di Iuri Lombardi
Riccardo Delfino, Versicidio, Terra d’ulivi edizioni, collana Deserti Luoghi, a cura di Giovanni Ibello, Lecce, 2023, pp. 60, euro 8,50.
È ancora fresco di stampa Versicidio, l’ultimo lavoro, il secondo per essere esatti, di Riccardo Delfino e la sorpresa pare esserci anche questa volta. Non solo perché Riccardo è – a mio avviso- uno dei poeti più bravi della sua generazione (il poeta ha appena ventidue anni), ma per il semplice fatto che questa sua ultima fatica poetica, che ho avuto il privilegio di seguire a cantiere aperto, viene ad arricchire il panorama della poesia contemporanea e il coro di quella che ho definito scuola romana. Ma procediamo per punti.
L’opera si divide in tre sezioni (Necessità, Baricentro, Terraferma) e, senza tanti convenevoli, il giovane poeta romano ci propone i temi a lui più cari, già presenti nella sua precedente fatica Il sorriso adolescente dei morti (RP libri). In effetti anche in Versicidio troviamo, ma accresciute e con maggiore smalto, la morte, l’amore, l’incomunicabilità dell’uomo contemporaneo, e quel pizzico di eresia che è tout court per il semplice fatto che Riccardo non solo va contro ogni realtà precostituita – la famiglia, lo stato, la religione, la sessualità- ma le smonta con pennellate di unicità lirica. Il tema della morte sembra di fatto essere caro al nostro Delfino, al punto di essere esplicita sino dai primi versi. Sorge così spontanea la domanda: di che morte stiamo parlando? A mio avviso non si tratta di una morte fisica, del noto trapasso, ma di una morte esistenziale che in Versicidio, a differenza del suo precedente lavoro, è molto meno astratta, molto meno metafisica e più materiale, coinvolge infatti la materia, la persona, il dolore della sopravvivenza quotidiana diventa fisico. E questo mi sembra esplicito sin dai primi versi che aprono il libro «quando viene quella scarica/accuratissima, stringo sempre le labbra/a due dita, è lei, è l’oscena prefazione/ del fine vita…», dove la morte si fa premessa del trapasso e diventa il viaggio stesso dell’esistenza umana. Per Riccardo pare non esserci altro modo per definirla, per farci sapere che lei (che potrebbe essere anche una donna) è parte della vita stessa e non un trapasso che si ottiene a meta raggiunta. Dunque, il discorso si fa materiale, privo di metafora.
Allo stesso tempo, medesima cosa è l’amore, vista non come un amarsi in due, come un esserci all’unisono, ma come un attitudine di sensi. Il sesso stesso si esplicita nella ricerca ossessiva dell’altro che ricorda il Pasolini di Supplica a mia madre «… ho un’infinita fame/d’amore, dell’amore di corpi senza anima». Una ricerca che fa dell’io del poeta l’Ulisse e il viaggio stesso, di un viaggio doloroso, sofferto, fisico a cui non è dato il conforto dello sbarco in terraferma. L’amore, questa ricerca spasmodica e probabilmente senza soluzione si muove « tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/per consegnare alla morte una goccia di splendore», come ci suggerisce in Smisurata preghiera Fabrizio De André. E il muovere gli ultimi passi – siamo sempre al margine e sul margine di qualcosa di non definito, ma sicuramente di compulsivo- conduce come Virgilio fa con Dante in una ricerca ontica, in un terreno quasi mai condivisibile con il prossimo «li preferisco di età prepuberale./Magri. Che paiono morti di fame». Ecco allora il terreno poco frequentabile dai molti, eccolo il tabù non condivisibile con il prossimo. L’amore si tinge di eresia, scardina i preconcetti, ogni istituzionale convenzione, va al di là di un rapporto d’etichetta, diventa trasversale, soggetto di un trasformismo inevitabile. Smontando quindi ogni sorta di convenzione e di istituzione – lo stato stesso, e per stato intendo il contesto, lo stato di cose- ecco che Riccardo riesce a plasmare molto, riesce a scardinare (finalmente!) la famiglia. Perché dissezionando l’amore, non facendolo secondo i canoni prestabiliti dalla maggioranza, inevitabilmente si scompagina la logica della famiglia. Famiglia intesa come unione tra un uomo e una donna che è destinata alla riproduzione e quindi della trasmissione di potere a cominciare dal cognome, mentre invece quella del nostro, l’idea che in esso serpeggia, è qualcosa che si concretizza e si tiene in piedi solo attraverso l’affetto; un elemento da non sottovalutare. È l’affetto ciò che muove il mondo, è questo impensabile sentimento (e il più delle volte dato per scontato) è l’asso piglia tutto, il jolly della vita stessa.
