Riscoprire il valore di classe della Resistenza

In questi giorni di becero revisionismo sulla Resistenza operato dalle più alte cariche dello stato, riemerge con forza l’esigenza di riprendere in mano i fili della narrazione di una storia che in questo paese è stata mistificata fin troppe volte.

Non si tratta soltanto di opporsi a chi, erede di una tradizione che affonda le proprie radici nell’esperienza criminale della Repubblica sociale, non perde occasione per diffamare partigiane e partigiani. Si tratta anche e soprattutto di mettere in luce i tratti salienti di una parabola narrativa istituzionale che, iniziata fin dai giorni della Liberazione, è culminata nella situazione in cui ci troviamo oggi.

Fin dal dopoguerra si è cercato di trasformare quella massa di banditi irregolari – che per circa venti mesi avevano combattuto nazisti e repubblichini – in dei santini laici sui quali caricare tutto il peso delle aspettative tradite dalla neonata Repubblica. Non si potevano più descrivere i partigiani per quello che realmente erano stati: un miscuglio di identità, idealità, esperienze e tensioni variegate e contraddittorie nelle quali si intersecavano “innovative esperienze di democrazia diretta, bruschi ritorni ai modi della vecchia naja, pulsioni e pratiche anarchiche e autorità carismatiche dei capi per nulla democraticamente eletti”[1]. Bisognava conformarsi a quel racconto istituzionalizzato che cercava di ridurre un mondo complesso ad un’icona sterile e uniforme, pena la messa all’indice da parte dei principali partiti politici italiani. Un racconto che nel giro di pochi decenni avrebbe prima spento il ricordo di un esperimento – quello delle bande partigiane – unico per innovazione e propulsione nella storia del Novecento, e poi offerto il fianco ad un revisionismo privo di qualsiasi valore storiografico ma capace di dare il colpo di grazia ad una storia già ampiamente screditata.

Da decenni, al di fuori di alcuni lavori accademici e di qualche residuale sacca della società, la memoria della Resistenza appare sostanzialmente compromessa. Siamo addirittura arrivati al paradosso per cui la maggior parte di coloro che in buona fede intendono difendere questa storia non fanno altro che nutrire l’immaginario che ha contribuito a schiacciarla. Per non parlare di chi utilizza i logori vessilli della lotta partigiana come facile strumento di consenso elettorale o come mezzo per difendere lo status quo.

Quante volte abbiamo sentito dire che “questa è l’Italia che volevano costruire i partigiani”, che bisogna “difendere le istituzioni nate dalla Resistenza”, che abbiamo “la Costituzione più bella del mondo perché l’hanno scritta i combattenti antifascisti?”. Quante volte ci siamo interrogati sul peso di tali affermazioni, poiché comprendevamo che tra le persone comuni avrebbero avuto come conseguenza il rigetto dell’esperienza resistenziale? Se questa Italia fatta di sfruttamento, ingiustizie, corruzione era quella voluta dai partigiani, come potremmo provare simpatia per loro? Il fatto è che le istituzioni di questo Paese, figlie di un compromesso doppio, sul piano nazionale ed internazionale, non sono certo, nella sostanza, quelle che avrebbero desiderato la maggior parte dei combattenti della Resistenza. Ne consegue che le prese di posizione tese a far combaciare perfettamente le strutture di potere del dopoguerra e le aspirazioni partigiane, oltre ad essere scollegate dai fatti storici e intellettualmente disoneste, sono anche la causa del baratro in cui è precipitata la memoria pubblica della Resistenza.

