Al Book Pride di Milano edizione 2023 si è tenuta la presentazione di IM/PAZIENTE – Un’esplorazione femminista del cancro al seno, libro con il quale la casa editrice Capovolte lancia una nuova collana di saggi al cui centro si pongono le tematiche della salute mentale e di genere, con uno sguardo femminista.
La presentazione è stata condotta da Silvia Lucara, la traduttrice del libro originariamente scritto in francese, e Grazia De Michele, attivista, storica e scrittrice del blog “Amazzoni Furiose”. Le due hanno condotto un appassionato ed estremamente informativo approfondimento sul cancro al seno come questione politica, tra estratti del libro con l’uso delle parole di Maelle, la protagonista e scrittrice del libro, e le esperienze personali delle due moderatrici.
Fu bell hooks ad affermare che dal margine si vedono bene i meccanismi politici che governano la nostra esistenza; per Maelle, protagonista e scrittrice del libro, ricevere la diagnosi di un grave tumore al seno alla giovane età di 30 anni equivalse ad essere catapultata nella marginalità e in essa ritrovarsi sola, a subire una violenza comunicativa, simbolica, oncologica da parte del personale medico e della società che le era adesso così avversa. Ma è proprio in questa nuova, forzata prospettiva, che Maelle vede un’opportunità e nei tre anni successivi alla diagnosi, nonché i suoi ultimi anni, si prodiga nella ricerca e nella divulgazione della sua esperienza con il cancro al seno e delle sue conoscenze in materia con un podcast, con la scrittura e l’attivismo. Il motore di quest’attivazione è la rabbia ma anche il bisogno di comprendere, capire di più della situazione in cui si ritrova.
Il cancro al seno è più di un problema personale, è un problema sociale, è un problema politico.
Il cancro al seno, come altre malattie che riguardano statisticamente le donne, devono essere rilette e curate con un’ottica femminista che prenda in considerazione come le differenze di genere, il concetto di “femminilità” vengano impiegati e strumentalizzati nello studio, il modo in cui si parla e si intendono queste malattie.
La condizione di donna e la sua definizione sociale vengono poste al centro del trattamento e dell’esperienza di questo cancro:la donna senza seno, la donna senza capelli, la donna diversa dalle convenzioni prende varie, nuove forme a causa di questa malattia e questi aspetti diventano centrali. Il problema di salute, il cancro che si cerca di estirpare, diventa un problema estetico: basti guardare alla pratica del casco refrigerante, un escamotage che consente alle donne (perché solo alle donne è offerto come opzione) che decidono di indossarlo durante la chemioterapia di proteggere una parte di follicoli del cuoio capelluto e quindi permette di limitare la totale caduta di capelli – un casco a bassissima temperatura che deve essere portato per moltissime ore intorno alla testa; le lezioni di make-up offerte per insegnare alle donne a “ritrovare” la loro bellezza nonostante la chemioterapia; le protesi post mastectomia. Insomma, il genere e le sue implicazioni sono strettamente legati a come vediamo e affrontiamo il cancro al seno.
Sia Silvia Lucara che Grazia de Michele ci tengono a precisare come questa tipologia di cancro sia diventato un fenomeno di massa e conseguentemente anche un business con obiettivi non innocenti, ma di lucro e di sfruttamento, a partire dalle raccolte fondi delle manifestazioni e fondazioni nate per la sensibilizzazione su questo tema, fino ad arrivare al pinkwashing più sfrenato per cui nella giornata internazionale della donna o di sensibilizzazione riguardo al cancro al seno viene venduto il mocio color rosa.
Il pinkwashing è ormai un vero fenomeno del marketing che si dispiega in ogni angolo del consumismo occidentale, ma fu originariamente coniato come termine e fenomeno dall’organizzazione di attiviste e educatrici Breast Cancer Action negli anni ’90. Questa organizzazione fondata a San Francisco, California, fu tra le prime a denunciare che il cancro al seno non dovrebbe essere considerato come problema individuale, ma bensì come un’emergenza della sanità pubblica. Ancora oggi Breast Cancer Action è un punto di riferimento per la ricerca, l’educazione e il supporto riguardo a questa tematica e nel denunciare tutte quelle politiche ed aziende che strumentalizzano il colore rosa per il profitto, senza contribuire alla ricerca per questo cancro.
Infatti, pinkwashing è il profitto simbolico, non solo monetario che traggono certe aziende dalla strumentalizzazione del rosa come simbolo del cancro al seno. Molte aziende di cosmetici o di articoli e utensili per la casa userebbero il rosa, i fiocchi rosa e determinate pubblicità per incentivare il loro target di clientela – ovvero le donne – a comprare, a spendere il loro denaro per una “giusta causa” che le riguarda, il cui ricavato effettivo di tali trovate pubblicitarie non arriva mai per intero a fondazioni e organizzazioni che si dedicano autenticamente alla ricerca di una cura a questa diffusa malattia.
Un aspetto importante, poi, è proprio quello della cura della malattia e della ricerca su di essa – Maelle, come Barbara Brenner di Breast Cancer Action, si chiedono: da dove viene questo cancro e perché è così diffuso? E perché è così difficile trovare studi che si interroghino su queste domande? Le maratone, le campagne di raccolta fondi, gli sconti sui cosmetici per donare alla ricerca, le politiche governative, non si concentrano sulla radice del problema.
Abbandonarsi a derive complottiste diventa forse sin troppo facile quando posti di fronte a certe problematiche e complesse dinamiche, ma non è certo l’intenzione di Maelle né delle moderatrici; piuttosto rendono innegabile con le loro parole ed esempi fattuali che quando una condizione medica di larga scala si combina con un mercato prolifico per vari settori – dai macchinari medici e farmaci, ai cosmetici ed elettrodomestici – si incorre in un conflitto di interessi difficile da navigare.
Silvia Lucara e Grazia de Michele credono che ci voglia un’alleanza tra curanti e pazienti per capire i percorsi di cura giusti, le vere cause di questa malattia, le norme di genere e l’economia del profitto che ne influenzano la risoluzione. Il loro, insieme alle parole di Maelle, è un commosso invito ad arrabbiarsi, di quelle arrabbiature buone, perché “fare le brave non serve a niente” e non cambia le cose.