Provo disagio nel parlare a proposito del tragico evento che riguarda Barbara Capovani, la psichiatra aggredita lo scorso 21 aprile all’uscita dal turno di lavoro all’ospedale Santa Chiara e morta dopo due giorni di agonia per le ferite riportate. Accusato e arrestato per l’omicidio un ex paziente della dottoressa, che si trova ora in carcere.
In una ottica di estremo rispetto per la sofferenza dei suoi cari proverò a fare alcune riflessioni. Vorrei farle in punta di piedi, senza trasformare questo evento in un’arena in cui lanciare le ideologie l’una armata contro l’altra. I miei trentasei anni di servizio pubblico come psichiatra e le mie esperienze di vita mi inducono ad affrontare il tema dal punto di vista dei vari attori: il modello di salute mentale, gli operatori che lo mettono in atto, gli utenti, le loro famiglie, la comunità territoriale, il modello socioeconomico dominante.
Partiamo dal primo punto, ovvero il modello clinico che dovrebbe guidare il nostro lavoro. Nel 1994 viene posta con forza la questione dei determinanti della salute mentale: povertà, crisi economiche, crisi valoriale, climate change, guerre, pandemie sono alcuni dei fattori che sono concause di patologie mentali.
Ecco quindi che se non lavoriamo per ridurre l’impatto dei determinanti sociali rischiamo di creare le condizioni fertili affinché vi sia un incremento di persone sofferenti che delegheremmo poi ai servizi di salute mentale. Faccio un banalissimo esempio: più volte è stata citata la giusta preoccupazione, espressa anche dalla società italiana di psichiatria di vedere trecentomila nuovi utenti in seguito alla pandemia. Numeri esorbitanti sia per le persone che soffrono, sia per operatori già allo stremo, carichi di lavoro e con risorse in perenne diminuzione. Mi permetto di fare però una considerazione: se durante la pandemia tutti avessero avuto una situazione economica rassicurante, case dignitose con spazi sufficienti, relazioni soddisfacenti, sicuramente ci sarebbero stati episodi di esordio di patologie psichiche, ma non certo di questa entità. E quindi con la possibilità di essere assistiti meglio. Eppure leggiamo sul sito del Ministero che negli ultimi anni i fondi per interventi riabilitativi sono stati quasi dimezzati.
In secondo luogo, vorrei segnalare quanto riportato dall’ex Direttore del servizio pisano, che giustamente sottolinea come esistano anche individui con personalità antisociali che sarebbe più opportuno trattare come tali, perché si sa che in questi casi è quasi impossibile ottenere risultati con un “trattamento” farmacologico o psicoterapico o psicosociale. Queste persone (per fortuna una estrema minoranza) possono essere controllabili se inserite in contesti molto contenitivi (i vecchi libri di psichiatria citavano come nella legione straniera alcuni pazienti avessero trovato ruolo e contenimento). Ma se Pasquale Barra, feroce sicario della camorra non avesse avuto le sponde della criminalità organizzata lo avremmo inviato ai servizi di salute mentale? Eppure una diagnosi di disturbo antisociale risulterebbe più che credibile.
Nello specifico non intendo fare considerazioni perché non conosco la situazione, mi pare però esistessero segnali di una deriva persecutoria e questo è il punto, al di là di questo specifico caso.
Chiuderei questo punto ricordando un aneddoto su Franco Basaglia: quando a Gorizia avevano cominciato a mandare a casa pazienti rinchiusi da anni, uno di loro in maniera preterintenzionale uccise la moglie. Attaccato duramente dai giornalisti replicò ad uno di loro «proprio sul suo giornale oggi si parla di un marito geloso che ha ucciso la moglie. Allora cosa facciamo, rinchiudiamo tutti i mariti gelosi?».
La protezione passa dal cogliere alcuni segnali per poter intervenire, pensiamo ai femminicidi. Sicuramente non possiamo pensare di umiliare i servizi di salute mentale usandoli come bidone della spazzatura per ogni problema, dal cassaintegrato depresso agli adolescenti con disturbi del comportamento alimentare, dal migrante chiuso nei Cpr o in attesa interminabile di sapere se la sua pratica verrà accolta.
Gli adolescenti di oggi drogati dal mito della performance e dal dover sempre essere all’altezza vivono una situazione che non può che trasformarsi in un sentirsi soli e sovraesposti, pensiamo all’occupazione del liceo Manzoni contro la società della prestazione.
Ora passiamo alla triade operatori, utenti e familiari. Solo una alleanza tra i tre attori può creare quel clima di fiducia, rispetto e reciprocità necessario a trovare una via di uscita dalla sofferenza. Penso all’open dialogue, una modalità di approccio alla salute mentale che trova troppo poco spazio nei nostri dipartimenti. O ai gruppi multifamiliari allargati.
In ogni caso penso la grande intuizione di Basaglia, vedere la persona che la malattia ci nasconde, chiudere i manicomi non come fine esclusivo, ma anche come mezzo per valutare la capacità di un territorio di ospitare dentro di sé il diverso. Il metodo assembleare, le soluzioni condivise e il lavoro su determinanti sociali e costruzione della comunità competente, ovvero perché cura attraverso la reciprocità e il senso di appartenenza. Non uguaglianza, ma equità, nel senso che ciascuno abbia le opportunità per esprimersi secondo quello che è. Le risposte emotive, comprensibili, ma spesso controproducenti sono quelle di una sorta di patologia del controllo, come se si potesse prevedere tutto.
Non ho soluzioni pratiche da proporre, se non quella di coinvolgere famiglie, utenti, operatori, associazioni, territorio per costruire la comunità della cura: di sé, dell’altro, della natura. Un luogo accogliente ove si può pensare non di eliminare i problemi, comprese situazioni come quelle di Pisa. Ognuno svolgendo il suo ruolo. Se critichiamo la legge 180 ha senso per fare modifiche condivise con utenti, centrate sulle buone prassi (recovery e open dialogue in prima fila, ma non solo). Se pensiamo di lavorare sul controllo dei comportamenti fino a negare la territorializzazione del disagio il clima di reciprocità e fiducia sarà soppiantato da risposte guidate dalla paura, dalla rabbia, dall’aggressività. E questo non è certo l’humus della cura.