«550 famiglie in Mozambico cacciate dalle proprie case per far spazio alle infrastrutture per lo sfruttamento del gas e ricollocate in un nuovo insediamento lontano dalle tradizionali fonti di sostentamento. Un territorio sulle coste della Louisiana, abitato prevalentemente da latini e afroamericani, che a decenni di inquinamento dell’industria petrolchimica si vede ora aggiungere un nuovo terminal per il GNL. Intere regioni della Nigeria dove, a causa delle attività estrattive, tumori ai reni e ai polmoni sono ormai la norma. Sono solo alcune delle storie raccontate in Banking on Climate Chaos. Sette ong – Rainforest Action Network, Indigenous Environmental Network, BankTrack, Oil Change International, Reclaim Finance, Sierra Club, Urgewald – hanno curato questo corposo report. Il cui focus non è però su chi le infrastrutture come quelle sopra citate le costruisce, ma più a monte. Banking on Climate Chaos va alla ricerca di chi, tra le 60 banche più grandi al mondo, finanzia opere come queste. E i risultati sono tutto fuorché incoraggianti»: lo scrive Lorenzo Tecleme per “Valori”.
«5.500 miliardi di dollari è la cifra da tenere a mente. A tanto ammontano i finanziamenti che dal 2016 al 2022 gli istituti di credito hanno concesso al settore dei combustibili fossili. Un dato non sorprendente – i report degli anni passati si aggiravano su questo stesso ordine di grandezza – ma comunque notevole. Corrisponde a più del doppio del PIL di un Paese del G7 come l’Italia – prosegue l’analisi – La data di inizio delle rilevazioni, il 2016, è (non a caso) immediatamente successiva al raggiungimento dell’Accordo di Parigi, siglato al termine della Cop 21 nella capitale francese nel dicembre dell’anno precedente. Il documento impegna il mondo intero a limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, di qui alla fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali, rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi. È dunque da quel momento che ci si attendeva un cambiamento di rotta drastico da parte dei governi di tutto il mondo, così come di ogni soggetto in grado di muovere grandi capitali».
«Al contrario, solo nel 2022 i finanziamenti sono stati pari a 673 miliardi di dollari. Di questi, 150 miliardi sono andati alle 100 maggiori compagnie energetiche mondiali. Numeri che segnano un calo: per la prima volta si è scesi al di sotto dei livelli del 2016. Il report invita però alla prudenza. L’invasione russa dell’Ucraina, infatti, ha fatto schizzare in alto i profitti delle grandi aziende energetiche. Le quali, quindi, hanno avuto meno bisogno di ricorrere al credito, e anzi hanno approfittato degli extraprofitti per ripianare parte dei loro debiti. Questo non ha portato ad una diminuzione delle risorse disponibili per l’espansione del settore fossile. E i ricercatori temono che i finanziamenti da parte delle grandi banche tornino a crescere nei prossimi anni» prosegue Tecleme.
«Banking on Climate Chaos si apre con una lunga classifica. Mostra chi ha più investito in trivelle, gasdotti, cave di carbone, centrali termoelettriche, oleodotti, rigassificatori. La finanza fossile è dominata da un pugno di istituti statunitensi, giapponesi e britannici. Ma anche l’Unione Europea, la Cina e il Canada giocano un ruolo di rilievo».
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«Il quadro descritto dal report, insomma, è quello di una finanza legata mani e piedi ad un futuro fossile. Le banche procrastinano di fatto la transizione e continuano ad investire nello status quo. Ma come si concilia questo scenario con gli innumerevoli annunci della stessa finanza globale, che sempre più spesso parla di emissioni nette zero, abbandono dei combustibili fossili, investimenti verdi? – prosegue l’analisi – La risposta è da ricercare nell’incompletezza e vaghezza degli impegni presi, e nelle scappatoie che le banche stesse si riservano. Un fenomeno evidente quando si arriva agli impegni net-zero. Sulle 60 banche prese in esame, ben 49 hanno promesso di raggiungere l’equilibrio tra i gas climalteranti emessi e quelli riassorbiti in un range temporale che va dal 2040 al 2060. Ma quasi mai è chiara la road-map per giungere a questo obiettivo. E i modi attraverso i quali calcolare l’impronta di CO2 di un istituto di credito non sono univoci. Anche quando le policy si traducono in restrizioni su specifici settori, poi, le stesse banche che hanno approvato queste misure a favor di telecamera lasciano spesso spazio a cavilli ed eccezioni. Ad esempio escludendo dai divieti certe aree geografiche, o concedendo deroghe per ragioni di «sicurezza energetica». Molti finanziamenti, spiega il report, sono esclusi in partenza dalle restrizioni. Le politiche di diversi istituti si applicano infatti solo ai prestiti. Ma il 36% dei finanziamenti al fossile è erogato sotto forma di sottoscrizioni di obbligazioni o azioni. Ancora più pervasivo è un altro cavillo individuato dai grandi gruppi. Molte policy di esclusione riguardano solo i finanziamenti a progetti. I quali, però, rappresentano una minima parte della finanza fossile. Le banche, invece di finanziare il progetto, possono infatti concedere senza vincoli prestiti alle aziende estrattive nel loro insieme. Aggirando così gli obblighi che loro stesse si sono imposte».
«Gli autori del report concludono il loro lavoro con 5 proposte. Le rivolgono alle banche prese in esame, ma soprattutto ai legislatori, perché le impongano a tutto il settore finanziario – si legge ancora – Le ong coinvolte chiedono in primis lo stop immediato ai finanziamenti per l’espansione ulteriore delle attività legate al fossile, siano essi rivolti ai progetti specifici o alle compagnie che li hanno in programma. Poi si chiede l’adozione di obiettivi di decarbonizzazione assoluti, e non parziali o calcolati in modi che permettono di aggirare le emissioni nette zero. Si legge la pretesa di seri piani di transizione anche per i clienti attuali, la protezione dei territori indigeni e dei diritti umani e, infine, un significativo aumento delle risorse finanziarie rivolte alla transizione. Alla quale gli autori aggiungono significativamente l’aggettivo “giusta”».