Di Jack Orlando
Alessandro Barile, Rossana Rossanda e il PCI. Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica. 1956-1966, Carocci Editore, Roma, 2023, pp. 265, 32€
Al momento della sua scomparsa, ormai due anni e mezzo fa, Rossana Rossanda, come molti degli intellettuali della sua generazione, ha avuto la sua generosa dose di elogi postumi. Ritualità.
Eppure, a differenza della maggioranza dei suoi omologhi, la fondatrice del Manifesto ed ex dirigente del PCI ha avuto la buona sorte di veder riconosciuta, o quanto meno solo leggermente mistificata, la propria identità storica.
Di Rossanda in effetti, si son dovuti attenere più o meno tutti ad un riconoscimento inaggirabile: era una intellettuale comunista. Definizione magari generica, ma certamente non scontata per un paese ossessionato dal normalizzare, mistificare, occultare o estirpare, qualsiasi traccia di comunismo lo abbia attraversato.
Si vedano, non a caso, i santini di tutte quelle menti celebrate come classici della cultura nostrana, eccellenze del made in Italy culturale, le cui opere campeggiano in tutti i manuali di testo scolastici, o nelle collane di editoria economica, ma il cui impegno politico, le forme e le tracce di una militanza comunista, si perdono in una damnatio memoriae, i cui primi censori si trovano spesso proprio tra le fila dell’intellighenzia di centro-sinistra.
Probabilmente è la sua ingombrante biografia politica a rendere troppo difficile lo scavalco postumo della sua identità di militante animatrice per mezzo secolo del dibattito culturale delle sinistre di questo paese, posta su una difficile linea di confine .
Lo storico Alessandro Barile ne rende bene il senso, con una biografia politica che ripercorre le fasi dell’azione di Rossanda all’interno del PCI e specialmente nel suo periodo alla direzione della sezione culturale del partito, cogliendo il significato intrinseco alla battaglia che si consumò tra le stanze di Via delle Botteghe Oscure, che poi la vide sconfitta, ma la cui centralità politica eccedeva di gran lunga la dimensione della bega politica interna alla parrocchia.
Una storia il cui incipit viene fatto coincidere con quel traumatico 1956. Da un lato l’invasione sovietica dell’Ungheria salva (o meglio, ritarda) dalla dissoluzione il blocco orientale, ma apre per i comunisti occidentali una profonda crisi d’identità. Una ferita particolarmente dolorosa in un PCI ancora di stretta osservanza Togliattiana.
Dall’altro lato, il cementarsi di un neocapitalismo, tanto europeo che italiano, scompagina la realtà sociale portando ad emergere nuove figure e bisogni sociali, mettendo in crisi le istituzioni politico-culturali che hanno incardinato la dimensione collettiva della società.
La fabbrica va estendendo il proprio dominio sul resto della società, le migrazioni interne deformano il tessuto dei territori, il consumo di massa non solo muta i parametri culturali, ma mette in via di proletarizzazione i ceti intellettuali finora privilegiati, se non economicamente almeno come status.
Non è tanto il Partito Comunista a venire investito da questo processo, quanto proprio il sistema dei partiti di massa ad entrare in crisi rispetto alla loro dialettica con il soggetto sociale, rispetto alla loro capacità di interpretare ed agire sui fenomeni, di produrre una propria dimensione culturale egemonica che vada a costruire il profilo della propria base.
Semmai, per il PCI, si apre l’esigenza di confrontarsi con una realtà mutata che porta il paese ad una inedita dimensione di capitalismo avanzato e, in questo, a relazionarsi con una deflagrazione del partito storico, il cui corrispettivo formale non è pronto a recepirne i balzi in avanti.
Dal marxismo ai marxismi. Dalla sociologia del potere di matrice francofortiana all’operaismo nascente che farà da terreno di coltura per tutti gli esperimenti della sinistra extra parlamentare del Lungo Sessantotto, fino alla frattura insanabile dei Settanta, si moltiplicano le linee di tendenza che pongono l’urgenza della frattura rivoluzionaria, rispetto alla via italiana al socialismo come processo di lunga durata da attuarsi dentro le riforme del sistema.
Una via il cui orizzonte si fa sempre più fumoso, mentre la prassi scivola costantemente dalla trasformazione all’amministrazione dell’esistente
Rossanda, formazione ortodossa e prassi laica, incarna il tentativo di liberare la propria struttura dai legacci di uno stroricismo gramsciano che si fa più gabbia che griglia interpretativa, ancora di più, tenta di mettere a tema la critica di questa italian way of socialism. Un sistema capitalista che va ammodernandosi da sé e va assorbendo il conflitto come forma di bilanciamento delle tensioni, impone la necessità di un cambio di passo per un’azione che si dica rivoluzionaria; in questo rientrano le aperture al dialogo con le nuove forme della mobilitazione politica e con quell’intellettualità che tende a sganciarsi dal partito ma a ricercare un ruolo di centralità politica nei nuovi fermenti.
Se la battaglia si concentra sulla dimensione della cultura, ovvero dei suoi contenuti e contenitori, delle sue regole d’ingaggio e della sua dialettica con la dimensione del politico; la centralità sta tutta in quest’ultimo termine. Resta dirimente, cioè, definire le forme di intervento intellettuale di una forza politica per stabilire le sue prassi strategiche e i suoi ambiti di azione.
Non si tratta di codificare un dato canone artistico, quanto di elaborare metodi di trasformazione del reale.
Un tentativo che troverà una strada sbarrata, che pagherà con l’espulsione dal suo ruolo dirigenziale e le cui domande rimarranno ineluse.
Che poi pratiche e teorizzazioni del PCI e della galassia extraparlamentare prenderanno strade differenti, incompatibili ed ostili tra loro è cosa nota.
Partito di governo contro movimento dell’urgenza rivoluzionaria.
Il dibattito interno, le crisi e gli strappi che si sono vissuti all’interno di questa vicenda parlano di una parentesi inattuale a sessant’anni dalla sua conclusione e con un contesto ormai mutato in profondità.
Eppure ci sono domande di fondo che rimangono invariate e che ogni soggetto che tenda seriamente alla trasformazione del reale si trova prima o poi a doversi porre.
Specialmente oggi, in cui le condizioni oggettive sembrerebbero indicare un terreno più favorevole per smottamenti sociali, senza però trovare condizioni soggettive ben disposte. Né strutture politiche in grado di buttare benzina sul fuoco.
Si è davanti oggi alla necessità oggi, più urgente che mai, di dotarsi di potenti schemi di ragionamento ed interpretazione della realtà, di capacità intellettuali di costruzione di immaginari e strategie capaci di scardinare le porte di questa gabbia d’acciaio. Perché ragionare di cultura è molto poco un vezzo da salotto, almeno per noi militanti, ed è invece elemento costitutivo ed imprescindibile del politico.
Fuori da questa dialettica tra politica e cultura, non c’è davvero prassi, c’è solo un cieco incedere in una notte già di per sé troppo buia.