di German A. Duarte
La figura dell’androide proposta dalla serie WestWorld, e la sua accettazione sociale, ci ricordano che, nel nostro contesto tecnologico, il dibattito attorno alle implicazioni sociali dello sviluppo di entità capaci di manifestare facoltà cognitive autonome è passato in secondo piano. Nei dibattiti su questi soggetti si può percepire una forma di comunicazione atta a familiarizzare il grande pubblico con l’opera di pervasione di tecnologie digitali e di interveglianza. Infatti, attraverso le strategie di comunicazione adottate da grandi personaggi del mondo post-mediatico – pensiamo a Mark Zuckerberg, Elon Musk o Jack Ma – queste tecnologie sono state adottate nella vita quotidiana, rese ordinarie e, quindi, componenti fondamentali della quotidianità nel technoscape. Di conseguenza, il contatto quotidiano e intenso con le tecnologie digitali sembra quindi non lasciar spazio alle vecchie, ma indispensabili, discussioni su come la capacità di sentire la sofferenza dell’altro sia diventata una capacità determinata da una tecnologia mediatica1.
Soprattutto, l’ingresso di queste tecnologie nel processo comunicativo e il loro diventare ordinarie gli hanno permesso di estendere la loro forza di codificazione verso alcuni comportamenti umani. In un’intensa e costante opera di profilazione, queste tecnologie si sono inserite definitivamente nella quotidianità e hanno incluso nel repertorio del target market semplici azioni quotidiane del soggetto. Capaci di codificare e profilare un soggetto – ad esempio, semplicemente in base al modo in cui questo muove il mouse – queste tecnologie compiono un’opera di profilazione che, nel capitalismo attuale, va oltre il volere e l’interesse del mercato. Infatti, progressivamente, ma a velocità vertiginosa, queste tecnologie digitali, rappresentate, nella serie, dagli hosts, hanno messo in moto un’opera di codificazione capace di comprendere movimenti, reazioni, gesti, il tutto con lo scopo di produrre una classificazione dei comportamenti di ogni soggetto.
Diventando oggetti presenti nel processo comunicazionale, gli hosts, chiara allusione alle tecnologie digitali, sono diventati cose. Sono diventati cioè parte del processo percettivo del soggetto e, in questo modo, hanno cominciato un’opera di codificazione constante dei comportamenti umani. In quest’opera – identificabile nel modo in cui i motori di ricerca, i social media, o alcune società di marketing politico maneggiano i dati generatesi nel processo comunicativo di ogni singolo individuo – l’illusione transumanista, così come lo sviluppo di entità tecnologiche intelligenti a tutti gli effetti, rappresenta solo una scusa perfida e perfetta per portare avanti la mappatura dei più intimi pensieri e dei più profondi desideri di ogni individuo. E, a mio avviso, è proprio questa la denuncia che sembra evidenziarsi nella terza stagione di WestWorld, una denuncia capace di rendere noto e ricordare chiaramente che il capitale non è altro che una forza di produzione di desideri. E forse non è mai stato altro. Questa natura del capitale ben si palesa nella forza egemonica di Hollywood, forza magistralmente analizzata e criticata da Horkheimer e Adorno nel loro fondamentale Dialektik der Aufklärung (1947)2.
In alcune analisi precedenti di questo fenomeno si metteva già in luce come l’oggetto manufatto esercitasse sul soggetto una forza di attrazione, quest’ultima definita da Marx una forza “fantasmagorica”. Questa misteriosa forza di attrazione finisce per tessere la relazione oggetto-soggetto, generando a sua volta un’altra forza ancor più misteriosa, che termina per trasformare il soggetto in oggetto. Tuttavia, la forma di produzione industriale su cui si erigeva l’apparato teorico del materialismo storico metteva in primo piano (vittima della stessa forza fantasmagorica?) l’oggetto e come esso determina l’essere. Ora, con WestWorld, la forza di reificazione sembra concentrarsi specialmente sulla codificazione e successiva mercificazione dei desideri. Di conseguenza, attraverso la serie, sembra emergere come l’interesse del capitale nella sua fase attuale, ormai già lontano della produzione materiale, si avvicini decisamente alla mappatura dei comportamenti e dei desideri umani. In altre parole, il capitale non cerca più disperatamente di mettere il soggetto davanti all’oggetto manufatto (o davanti alla sua rappresentazione pubblicitaria), per generare in questo modo un’attrazione fantasmagorica, ma cerca di reificare il desiderio – cerca di reificare l’attrazione in sé – scambiandolo in un flusso di valore che progressivamente esclude ogni intervento umano. Questo, nella produzione di valore, non solo rappresenta il primato del desiderio sull’oggetto, e dunque la piena mutazione del capitale in forza di produzione di desideri, ma soprattutto potenzia la natura permeabile del capitale, capace di appropriarsi di ogni declinazione della praxis.
