Non si contano ormai i film o le serie TV direttamente tratte o derivate da videogiochi. In linea di massima l’abusato meccanismo spettacolare consiste nel ricalcare pedissequamente scenari e personaggi videoludici per indurre i fan del gioco a consumare passivamente anche l’audiovisivo rivivendone, almeno in teoria, le emozioni (e lasciandoli di solito insoddisfatti, data la natura non interattiva della fruizione cinematografica o televisiva rispetto a quella della console) e, in parallelo, auspicando che gli spettatori casuali dello show diventino acquirenti anche del gioco. Un automatismo analogo a quello che regge le produzioni dei film di super-eroi, ispirate ai fumetti ma impossibilitate a ricreare la libertà immaginativa di una dimensione disegnata e priva di spazio, e perciò inevitabilmente cristallizzate in uno sterile e monotono parossismo virtuosistico di effetti speciali. Spettacoli riservati – salvo rare eccezioni – a teen agers incolti o ad adulti mentalmente deprivati dove, per bene che vada, conta solo l’action fine a sé stessa e lo spara-spara più trucido.
Non sempre è così però. The Last of Us, videogioco adventure pluripremiato, sviluppato nel 2013 da Naughty Dog sotto la direzione creativa di Neil Druckmann e Bruce Straley, e pubblicato da Sony per varie piattaforme di playstation, infrangeva gran parte delle regole videoludiche più codificate centrandosi soprattutto sui personaggi, problematici e psicologicamente credibili, e sui loro rapporti; sull’empatia riguardo a coesione ed interazione fra individui, più che sulla velocità di reazione da parte del giocatore. Il successo unanime di un’avventura a suo modo intimista, in cui il delicato evolversi, nel corso di sanguinose peripezie vissute insieme, del rapporto padre-figlia fra due estranei, un adulto e una ragazzina, conta quanto, e forse addirittura di più, dello scenario apocalittico da survival-horror, dimostra che esiste un pubblico meno sprovveduto di quanto si vuole credere. C’era bisogno soprattutto, per ottenere questo risultato eccellente, di uno scrittore originale e coraggioso – Neil Druckmann – di un’ineccepibile grafica iperrealistica che restituisse quasi fotograficamente i paesaggi – in rovina – di Boston, Lincoln, Pittsburgh, Jackson, il Colorado e Salt Lake City, località attraversate dai protagonisti nella loro odissea; e di una colonna sonora di grande impatto, centrata sull’emozione e non sull’orrore, come quella realizzata dal compositore argentino Gustavo Santaolalla.
Era ovvio che dopo un tale successo nel campo dei videogiochi seguisse la necessità di un adattamento seriale e nel corso del 2021 viene finalmente realizzata la serie TV distribuita da HBO, in nove puntate, girata interamente in Canada e dichiarata la più grande produzione televisiva nella storia canadese. Lo showrunner è Craig Mazin, creatore della miniserie Chernobyl, in collaborazione con lo stesso Neil Druckmann, direttore creativo del videogioco; anche la colonna sonora resta di competenza del già esperto Gustavo Santaolalla in coppia con David Fleming. I protagonisti sono incarnati rispettivamente da Pedro Pascal, già noto per il ruolo del principe Oberyn Martell di Dorne in Il Trono di Spade e per quello dell’ispettore Peña in Narcos, e la giovane Bella Ramsay che ha debuttato come Lyanna Mormont sempre in Il Trono di Spade e si è distinta come Angelica nella seconda stagione di His Dark Materials. La selezione del cast risulta particolarmente azzeccata anche rispetto ai personaggi del videogioco: è stata molto dibattuta, ad esempio, la scelta della Ramsay, Bella di nome ma, secondo il superficiale giudizio di alcuni, non di fatto; la figura non della solita lolita bambolesca ma di un’adolescente normale, addirittura bruttina – almeno secondo i criteri convenzionali – conferisce invece al personaggio uno straordinario carisma, assai superiore all’omologo originale. Senza nulla togliere alla grande efficacia di Pedro Pascal, è Bella che – con il suo cipiglio determinato capace tuttavia di sciogliersi in certi momenti in sorrisi di devastante dolcezza – emerge come la rivelazione e la vera star dello show.