Norberto Bobbio, a questo proposito, già nel 1965 aveva scritto: “l’Italia non è diventata quel paese moralmente migliore che avevamo sognato: la nuova classe politica, salvo qualche rara eccezione, non assomiglia in nulla in quella che ci era parsa raffigurata in alcuni protagonisti della guerra di Liberazione, austeri, severi con se stessi, devoti al pubblico bene, fedeli ai propri ideali, intransigenti, umili e forti insieme; anzi ci appare spesso faziosa, meschina, amante più dell’intrigo che della buona causa, egoista, tendenzialmente sopraffattrice, corrotta politicamente se non moralmente e corruttrice, desiderosa del potere per il potere e peggio del grande potere per il piccolo potere”[2]. Queste parole oggi appaiono ancora più profonde e attuali, e meritano di essere rilette in senso ancora più radicale: se l’Italia non è diventata quel paese che alcuni avevano sognato è proprio perché, lungi dal dar seguito alle esperienze maturate in seno alla Resistenza, la neonata Repubblica ne ha sfruttato e logorato la memoria, disinnescandone il portato ideale e rendendo di fatto incompiuta la sua opera rigeneratrice nella società.

Già alla fine degli anni ‘90 Cesare Bermani, nel suo “Il nemico interno”, parlava dell’urgenza di liberare la Resistenza dall’abbraccio mortale della memoria istituzionalizzata che si dimostrava, in quel periodo, sempre meno capace di resistere alla narrazione dei post-fascisti sugli anni della guerra civile. Pena, come poi è effettivamente avvenuto, l’ulteriore annacquamento dei valori resistenziali e il dilagare di un ignominioso tiro al bersaglio fatto contro i partigiani.

È deprimente pensare a come sono stati strumentalizzati i ragazzi e le ragazze della Resistenza che nel fiore degli anni, animati da un desiderio di profondo rinnovamento di ogni piano della società, erano disposti a dare il sangue per trasformare un’utopia in realtà o semplicemente per ribellarsi ad uno stato di cose che non riuscivano più ad accettare. Su questo tributo di vite spezzate in molti hanno costruito la propria legittimità politica, e soprattutto hanno consolidato un assetto istituzionale di cui intere generazioni hanno pagato i limiti, le contraddizioni e finanche le aberrazioni. Una violenza memorialistica, quella mossa contro la maggior parte dei combattenti della Resistenza, che lascia attoniti e sgomenti, ma che soprattutto riempie di rabbia. Non c’è peggior vergogna che sfruttare i morti, il loro sacrificio, la loro anima. Perché i morti non si possono difendere, non possono levarsi in piedi e urlare “non in mio nome”.

A questa retorica monca, a tratti palesemente falsa ed evidentemente fallimentare, noi pensiamo vada sostituita una narrazione schietta e ancorata ai fatti, che se non riuscirà a trasmettere alle nuove generazioni gli ideali, i sentimenti, le pulsioni che hanno animato la Resistenza avrà quantomeno il merito di svincolare i partigiani da un immaginario che ne compromette seriamente il ricordo.

Dobbiamo tornare a raccontare la Resistenza per quello che è stata realmente. Una guerra civile contro gli italiani che rimangono fedeli al fascismo, una guerra di classe contro le componenti più reazionarie della società, una guerra contro gli occupanti tedeschi per la liberazione della nazione, una guerra di genere per la liberazione della donna dalle strutture patriarcali della società, una guerra per la democrazia reale, fatta di partecipazione diretta delle masse popolari alla vita politica del paese.

Se vogliamo fermare questa nuova vecchia destra e il suo strisciante negazionismo occorre quindi affermare senza tentennamenti che questa non è l’Italia dei partigiani, questa è l’Italia che i partigiani avrebbero provato a cambiare ancora una volta senza chiedere il permesso a nessuno.

La Resistenza rivive, nelle forme e negli strumenti della contemporaneità, in tutti coloro che animati dagli stessi ideali di giustizia sociale, libertà e fratellanza lottano contro ogni oppressione di questo tempo.

Immagine di copertina: partigiani sul Ponte di Rialto a Venezia nei giorni della liberazione del capoluogo veneto dai nazifascisti (28-29 Aprile 1945).


[1] Santo Peli, La Resistenza in Italia, Einaudi, Milano, 2004, p. 210.

[2] Riportato in Giorgio Bocca, Storia dell’Italia Partigiana, Mondadori, Milano, 1955, p. 528.

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