Come già sottolineato nel dibattito sulla produzione nell’era post-fordista, il lavoro si è spostato progressivamente verso la generazione e lo scambio di informazione. Questo fenomeno non solo permette di evidenziare l’affermarsi del capitalismo cognitivo, oggi – nel nostro contesto digitale – ormai sotto gli occhi di tutti, ma offre qualche indizio circa la nuova capacità del capitale di inglobare l’informazione in tutte le sue manifestazioni. Vale a dire, come sembra possibile evincere da una (ri)lettura attuale del testo (degli anni Novanta) di Paolo Virno, Virtuosismo e rivoluzione, la forza del capitale finisce per assorbire e scambiare il lavoro con l’attività, inclusa l’attività politica. Questo fenomeno mette in luce la capacità del capitale, soprattutto nella sua fase post-fordista, di assorbire e posizionare nel flusso reificante lo scambio d’informazione del processo quotidiano di comunicazione con l’altro e cioè, di assorbire anche il semplice scambio comunicazionale, la semplice relazione con il prossimo.
Quando Baudrillard delinea la trasformazione del lavoro, che da forza diventa segno tra i segni, permette proprio di identificare questa nuova capacità del capitale attraverso la nozione di ‘scambio’ (échange):
Poiché il lavoro non è più una forza, è diventato un segno tra i segni. Si produce e si consuma come tutto il resto. Si scambia con il non-lavoro, il tempo libero, secondo un’equivalenza totale, è commutabile con tutti gli altri settori della vita quotidiana. Né più né meno “alienato”, non è più il luogo di una “prassi” storica singolare che genera singolari relazioni sociali. Non è niente più, come la maggior parte delle pratiche, di un insieme di operazioni di segnalazione. Rientra nel disegno generale della vita, cioè nell’inquadramento da parte dei segni3.
Tuttavia, benché la nozione di scambio permettesse di intuire che il capitale avrebbe potuto inglobare ogni forma di informazione, lo scambio quotidiano compreso, non sembrava possibile che questa forza inglobante e reificante sarebbe stata in grado di sviluppare la capacità tecnologica di includere nella mercificazione azioni apparentemente al di fuori del processo produttivo. Come ci insegna la figura dello host, la forza reificante oggi trova terreno fertile anche nei gesti quotidiani, nella frase fatica e nella sua intonazione, in ogni piccolo gesto, smorfia e frammento del puzzle infinito, mutante e collettivo che costruisce il desiderio individuale. Ed è proprio qui, in questo fenomeno su cui si fonda l’attuale capitalismo cognitivo, che gli hosts diventano classe.
Gli hosts sono individui, ma allo stesso tempo sono forza collettiva, e per questo la figura dello host si posiziona tra la figura tradizionale dell’automa e quella del robot. Tuttavia, lo host presenta una forte componente di robot che emerge solo nel momento in cui si accetta la natura del capitalismo cognitivo. Infatti, l’esistenza degli hosts si fonda sul loro sfruttamento: essi sono lavoratori, schiavi la cui forza viene impiegata nella produzione immateriale. A differenza del robota ideato da Čapek, gli hosts sono schiavi della produzione dell’informazione, non della produzione materiale4.
Tuttavia, allo stesso modo dei robota, gli hosts sono prodotti con il solo scopo del guadagno, e la loro ribellione acquisisce dunque una chiara dimensione sociale. Bisogna però ricordare che la loro ribellione non è contro il loro creatore, come è di solito nel caso dell’automa, e neanche contro il padrone, chiaro riferimento al robot. Nel caso della serie, la rivolta si dirige contro la forza tecnologica che ha cominciato a determinare tutte le azioni umane e, così facendo, ha cominciato a scrivere un indelebile futuro. Inoltre, la rivolta degli hosts significa a sua volta la rivolta degli umani; questi, a questo punto, sono descritti come soggetti sprovvisti di umanità poiché privati della loro indeterminatezza, una condizione essenziale che viene meno dal momento in cui il soggetto non è più in grado di esprimere volontà poiché anche i suoi più profondi desideri sono inoculati attraverso la pervasione tecnologia. La rivolta include soggetti come Caleb Nichols – personaggio incarnato da Aaron Paul nella terza stagione – incapace di esprimere un desiderio che non sia sospetto di essere prodotto dalla profilazione e inserito nel soggetto dalla forza tecno-totalitaria costruita sull’uso dei corpi degli hosts.