La trama del serial resta molto fedele a quella del videogioco, a parte alcune importanti modifiche che approfondiremo via, via più avanti. Una storia che, a grandi linee, si colloca all’interno del genere fanta-horror apocalittico-survival, sicuramente ispirato allo zombie-movie nella tradizione di Romero (ma più quello dei Crazies de La città verrà distrutta all’alba che quello dei Ghouls del ciclo dei Living Dead); al The Walking Dead di Robert Kirkman (il cui apporto creativo al sottogenere si può ormai considerare definitivamente concluso visto la monotonia e la ripetitività senza sbocchi del fumetto e delle serie derivate, Fear The Walking Dead, ecc. Kirkman stesso è diventato uno zombie…); al classico di Richard Matheson I Am a Legend del 1954 con tutta la cospicua filmografia a questo ispirata, o ai suoi corrispettivi colti come The Road di Cormac McCarthy e il film omonimo che ne ha tratto John Hillcoat.
L’intuizione narrativa più notevole di Druckmann è il presupposto strettamente scientifico dato come causa dell’infezione pandemica che provoca il crollo dell’umanità, collocandola così in pieno campo sci-fi, più vicina, quanto a modelli fumettistici, a L’Eternauta che a The Walking Dead. Il fungo parassita Cordyceps – realmente esistente, chi è interessato può leggerne l’interessantissima descrizione botanica nel best-seller divulgativo L’ordine nascosto: la vita segreta dei funghi di Merlin Sheldrake – che infesta insetti, in particolare formiche, condizionandone il comportamento tramite sostanze psicotrope rilasciate nell’organismo e riempiendone il corpo con il proprio micelio fino a uccidere l’ospite e perforarne l’esoscheletro con ife capaci di liberare nuove spore in posizione favorevole per ricadere e germinare su altri artropodi, fa uno spillover a Giava nel 2013 (anno di uscita del gioco, che diventa 2003 nella serie, in modo che l’azione descritta, che si svolge vent’anni dopo il contagio globale, coincida con il 2023 quando lo show viene messo in onda). Il Cordyceps comincia ad attaccare gli uomini invece degli insetti trasformandoli in un incrocio fra i crazies e gli zombies romeriani, ma dai movimenti niente affatto rallentati, semmai accelerati, dalla forza e dalla capacità di incassare i colpi moltiplicata e con orribili infiorescenze fungiformi che fuoriescono da tutti gli orifizi corporei: il culmine è raggiunto nel Bloater, un infetto nel cui corpo il parassita ha proliferato per anni rendendo l’ospite una sorta di uomo-fungo gigante e potentissimo. Nel videogioco il contagio non avviene solo tramite il morso di persone infette o lo scambio di fluidi con esse, ma anche con l’inalazione delle spore del fungo che vengono disperse e possono permanere nell’aria. Nella serie invece si è preferito eliminare quest’ultimo aspetto per evitare che gli attori indossassero troppo spesso maschere antigas o simili, limitandone movimenti ed espressività. E’ stata invece aggiunta l’idea, assente nel gioco, della rete di comunicazione fungina tramite micelio che consente agli infetti di trasmettersi informazioni anche a grande distanza.
Le altre variazioni apportate non modificano sostanzialmente lo scenario fondamentale ma riguardano solo piccoli snodi della trama o personaggi minori. ll protagonista della storia resta Joel Miller, che ha perduto tragicamente la figlia teen ager nei primi giorni del contagio, vent’anni dopo è ormai un uomo assuefatto alla morte e alla violenza, in una civiltà decimata dall’infezione, e costretta a vivere in zone di quarantena sotto uno stretto regime poliziesco. Joel è un contrabbandiere nella ZQ, zona di quarantena di Boston, e assieme alla compagna Tess dà la caccia a Robert, un trafficante del mercato nero, per recuperare armi che ha loro sottratto. L’uomo ha però venduto il carico alle Luci (Fireflies nell’originale), una milizia ribelle che si oppone alle autorità della FEDRA, forza militare che controlla le zone di quarantena. Così Joel e Tess incontrano Marlene, capo delle Luci, che affida loro un compito: scortare la quattordicenne Ellie incolume, a un gruppo di suoi compagni nel palazzo del Governo, fuori dalla zona di quarantena. Ellie, si scoprirà, è così importante perché è stata morsa e non si è infettata, è presumibilmente immune al contagio del Cordyceps: studiandone l’organismo in un laboratorio attrezzato si potrà cercare di ottenere un prezioso vaccino. Giunti fortunosamente a destinazione i tre trovano però tutti morti e il palazzo del Governo pieno di infetti, Tess, morsa a sua volta, si sacrifica per permettere ai due sopravvissuti di mettersi in salvo. A questo punto non resta a Joel che intraprendere un disperato viaggio attraverso un’America devastata per ritrovare le Luci e Marlene, e consegnare loro Ellie, portando comunque a termine altrove la missione che potrebbe rappresentare la salvezza dell’umanità.