È scontato, per non dire ovvio, come il poeta sviluppa questo costituendo una propria geografia interiore, tirando dal taschino la propria bussola. Si tratta di una geografia romana, dei luoghi della sua infanzia, degli amori trovarti e lasciati, di quelli persi per sempre, della Roma per bene, lo spazio entro cui la lupa alleva i propri figli. In questo Riccardo è eretico, fuori misura, per la semplice ragione che non è condivisibile, si lascia fasciare dal vento dell’incomprensibile. Se Versicidio inizia infatti con la sezione Necessità e sviluppa un proprio piano d’attacco con Baricentro e infine con Terraferma è proprio perché Riccardo edifica una propria struttura, fonda richiamato dal canto delle sirene il suo mondo. Si tratta di un universo che lui difende con le unghia e con i denti, corazzato dal proprio cavallo di Troia.
Detto questo, al mio discorso sulla raccolta edita da “Terra d’ulivi” manca la giustificazione, il deterrente, l’ingerenza che costituisce l’alibi del delitto: la ragione dell’eresia. La giustificazione credo sia un discorso generazionale. In Delfino si riscontrano tutte quelle peculiarità che sono le fondamenta della scuola romana e che vedano in Gabriele Galloni il capostipite, l’apripista. Nello specifico non si tratta di una vera scuola, ma di un gruppo di poeti che sentono e percepiscono l’esistenza in una certa maniera. Si può parlare quindi di una tendenza romana. Sorvolo sui nomi di questa scuola per il semplice fatto che ogni esponente è diverso l’uno dall’altro e per età e per contenuti. Ciò che li accomuna è appunto una certa percezione, una assoluta sensibilità che fa della poesia un corpo civile dotata di una cifra stilistica di pregio. Questi elementi si possono brevemente elencare in due punti:
a) la morte come nuova possibilità dell’essere
B) l’amore per la vita
Questi due elementi, a partire dal primo punto, gettano le basi a livello di contenuto ad una ingerenza continua da parte di questi esponenti romani che trovano nella morte il senso dell’esistenza. Se la morte, infatti, come ebbe a dire Pasolini è il montaggio della propria vita, per questi poeti (nati dal ‘92 in giù) non è il passaggio finale, ma la lotta quotidiana, non è la resa ma la guerra consueta. La morte per loro coincide con la vita, e non c’è altra soluzione. È la lotta alla sopravvivenza.
In secondo luogo, ma non per ordine di importanza, li contraddistingue l’amore che questi autori hanno per la vita stessa. Nella vita si annidano morte e distruzione, lotta e speranza, ma anche rinascita e, al contempo, l’eresia; vale a dire la consapevolezza di infrangere certe regole convenzionali e le istituzioni stesse. Si tratta di un romanticismo di tendenza, un modo di percepire la vita e che Mario Praz nel saggio La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica riscontrò nei lirici metafisici inglesi. Insomma, siamo davanti ad un fenomeno che ha risollevato le sorti della letteratura contemporanea e lo ha fatto sia partendo dal piano stilistico sia dai contenuti.
Altro aspetto comune, ben lungi da prototipi precostituiti, è lo sviluppo in poesia di un piano prospettico, narrativo. Delfino, come il capostipite di questa scuola Galloni, non è un lirico, ma la sua poesia è un veicolo di un dramma a posteriori dove in esso germogliano possibilità narrative. L’opera stessa oggetto di questa mia riflessione è la prova schiacciante. Nelle tre sezioni della raccolta assistiamo a una forma stilistica che ricorda la migliore tradizione del poemetto, gettando le basi a una narrazione delle varie scene. Le liriche, i singoli testi non sono autosufficienti, non si tratta di istantanee, ma sono parti di una sequenza, di una storia. E questo è suggerito dalla mancanza di titoli dei singoli brani, elencati a numero romano progressivo.
Infine, mi sembra scontato gettare un occhio all’impianto ontologico della raccolta. A partire dall’io che come ci suggerisce la postfazione è mutevole. E lo è in quanto contemporaneo, fuori misura. L’io non più decodificabile spazia nel tempo e nello spazio, non fa sedere il poeta sulla cattedra come la tradizione (maledetta tradizione) vorrebbe. Permette invece all’autore una indagine più profonda, una presa di coscienza fino ad ora inedita. Il poeta della scuola romana, in questo caso Riccardo Delfino, scende dall’olimpo negli inferi, compie un viaggio in caduta libera, una rivoluzione antropologica che i colleghi delle generazioni precedenti non sono riusciti a compiere. Facendo questo il poeta diventa dimentico, la sua poesia diventa una esigenza di vita, un romanzo civile, che fa dell’esistere un perpetuo riaffermarsi. Non ci resta quindi difficile parlare di una poesia come scrittura di scena.
In ultima battuta, in zona Cesarini, tanto per usare un gergo calcistico, Riccardo incarna le caratteristiche di un autore contemporaneo per la consapevolezza che la poesia di oggi non ha futuro. È la poesia di un eterno presente, di un momento. Di un’espressione artistica che per fortuna vive una propria vita lontana dai chliché del mercato che la vorrebbero come merce. Mentre invece la poesia è un veicolo dell’oggi, di un adesso, senza tante pretese, e il poeta un giocoliere a cui spesso scappa di mano il cerchio.