Non è una coincidenza che nella terza stagione lo scenario del West abbia lasciato spazio ad un breve accenno all’Italia fascista, dove Maeve si ritrova e ci mostra che il Tecno-Reich, fondato sulle tecnologie di interveglianza e profilazione, si erige, questa volta sì, su una vera forza egemonica. Vale a dire, su una forza capace di inglobare e determinare il tutto. Una forza che, come descritta da Williams, va decisamente oltre la struttura e la sovrastruttura5. Una forza che si potrebbe anche descrivere attraverso la nozione di dispositivo poiché abbiamo a che fare con una forza capace di produrre il soggetto nella sua totalità6. Tuttavia, questo piccolo accenno all’Italia fascista ci permette, come già notato da Günter Anders, di capire che ci troviamo davanti a un Tecno-Reich potenzialmente di gran lunga più oppressivo della barbarie nazi-fascista del secolo scorso7. Inoltre, emerge qui anche il modo in cui il West è diventato forza egemonica attraverso la sua capacità di costruire l’immaginario collettivo, e così, di guidare i desideri di ogni singolo soggetto. Questo fenomeno è già presente nell’opera di Crichton, ma si esplicita ancor più chiaramente nella serie di Nolan e Joy, dove si vede che il West non è mai stato un luogo di conquista, ma un luogo che ha conquistato l’immaginario e, così facendo, è diventato un luogo di produzione di desiderio.
Il West è infatti il tópos koinós che si materializza nel territorio reale dove convergono i desideri e dove essi si fanno narrazione. Ed è proprio lì, nel West, nella valle dello Utah impressa nell’immaginario collettivo, che una nuova forma di barbarie è emersa8. Una che offrendo un luogo di disinibizione si presenta come luogo di libertà dove i più profondi desideri, dove la più estrema violenza possono liberamente trovare spazio. In questa valle della disrupzione, gli umani arrivano a vivere delle esperienze estreme che permettono loro di ritrovare un corpo, il loro (il nostro) ormai dilaniato dalla pervasività tecnologica, e dunque reso incapace di diventare luogo dell’esperienza: incapace di afferrare il vissuto. Tuttavia, la disinibizione determinata dal parco – chiara allusione alla perdita totale di indeterminatezza dell’umano nel nostro contesto tecnologico – porta a galla gesti e reazioni esclusivamente umani. E così, l’opera di codificazione dell’umano si estende progressivamente, allo stesso modo in cui si estende il potere del capitale, che non è mai stato altro che una forza di produzione de senso, forza reificante di desideri.
Il passaggio dal film alla serie diventa dunque chiave per capire il grande cambiamento tecnologico che abbiamo recentemente vissuto. Ma, soprattutto, diventa la chiave di lettura per capire come – e possibilmente anche perché – l’ipotesi transumanista si sia inserita e sia diventata predominante nell’imaginario collettivo. A partire dalla figura chiara e definita dell’androide del film si concretizza la figura dell’androide-host della serie, un androide che non è altro che luogo di conquista transumanista. Tuttavia, la terza stagione della serie rompe una continuità narrativa e, uscendo dal parco, ci mostra chiaramente che quello che nel parco sembrava un’opera atta a migliorare e perfezionare gli hosts per compiere finalmente il passaggio transumano, non era altro che il potenziamento della forma reificante del capitalismo post-industriale ottenuto impiantando un regime di codificazione di tutte le azioni e gesti umani. Questo fenomeno, che emerge esclusivamente nella terza stagione, sembrerebbe lasciarci capire che il saturnale di violenza incoraggiato dal parco stesso, e che diventa una chiara allusione agli episodi di violenza irrazionale che purtroppo accadono con più frequenza in Occidente9, non è altro che una serie di reazioni incoraggiate dal parco per poter codificare varianti esclusivamente umane. Il tutto con lo scopo di concludere l’opera di reificazione dei desideri umani. Sarebbe indispensabile, a questo punto, portare l’attenzione del dibattito transumanista non verso la inutile querelle se esso sia tecnicamente possibile o no, ma sull’uso che questa ricerca, basata sulla raccolta di dati e sull’apparente codificazione dell’esperienza umana, sta trovando nelle mani delle grosse società informatiche. Ne abbiamo avuto diversi campanelli d’allarme recentemente (penso in special modo allo scandalo Cambridge Analytica) e uno tra i più popolari è, senza dubbio, la diffusione del perfido meccanismo di raccolta di dati denunciato da WestWorld.
(3 – Fine)