Non mi dilungo oltre sulla trama per non spoilerare eccessivamente. Da segnalare l’estrema compattezza figurativa della ricostruzione filmata che rispetta ed esalta i toni plumbei e deprimenti della grafica del gioco. Interessante lo scavalcamento di molti degli stereotipi del sottogenere che vengono non infranti o disattesi ma aggirati e riletti in chiave intimista e psicologistica. Si evita, pur nel ripetersi inevitabile di certe situazioni e personaggi chiave – il maggior pericolo, ormai lo sappiamo, sono gli uomini, molto più dei mostri, crazies, zombies o mezzi funghi che siano – di cadere nella noia mortale del meccanismo risaputo e prevedibile in cui languono da anni The Walking Dead e i suoi epigoni. La raffinatezza formale delle produzioni HBO emerge come sempre e il tono generale della serie è fortemente caratterizzato e peculiare. Molto equilibrato l’alternarsi di scene d’azione concitate e violente ad altre statiche e riflessive di dialogo o di significativi silenzi, così come il passaggio da descrizioni spietate – Joel realisticamente non si fa più scrupoli morali e, per proteggere Ellie o sé stesso, non esita ad uccidere a sangue freddo anche prigionieri inermi, feriti o disarmati – ad altre di tacita e velata ma profonda tenerezza. La storia alla fine è quella di un padre che ritrova la figlia perduta.
Interessante anche il modo non stereotipato in cui gli sceneggiatori affrontano il tema dell’omosessualità nella quinta e nella settima puntata. I personaggi di Bill e Frank, presentati come gay anche nel gioco, ma del tutto secondari, acquistano nell’episodio cinque profondità e spessore: il burbero Bill, isolato nel suo quasi inespugnabile rifugio, si ritrova per caso ad ospitare il gentile e leggiadro Frank e il loro temporaneo sodalizio si trasforma nella convivenza decennale di due coniugi; se Bill sembra all’inizio accettare le affettuosità di Frank solo per interrompere una troppo pesante solitudine in mancanza di donne disponibili, il rapporto fra i due si trasforma presto in una delicata e romantica storia d’amore con tanto di suicidio finale a due, in stile Tristano e Isotta o Giulietta e Romeo. Con la stessa mancanza di forzature si allude nell’episodio sette – ispirato a Left Behind, espansione prequel del gioco – al rapporto fra Ellie e l’amica Riley Abel, un gioco di bambine dalle soffuse sfumature omoerotiche in un grande magazzino abbandonato: l’idillio è bruscamente interrotto da un infetto che le attacca mordendole entrambe; Ellie scoprirà così la propria immunità ma sarà costretta a uccidere l’amica non altrettanto fortunata.
Sull’immunità di Ellie, in preparazione della seconda stagione già annunciata, viene fornita una spiegazione assente nel gioco, aggiungendo un episodio inedito finale che permette, tra l’altro, di dare un ruolo nello show ad attori che avevano prestato voci e fattezze ad altri personaggi sulla console: la madre di Ellie, incinta, viene morsa da un infetto e partorisce poco dopo. L’amica Marlene, futuro capo delle Luci, dovrà ucciderla promettendo però di prendersi cura della bambina appena nata.
In conclusione dunque un grosso lavoro di riscrittura e rielaborazione del testo che lo reinventa e lo riadatta ad un altro linguaggio, in encomiabile autonomia, tracciando un percorso inedito nella storia non sempre entusiasmante delle trasposizioni dalla console allo schermo. The Last of Us, pur facendo parte del sottogenere forse più abusato di questi anni pandemici in cui lo zombie-apocalypse sembra l’unica prospettiva concreta del genere umano – un’iperstizione per dirlo come gli accelerazionisti – riesce ancora ad emozionare e a coinvolgere. Forse nelle peripezie di Joel ed Ellie anticipiamo catarticamente la visione distorta di quanto ci tiene in serbo il nostro imminente futuro.