L’attacco dell’esercito israeliano contro i fedeli palestinesi di Al Aqsa durante il mese del Ramadan hanno alzato ulteriormente il livello dello scontro tra Occupazione israeliana e palestinesi. Le violenze hanno valicato i confini stessi della Cisgiordania, con il coinvolgimento del Libano. Nella notte tra il 6 e il 7 aprile ci sono stati duri bombardamenti sulla striscia di Gaza e alla periferia del campo profughi palestinese di Rashidiye, nei pressi di Tiro, in Libano. A nuovi attacchi di coloni ed esercito contro i palestinesi, hanno fatto seguito altrettante risposte, dai cosiddetti “lupi solitari”. Ieri, 7 aprile, due colone israeliane dell’insediamento illegale di Efrat sono morte in seguito a un attacco armato palestinese nella Valle del Giordano. La sera, a Tel Aviv, un arabo israeliano di Kufr Qassem, Yosef Abu Jaber, poco dopo le 21.30 locali ha investito un gruppo di persone che passeggiavano sul lungomare di Tel Aviv. Nell’attacco ha perso la vita un italiano, Alessandro Parini, 36 anni. L’attenzione degli ultimi avvenimenti ha spostato rapidamente l’attenzione dalle grandi manifestazioni di piazza che per settimane hanno coinvolto l’opposizione di Netanyahu. Un’attenzione scemata dagli stessi promotori: l’ex premier Yair Lapid ha dichiarato che “non esiste opposizione quando si tratta della sicurezza di Israele”. Per Orly Noy[1], direttrice dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem per spingere davvero verso un cambiamento radicale non può esserci democrazia se questa continua a governare, opprimendoli milioni di palestinesi senza diritti. Articolo pubblicato in ebraico su Local Call e tradotto in inglese su 972mag. Traduzione Alessandro Berti.
Dopo 13 settimane di accese proteste con un coinvolgimento pubblico senza precedenti, la notte tra il 26 e il 27 marzo, abbiamo assistito a degli sviluppi che passeranno alla storia: non solo l’intensità delle proteste non si è fermata ma è stato persino uno sciopero generale dal sindacato dei lavoratori d’Israele. Ulteriori scioperi sono stati portati avanti nelle università, assieme a presidi di protesta sotto le ambasciate israeliane in diverse parti del mondo. Queste azioni, insieme all’atteso annuncio del primo ministro Benjamin Netanyahu di sospendere il suo piano di riforma della giustizia, hanno cambiato radicalmente quella che era l’atmosfera che si respirava durante le proteste, specialmente quelle che si sono consumate fuori dalla Knesset (parlamento) a Gerusalemme, non più intrise di rabbia e paura, ma colme di un senso di conquista collettiva.
Il fatto che le proteste possano aver avuto successo nell’ostacolare, o addirittura fermare completamente, la riforma della giustizia, rappresenta un momento critico per la società civile israeliana. Sapere che un attacco ai propri diritti è in grado di sfociare in un’ondata di rivolte partecipate da tutta la cittadinanza rafforza di molto l’ideale di democrazia.
D’altro canto è difficile ignorare il senso di dejavù che accompagna queste proteste. Poco meno di due anni fa, un’intera ala politica stava celebrando la caduta del governo di Netanyahu dopo svariate settimane di proteste che si svolsero su un arco temporale assimilabile a quelle attuali. Ieri, come oggi, i manifestanti erano uniti contro qualcosa – il regime di Netanyhau – anziché essere uniti per qualcosa.
Ma il punto più critico di tutti è la concezione che i manifestanti hanno del termine “democrazia” – un concetto attorno a cui si sono così intensamente mobiltati. Sia nelle cosiddette proteste Balfour che in quelle attuali contro il colpo di Stato giudiziario, la difesa della democrazia è stato il tema centrae; solo un gruppo limitato, anche se tenace, di manifestanti anti-occupazione ha cercato di sottolineare le connessioni tra la violazione dei diritti dei palestinesi nei territori occupati e la capacità di Israele di mantenere un regime democratico.
Durante le proteste di Balfour, Oren Ziv di +972 parlò con una moltitudine di manifestanti che giurarono che la caduta di Netanyahu sarebbe stata solo l’inizio. Successivamente, dicevano, sarebbe stato il momento di lavorare per sanare le iniquità all’interno della società e riportare giustizia laddove mancava. Dicevano che anche quando sarebbe sparito Netanyahu non si sarebbero fermati, ma infine così è stato.
