargandola magari ad altri salotti: il mondo dello spettacolo e della stessa editoria, tanto per non polemizzare.
Sentimenti, passioni e maschere sociali sono notomizzati con amabile complicità. Si pensi alle paturnie del protagonista di Le amanti di Fabrizio a riguardo delle caratteristiche mentali richieste alle medesime, o a quelle de L’incostante; alla sottile disamina di Contro la franchezza; alla pungente, brillante analisi degli stereotipi delle comunità amicali in Personaggi della commedia mondana; al labirinto sentimentale in Malinconica villeggiatura di Madame de Breyves, messa in scacco dal desiderio nevrotico per un uomo che pure riconosce “bruttino e volgare”… Ma anche nell’appendice non mancano testi dove le circonvoluzioni sentimentali flirtano con la nevrosi, come in L’indifferente (la cui protagonista Madeleine de Gouvres ha qualcosa a che vedere con Françoise de Breyves).
E ancora: i turbamenti (in parte autobiografici) di Confessione di una fanciulla, con il suo finale nero che da un lato sembra giocare con gli eccessi da feuilleton ma dall’altro è teso ad angosce da repertorio psicopatologico d’epoca (l’espressione lussuriosa e quasi gorgonica della narrante, che teme abbia scioccato sua madre fino a scatenarle l’apoplessia e farla finire “con la testa incastrata fra due sbarre della ringhiera” è del resto quella di infinite coeve Salomé simboliste); la consapevolezza in Reliquie, a proposito di una donna adorata, che “La sua più reale bellezza fu forse nel mio desiderio. Lei ha vissuto la sua vita, ma forse io solo l’ho sognata”; la commozione in Sonata al chiaro di luna, in quell’indefinibile rapporto con la donna che ci consola dolcemente da amori frustrati. Per non dire dell’illuminante, acutissimo, spregiudicato Origine delle lacrime racchiuse negli amori passati: “Il tornare dei romanzieri o dei loro eroi sui loro amori defunti, così commovente per il lettore, è una cosa, malauguratamente, alquanto artificiale”, o nell’altro pezzo Effimera efficacia del dolore: “Stamattina abbiamo già dimenticato la tragedia che ieri sera ci elevò tanto da farci considerare la nostra vita, nel suo complesso e nella sua realtà, con una pietà chiaroveggente e sincera”.
Del resto l’interiorità parla spesso il linguaggio del paradosso, come in Incontro in riva al lago dove uno scambio di persona riesce inaspettatamente consolante; in Sogno, sull’impatto curioso della nostra vita onirica sul mondo dei sentimenti; in Critica della speranza alla luce dell’amore, che vede la riflessione sul passaggio tra speranza e atto, tra futuro e opaco presente, dissipare con esiti delusivi i sogni di attese e fantasticherie (“Voi mi amate, piccola cara; come avete potuto esser tanto crudele da dirmelo?”, anche se poi a salvare l’amore è “l’indulgente e possente Ricordo che ci vuol bene e che sta facendo molto per noi, mia cara”).
È pur vero che il cerebralissimo lambiccarsi può condurre a distillare i sentimenti verso una maggiore nobiltà. Così, in Le rive dell’oblio, la morte permette di conciliarci con chi non ci ha amato come vorremmo, aprendo a una visione più equilibrata (e si può domandare semmai, ma l’autore è cosciente del dubbio, se occorra attendere il decesso dell’ex-amata e non si tratti anche qui di una sottile forma di rivalsa, che permette di tumularla tranquilli). Emblematica è poi la tortuosa, complicata giostra di tattiche con cui Honoré si rapporta all’amore per Françoise in La fine della gelosia, chiedendo a Dio di poterla amare per sempre, poi – visto che dubita di riuscirci – teorizzando, per quando si giungerà a uno sfilacciarsi del sentimento, uno sganciamento impercettibile… salvo iniziare a un certo punto a soffrire d’inattesa gelosia e in essa pasturarsi, fino a trovare nella morte un modo di porre fine a quei conati dolorosi di proprietà. Ma queste tattiche, questi giochini mentali ingenuotti e immaturi li conosciamo: noi stessi ne abbiamo magari fatto uso per fronteggiare passioni invincibili e nostre fragilità, sperdendoci nella fantasmagoria barocca di inconfessabili (per quanto in fondo umanissimi) retropensieri e retrosentimenti.
