di Franco Pezzini
(Qui e qui le puntate precedenti)
Lo stesso anno in cui Amaràvia di Monica Acito veniva premiato al call Calvino come racconto più votato dai lettori, in parallelo un altro gioiello della forma breve, Il volo notturno delle lingue mozzate di Beatrice Salvioni, riceveva per lo stesso call il premio della giuria. Entrambe le autrici si sono formate alla scuola Holden, ma entrambe mostrando personalità autorali di spiccata e autonoma originalità: nell’Italia delle scuole di scrittura, dove il rischio è sempre il ricalco dello stile di chi insegna o magari dirige l’intrapresa, Acito e Salvioni hanno invece tratto di lì (sanamente) quel che dovrebbe sempre offrire una scuola ben funzionante, non scorciatoie stilistiche, tic o omogeneizzati espressivi ma una formazione seria, una educazione (da “e-ducere”, tirar fuori qualcosa che sta dentro come una potenzialità da riconoscere) alla scrittura in nessun modo appiattibile su una formula premasticata.
Affascinante dunque che pochi giorni dopo l’uscita di Uvaspina di Acito per Bompiani, anche Salvioni sia apparsa in libreria con un altro bel romanzo, La Malnata per Einaudi (pp. 241, € 17,50, Torino 2023). Un grande romanzo di formazione, una storia che tocca e commuove sobria, senza sbavature melense, su un’amicizia di quelle che cambiano la vita: il legame della voce narrante Francesca, figlia dell’agiata borghesia industriale lombarda, con la ragazzina reietta non solo di ceto popolare, ma portatrice (tutti dicono) di maledizione, Maddalena detta la Malnata.
Il set stavolta è Monza nel 1936, in un’Italia dove lo sguaiato virilismo fascista – quello il cui pacchetto di idee e ideali viene rivendicato con discutibile orgoglio come parte della storia personale di importanti personaggi del paese di oggi – è insieme effetto & causa di certo becero e aggressivo sessismo patriarcale ampiamente diffuso nel paese. Nessuno stupore dunque che la Malnata (evitiamo spoiler, ma questo si può dire), in parallelo allo stringersi del tenerissimo legame con Francesca, finisca presto con il conoscere difficoltà con i coetanei maschi della banda, che su di lei vorrebbero mantenere il monopolio, e stanno assorbendo a fiotti il maschilismo d’accatto dell’orbace. Sullo sfondo, lo squallore storico delle gloriose imprese africane portatrici di inutili lutti, il “gretto conformismo” (così la quarta di copertina) di un mondo di cui i genitori di Francesca sono l’immagine – il padre affettuoso ma assente, ripiegato sui propri utili ben oltre qualunque limite di dignità, e una madre ripugnante ma in fondo prodotto di adattamento opportunistico all’ambiente. Più rasserenanti alcune figure minori, dalla bonaria domestica di casa, ai familiari di Maddalena al commerciante – burbero ma capace di qualche generosità – vittima delle malefatte della banda dei Malnati.
Francesca, già ragazzina ammodo secondo le regole calate addosso, impara così a trasgredire a muso duro alla attese del suo mondo, grazie all’affetto, all’imitazione solidale e all’empatia con Maddalena: dove in fondo la prima eversione non è tanto quella di avventurose prove iniziatiche a rubare mandarini, quanto piuttosto l’aprirsi a un’affettività esplicita, profonda e pulita con l’amica, umanamente tanto più ricca di quanto respirato tra i muri di casa.
Ma a colpirci e farci innamorare è proprio il personaggio eponimo, l’incredibile, durissima e insieme inimmaginabilmente tenera Maddalena. Di nuovo, è impossibile dire quanto di malocchieggiante attorno a lei si verifichi in grazia di una sua forza magica oggettiva, imputatale dagli altri e brandita con qualche convinzione da lei stessa (anche in funzione di autodifesa), o se tutto si possa spiegare con una serie di banali incidenti, patologie trascurate e cause comunque naturali, rilette nella luce livida delle superstizioni da strapaese. La soluzione razionale pare più plausibile ma anche qui l’autrice non forza la cifra, lasciando che un vago fiato fantastico resti come ai bordi di una storia mainstream crudamente reale e realistica. Il fantastico è semmai nel sogno di una sodalità tanto affettuosa e libera tra le due ragazze in un mondo nel complesso tanto plumbeo, dove gli spazi di umanità (che pure ci sono) restano intimiditi e incantonati come dalla feccia di regime.
E qui, di nuovo, è impossibile non pensare alla splendida prova breve dell’autrice al call di due anni fa: là, su uno sfondo folk horror, quindi di genere, si parlava di lingue che in una fantomatica comunità patriarcale vengono mozzate alle donne riconosciute portatrici di uno strano potere di convinzione (ipnotica?); qui c’è un rito di magia popolare con la lingua tagliata di un’oca, rito che in apparenza vedremo andare a effetto – anche se di nuovo con il dubbio/imbarazzo che connota le soluzioni fantastiche. In entrambe le vicende il conflitto è tra un patriarcato feroce e la rivendicazione di un’autonomia femminile: dove la ribellione è presentata in forme lontane anni luce da manierismi tiepidi ed educate paturnie da salotto (quelli che oggi in fondo vendono di più tra i grandi editori), con una forza eguale e contraria alla crudeltà volgare dei diversi fascismi in scena. Nessun rischio di melensaggine: la Malnata non è affatto un modello da buonisti (ruba, combatte con rabbia, scandisce maledizioni) e resta una combattente che non concede spazio a minuetti da moderati.
Nessuno stupore che la giovanissima Zora, tosta eroina di Il volo notturno delle lingue mozzate in un tempo incerto forse medioevale, possa vantare qualche robusta parentela con lei. Non certo a ridurre l’originalità di personaggi o soluzioni narrative di cui è capace Salvioni – originalità invece estrema, sia nel racconto che nel romanzo, nel rispetto dei rispettivi, diversi linguaggi: ma a ricordare un’urgenza intransigente di ribellione a modelli che ci si affanna a proclamare errori del passato, mentre sono connaturati a una certa sentina antropologica. Modelli tali, d’altra parte, da non esaurirsi nel solo fascismo “storico”, che pure ne costituisce il precipitato più emblematico: in questione è un mix sgomitante di brutalità e vittimismo, virilismo sordido e semplificazioni ignoranti di realtà invece complesse, che ristagna nell’occidente e trova voce in certi soggetti politici, in certe testate reazionarie, in certe equivoche tolleranze (“io non sono fascista, ma…”) da uomo della strada. Non siamo nel passato vago di Il volo notturno delle lingue mozzate e neppure nel Ventennio, ma cellule di queste brutture sono in fondo nascoste sotto il manto di equivoche “presentabilità”, battute rivelative, amnesie e relativizzazioni pelose, tutto intorno a noi. E ben fa la letteratura – quella vera – a ricordarcelo, magari per mezzo di una ragazzina di “cattivo esempio”, Maddalena o Zora che sia.
Una scrittura equilibrata ma intensa regge il romanzo, segno di una maturità stilistica notevolissima in un’autrice tanto giovane (1995; la collega Acito è del 1993). Le descrizioni d’ambiente sono vivide, l’introspezione è condotta con grande abilità e i ritratti sono felicemente scolpiti. Il passaggio dalla primissima scena col fascista stecchito sul greto – che di primo acchito può far pensare al linguaggio del genere – a un insieme sicuramente mainstream è gestito con abilità e fluidità estreme. E ci scopriamo a considerare che di più Malnate avremmo in fondo un gran bisogno.
(3. continua)