Pubblichiamo la traduzione di un breve articolo del filosofo francese Étienne Balibar, uscito ieri sull’edizione cartacea de L’Humanité. Questa traduzione precede una lunga intervista fatta a Balibar da due compagni che stanno seguendo per Globalproject questo importante ciclo di mobilitazioni in Francia.
Parliamo di un conflitto politico generalizzato, scaturito dal progetto di accelerare la distruzione dello Stato sociale “riformando” il sistema pensionistico e dalla reazione di massa, organizzata dai sindacati e sostenuta dalla maggioranza dei cittadini, che questo progetto ha immediatamente scatenato. Scontrandosi con l’arroganza delle autorità e la brutalità della polizia, questo conflitto sfocia in una crisi del regime attuale. Alcuni (tra cui io) pensano anche che il capitalismo riveli qui l’acutezza delle sue contraddizioni storiche. Ma come possiamo pensare a questa dinamica e alle possibilità che ne derivano?
Due concetti sono imprescindibili. Il primo è lotta di classe: al centro del conflitto, la questione strategica della distribuzione delle risorse tra la forza lavoro (tutti coloro che fanno vivere la società e i suoi servizi fondamentali) e la classe capitalista, ormai completamente internazionalizzata. Raramente abbiamo visto un governo incarnare così apertamente gli interessi dell’oligarchia finanziaria. Ma altrettanto raramente i dilemmi della proletarizzazione di massa o di una vita dignitosa sono apparsi in modo così globale, e politico. È sorprendente che siano stati i sindacati a fornirne il quadro e la coerenza.
Il secondo è insurrezione. Non il tentativo di “prendere il potere” o di “destituirlo” che il governo brandisce per legittimare la sua brutalità e che, specularmente, dei rivoluzionari da salotto chiedono a gran voce di portare. Ma un’insurrezione pacifica e democratica, che affermi la capacità del popolo di esercitare un ruolo guida nello Stato. Solo il prossimo futuro ci dirà se resisterà alla repressione, allo scoraggiamento e alla precarietà, per costringere il Presidente a fare un passo indietro e a istituire l’irreversibile.
Né la lotta né l’insurrezione seguono un piano, anche se hanno bisogno di obiettivi e di immaginazione. Tenendo conto delle nuove forze che si stanno aggregando oggi, delle forme di lotta in divenire, sottolineerò due esigenze. In primo luogo, la difesa delle libertà, a partire dalla sicurezza dei cittadini, e il diritto di occupare lo spazio pubblico in modo «oppositivo». Non dovremmo forse promuovere una conferenza nazionale per censurare le pratiche repressive, vietare le armi letali e rafforzare le garanzie costituzionali? Poi l’estensione della democrazia al di là dei contropoteri parlamentari, la cui forma non è più sufficiente per portare avanti la risoluzione delle “contraddizioni interne al popolo” (come sulla crescita e la decrescita). Gli eletti municipali potrebbero usare i loro poteri per invitare manifestanti e scioperanti a riunirsi per discutere, prima di eventuali Stati Generali di rifondazione sociale e politica.
Il rapporto di forza è fragile. La trappola è tesa dello scontro tra la rabbia di chi viene calpestato e la violenza di uno Stato militarizzato. Ma il popolo può inventare un’insurrezione adatta ai nostri tempi, unendo rivolta, ostinazione e innovazione istituzionale.