A volte l’insieme è surreale, come in Canovaccio, dove attorno a Honoré – nome che nella raccolta torna senza permetterci di esser certi si tratti dello stesso personaggio – gli oggetti intessono un teatrino di saggi consigli, che lui ovviamente disattende; a volte l’insieme si configura come scintillante pastiche, come in Mondanità e melomania di Bouvard e Pécuchet od offre fulminanti evocazioni in punta di penna, nei casi di Ritratti di pittori e Ritratti di musicisti; mentre Lo sconosciuto parla il linguaggio della letteratura fantastica di certe visioni di Doppelgänger alla Maupassant, con un fondo però di amaro che appartiene tutto alla realtà.
Poi certo, si tratta di un’opera minore che verrà attaccata da più fronti: sia da critici vicini all’autore, irritati dal considerarla promossa da amicizie prestigiose più che da un valore intrinseco; sia da chi – come il pestifero Jean Lorrain – la utilizza come pretesto per attaccare il dandy Robert de Montesquiou, presunto mentore di snob privi di talento; sia da critici più severi verso un’opera esile, civettuola e in fondo snob quanto i salotti su cui ironizza.
Paul Perret resterà invece perplesso dalla “cornice troppo vaga” dei racconti: si pensi solo all’implausibile Stiria affacciata sul mare di Violante o la mondanità, o alla Sylvania di La morte di Baldassare Silvande, visconte di (appunto) Sylvania – entrambe a evocare vagamente la Normandia. Ovvio che il cultore di letteratura fantastica aguzzi le orecchie: la Stiria richiama la regione della storia di Carmilla (dal racconto di Le Fanu apparso però in francese, parrebbe, solo molto più tardi, nell’antologia Histoires de fantômes anglais per Gallimard, 1936) e la “Sylvanie” enfatizza nel latino silva un richiamo alla Transylvanie cui Stoker l’anno dopo offrirà più ampi orizzonti fantastici. Del resto i toponimi Parma, Boemia e Miseno di titoli aristocratici da operetta, come le regioni d’Illiria e Danimarca evocate in Baldassare Silvande e altrove, corrispondono più a luoghi immaginari, shakespearianeggianti, che non a paesi reali. Il fatto è che, con buona pace di Perret per altri versi illuminato, proprio questa geografia fantastica è congrua a un teatro, quasi un fondale dietro cui si riconosca un intero mondo di attori, suggeritori e macchinisti. Come gli amori ostentati in salotto rispetto ai retrosentimenti dei giochini mentali, questi toponimi fantastici suggeriscono di guardare anzitutto dietro, tra le loro pieghe e piaghe cerebrali, e non nei Baedeker di chi viaggi.
Del resto, anche dove i luoghi sono autentici, finiscono col veicolare anzitutto stati d’animo, come la fine della giovinezza in Tuileries o la malinconia di Versailles – non a caso nella sezione I rimpianti. Fantasticherie color del tempo – o nell’Engadina onirica di Presenza reale, con “quei nomi di una dolcezza strana, tedesca e italiana insieme: Sils Maria, Silvaplana, Crestalta, Samedan, Celerina, Julier, val Viola”. A suggerire un loro richiamo anzitutto in virtù di musicalità e assonanza nella risacca interiore.
A fronte della monumentalità della Recherche (merita ricordare la coeva riproposta sempre in Oscar dell’illuminante compilazione di Giovanni Raboni, La Recherche di Proust. Episodi e argomenti del romanzo, Milano 2022), questo insieme di schizzi, ritratti ed emozioni analizzate come al microscopio di Pasteur suggerisce in qualche modo il magma da cui l’opera maggiore emergerà, o se si preferisce la fucina dove lo scrittore prepara la forgia. Ispirandosi al decadentismo raffinato e misurato di Montesquiou – che, ricorda opportunamente la ricchissima introduzione di Bertini, non esaurisce il profilo del barone di Charlus, come spesso si trova banalizzato, ma presenta tratti dello stesso nemico Lorrain – Proust organizza così la sua grande festa di esteti in pirotecnico spettacolo di se stessi, dall’alba del loro ingresso nel bel mondo alla morte (di Baldassare Silvande, a inizio opera, e di Honoré in La fine della gelosia, al suo termine) a scandire tappe di una recherche non solo sociale ma interiore, psicologica e in qualche forma etica. Certo non ancora quella dell’opera più matura, che spingerà l’autore a un distacco da quest’esordio, ma – come osservato già da Gide – “Tutto quel che ammiriamo in Swann o nei Guermantes si trova già nei Piaceri e i giorni, proposto sottilmente e quasi insidiosamente”. Quindi, al di là di ciò che può apparirci limite di un esordiente, andiamo senz’altro ad ammirarlo. Insidie comprese.