Un nuovo modello sociale ed ecologico a partire dai territori per ridare voce ai Comuni e alle comunità locali

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di Rossano Pazzagli (Direttore del Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini e professore di Storia Moderna presso l’Università degli Studi del Molise)

L’accesso ai beni comuni e ai servizi fondamentali per i cittadini, cioè ai diritti, è diventato sempre più difficile.

I processi di liberalizzazione, di privatizzazione e di concentrazione del potere hanno progressivamente inibito le forze endogene dello sviluppo locale, indebolito la democrazia e ridotto gli spazi dell’autogoverno. Per molti aspetti si è trattato di una deriva, connessa ai fenomeni di deterritorializzazione dell’economia e di marginalizzazione della maggior parte del territorio, che definiamo impropriamente come “aree interne”.

Per questo oggi si pone un problema di rinascita territoriale come orizzonte strategico per uscire dalla deriva neoliberista dello sviluppo economico e dagli squilibri territoriali che caratterizzano in particolare la realtà italiana.

La centralità del territorio e la rivalutazione della dimensione locale richiedono un processo di difesa e di riaggiustamento istituzionale che veda nei Comuni e nelle loro forme di interazione a scala territoriale la rete di base del governo e il principale riferimento istituzionale dei sistemi economici locali. Questi dovranno prioritariamente basarsi su coerenti strategie di empowerment delle comunità locali, sulla identificazione dei beni comuni e su nuove forme di economia che vadano nella direzione di un recupero della cosiddetta economia fondamentale, anche con forme comunitarie di gestione delle risorse che sostituiscano al modello competitivo quello solidaristico.

Nell’attuale fase di crisi strutturale del modello di sviluppo novecentesco, che ha polarizzato l’economia nelle aree nelle aree urbanizzate e lungo le coste, relegando i territori interni – prevalentemente rurali – in posizioni di marginalità, è necessario tornare ad occuparci dello scheletro dell’Italia e rafforzare la rete istituzionale rappresentata dai piccoli Comuni e dalle Istituzioni di base. Dobbiamo interrogarci sui soggetti depositari di interessi e competenze in quanto abitanti di una città o di un territorio, superando l’abusata retorica degli stakeholder (portatori d’interesse) e assumendo l’ottica di una effettiva partecipazione che vede nei cittadini i veri protagonisti delle scelte. Sono loro i “padroni” del Comune.

La partita si gioca, dunque, all’incrocio di partecipazione e rappresentanza, una dinamica che richiede soggetti attivi e strutturati per il governo dei processi locali. Tra questi, un ruolo di primo piano deve essere riconosciuto all’assetto istituzionale di base, che in Italia ha preso, appunto, la forma del Comune.

In Italia più che altrove, infatti, le Istituzioni municipali, storicamente modellate sui territori e su una linea evolutiva che ha visto coincidere molto spesso comunità religiosa, comunità civile e comunità fiscale, quindi politica e istituzionale, rappresentano anche il livello primario della democrazia e della rappresentanza politica. Il Comune è l’elemento centrale di una solida tradizione civica italiana che dal Medioevo giunge fino alla Costituzione repubblicana. Nel corso dell’età moderna esso si coniuga con la nascita degli Stati nazionali e si consolida resistendo ai processi di centralizzazione e di burocratizzazione, fino ad essere pienamente riconosciuto nelle costituzioni dell’età contemporanea.

Nell’ottica territorialista il ruolo dei Comuni è centrale, prefigurando una sorta di neomunicipalismo inteso non come localismo chiuso (campanilismo), ma piuttosto come leva della partecipazione e di una ritrovata rappresentanza territoriale in grado di integrare quella politica a partire da alcuni temi fondamentali (territorio, economia, cultura, ambiente e governo delle risorse, servizi e spazi pubblici, beni comuni, eccetera).

L’attacco fatto negli ultimi vent’anni all’autonomia comunale e al ruolo dei piccoli Comuni, insidiati e minacciati perfino nella loro sopravvivenza, costituisce uno dei problemi del nostro tempo caratterizzato dalla prepotenza del globale. Ecco perché “Riprendiamoci il Comune” non è solo un programma di revisione legislativa, ma anche una Campagna culturale e una potente metafora della democrazia di base.

È proprio partendo dall’idea di territorio come bene comune e dal concetto di patrimonio territoriale, che emerge il valore dei piccoli Comuni e delle autonomie locali, da considerare in un’ottica di apertura e di cooperazione istituzionale. Le realtà comunali al di sotto dei 5.000 abitanti rappresentano la maggioranza degli 7.900 Comuni italiani (il 70 per cento) e insistono in gran parte sulle aree interne del Paese. Questi Comuni vengono definiti “piccoli”, ma spesso sono grandi sia come estensione, sia in riferimento alle risorse economiche, ambientali e culturali che effettivamente o potenzialmente sono conservate nei loro territori.