Grazie agli sforzi dei manifestanti durante proteste di Balfour, un ingente numero di persone è venuto a conoscenza per la prima volta delle ingiustizie dell’occupazione ed ha iniziato ad interessarsi al problema; alcuni si sono approcciati all’attivismo e hanno iniziato a partecipare alle proteste ed alcuni continuano tutt’oggi ad accompagnare i pastori palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania. In generale però, dopo la ritirata di Netanyhau, le folle che erano scese in strada sono rientrate a casa ed hanno accolto il neoformato “governo del cambiamento” con un sospiro di sollievo.
Dato che queste proteste unirono la gente intorno all’intenzione di cacciare Netanyahu senza però averne definito un’alternativa, la coalizione ibrida che si formò intorno ad alcuni storici oppositori dell’occupazione, come Mossi Raz e Gaby Lasky, e ad esponenti dell’estrema destra come Naftali Bennett e Avigdor Liberma, fu recepita come una vittoria. Il governo formatosi ha però avvallato le demolizioni nell’occupata Gerusalemme Est , pressoché raddoppiate, è stato responsabile dell’anno più letale per i palestinesi della Cisgiordania degli ultimi due decenni, sacrificandosi infine sull’altare della salvaguardia del regime di apartheid nei territori occupati.
Questa riflessione non intende colpevolizzare la marea di centinaia di migliaia di manifestanti che si sono presi le strade durante gli scorsi mesi, né ha intenzione di mettere in dubbio le ragioni dei movimenti. Il punto è di ricordare a chi protesta che la società israeliana necessita di un cambio radicale che va ben oltre il prevenire una semplice, per quanto ingiusta e forzata, riforma della giustizia. Il fatto chiave è che questo governo sta pianificando di far passare delle leggi e delle politiche che hanno l’obiettivo di danneggiare i gruppi più vulnerabili: l’ulteriore privatizzazione del sistema educativo; l’eliminazione della Public Broadcasting Corporation e molto altro ancora. Non possiamo voltarci mentre tutto ciò sta accadendo sotto i nostri occhi.
Ma il cambiamento di cui abbiamo bisogno va oltre gli ignobili piani di questo governo. Il movimento di protesta ha portato con sé l’opportunità di discutere degli assiomi più basilari su cui è stata fondata la società israeliana e che continuano ad animarla a distanza di oltre sette decenni. Anche se Netanyahu annuncerà di congelare temporaneamente il colpo di Stato giudiziario – e anche se si spingerà fino ad annullarlo del tutto – la nostra autocritica è solo all’inizio e le domante a cui dovremo risponderci saranno profonde.
Se falliremo nel comprendere come siamo arrivati a questo punto condanneremo noi stessi al ritornare nella stessa esatta situazione in un prossimo futuro – non diverso da quello che è successo in seguito alle proteste di Balfour. Se non ci chiederemo dov’erano i cittadini palestinesi durante le proteste o non ci interrogheremo riguardo il ruolo del linguaggio militare e nazionalista che ha dominato durante le manifestazioni – che ha avuto si successo a livello tattico, ma che ha ulteriormente allargato il baratro tra cittadini palestinesi ed ebrei – non riusciremo mai a realizzare una vera democrazia che includa tutti i cittadini.
Se continueremo a concentrarci solamente sugli aspetti procedurali della democrazia, come la composizione degli organi della Knesset, o il richiedere la stesura di una costituzione ignorandone però i contenuti fondanti – come la vera uguaglianza, la libertà e la giustizia – ci ritroveremo ancora una volta con un sottile guscio vuoto di “democrazia”. Se ci rifiutiamo di capire che in questo momento la democrazia non può, per definizione, coesistere insieme ad un regime occupazionale, di apartheid e di supremazia, non solo ci ritroveremo inevitabilmente a soffrire contro una dittatura ma, la prossima volta, questa dittatura si presenterà in maniera ancora più violenta e sfrenata.
Immagine di copertina: Oren Ziv.
Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa farsi. È presidente del comitato esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti affrontano e definiscono le linee intersezionali che compongono la sua identità, come Mizrahi, di donna di sinistra, come migrante temporanea che vive all’interno di una condizione migrante perpetua, ed il costante dialogo tra esse.