L’articolo 5 della Costituzione italiana riconosce il ruolo delle autonomie locali e prevede che lo Stato adegui la legislazione “alle esigenze e ai metodi dell’autonomia e del decentramento”. Nel 1947 i Costituenti, pensando alla lunga tradizione civica dei Comuni e ai precedenti legislativi nel campo della tutela, inclusero dunque tra i principi fondamentali a cui avrebbero dovuto ispirarsi le politiche dello Stato il valore delle autonomie e la necessità di salvaguardare l’arte e il paesaggio, entrambi frutti pregiati della storia, proponendoci una straordinaria ed efficacie analogia tra bellezza e patrimonio, tra democrazia e autonomie locali.

Oggi c’è bisogno di riaffermare, insegnare e predicare la bellezza e il valore del territorio italiano, così come di rivitalizzare la sua articolazione istituzionale di base, tutti aspetti che invece negli ultimi decenni sono stati sopraffatti da politiche di stampo dirigista e tendenzialmente neocentraliste, nonché da logiche speculative sul piano economico e dell’accesso alle risorse. Il Paese e il Comune sono due fondamentali livelli di appartenenza, la base comunitaria e istituzionale delle identità collettive.

La tradizione comunale italiana trova un suo momento alto in Carlo Cattaneo, che già nell’Ottocento considerava i Comuni, e soprattutto i piccoli Comuni ben funzionanti, la spina dorsale della nazione. Per Cattaneo autogoverno e presa di coscienza da parte dei cittadini andavano di pari passo. In lui la tesi politica federalista si fondava proprio sull’idea dell’autogoverno comunale, sui Comuni considerati come “plessi nervei della vita vicinale”. Non a caso – sosteneva, suggerendo una connessione tra qualità della vita e autogoverno locale – la Lombardia poteva vantare storicamente al tempo stesso un notevole benessere e il più alto numero di piccoli e piccolissimi Comuni: essa era in effetti, secondo Cattaneo, la regione italiana con il maggior numero di strade, scuole, medici condotti e “ogni altra comunale provvidenza”.

Sull’onda di questa lunga tradizione, trascurata negli ultimi decenni, occorre tornare a riflettere sui concetti di autogoverno e autonomia, che non significano “fare da soli”, così come il neomunicipalismo non equivale a chiusura. Al contrario, i territori locali e plurali, con i loro profili istituzionali essenzialmente basati sul Comune, rappresentano il livello primario per sperimentare forme di governo pubblico centrate sulle comunità locali e sulle loro interrelazioni, coniugando autonomia e politiche di area vasta intesa nell’ottica del distretto o della bioregione. Si tratta di dare valore al policentrismo e di promuovere reti, associazionismo, collaborazioni intercomunali e funzioni comuni. Questa strada è percorribile utilizzando strumenti quali le convenzioni, le unioni intercomunali, i consorzi, le comunità di valle o di fiume, gli accordi di programma e altre forme pattizie e differenziate che possono costituire strumenti efficaci di governo dei processi territoriali senza perdere autonomia e rappresentanza. “Autonomi e insieme” dovrebbe essere il motto per procedere verso l’adozione di politiche comuni e l’esercizio associato di molte funzioni, evitando la cancellazione dei capoluoghi comunali, portata avanti in varie regioni nell’ultimo decennio con l’idea antistorica delle fusioni comunali, e salvaguardando il patrimonio di cultura, di valori sociali, di democrazia e di economia contenuti nei loro territori.

In questa prospettiva, oltre al Comune, possono assumere un ruolo attivo la scuola e le altre Istituzioni locali (dalle pro loco alle parrocchie, un tempo c’erano anche i partiti), le attività diffuse delle associazioni, delle famiglie, dell’intero tessuto civile per promuovere la conoscenza e per trasformarla progressivamente in coscienza di luogo e in coscienza ecologica, perché è proprio nella dimensione locale che è possibile misurare e sperimentare l’importanza di un ritrovato rapporto tra uomo e natura. Per tante ragioni dunque – sociali, economiche, culturali e ambientali – oggi sarebbe il tempo di ridare voce alle comunità locali e ai Comuni come loro primaria espressione e forma di governo, garanzia di diritti e servizi ai fini di una effettiva promozione dell’uguaglianza delle opportunità e della partecipazione popolare.

Foto: “Cvtastreetfest 2016” di rawsigns ( CC BY-NC-SA 2.0 ).  Streetart nel comune di Civitacampomarano (CB)

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 51 di Gennaio-Marzo 2023: “Riprendiamoci il Comune

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