Taisia Korotkova, l’artista che dipinge la modernità: “L’umanità è pronta a usare la tecnologia senza causare danni a se stessa?”

Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org

Devo iniziare questa introduzione all’intervista con l’artista Taisia Korotkova, con un’ammissione di colpa: confesso di averla contattata facendo un calcolo di pura convenienza, visto che lei è un’artista Russa (l’arte Russa infatti sarà un tema che tratteremo a lungo) ma vive in Italia, ragion per cui, sarebbe stata a portata di mano, se così mi è concesso esprimermi. Mi sono presto accorto però che mai come in questo caso, stranamente, la fortuna ha aiutato un calcolo di natura utilitaristico. Mi è bastato andare nel suo sito e avere un’idea complessiva del lavoro da lei realizzato, per capire che mi trovavo di fronte ad un’artista di valore assoluto e sotto certi aspetti unica.

Oltre al suo curriculum di studi veramente fuori dal comune e la padronanza di una tecnica pittorica complicata e desueta come la tempera all’uovo, sono stato particolarmente impressionato dal modus operandi da lei adottato in fase di preparazione delle serie. Essa infatti, con lo scopo di potersi documentare sui temi che vuol trattare di volta in volta, cosa che fa in maniera meticolosa e quasi maniacale, non si accontenta di raccogliere informazioni nel web o tramite pubblicazioni varie, ma contatta direttamente scienziati ed esperti dei vari settori di suo interesse, come biologi, esperti della tecnologia e dell’industria, ricercatori nel campo della riproduzione in vitro, ecc.

Un altro aspetto molto importante che mi è balzato all’attenzione e che riguarda specificatamente la sua opera, è la continua contaminazione, o la palese ma solo apparente incongruenza, tra i temi da lei messi in campo e le tecniche utilizzate per realizzare le relative opere. Ma per descrivere in modo ancora più appropriato la persona e l’artista, credo che sia utile citare una risposta che mi ha fornito alla domanda che gli ho rivolto nell’incontro preparatorio, sul motivo che l’aveva indotta nel 2015 a trasferirsi in Italia. La risposta è stata nella sua semplicità disarmante e illuminante allo stesso tempo; mi ha detto che ha deciso di vivere in Italia perché qui c’è un tesoro inestimabile, ovvero il nostro patrimonio artistico. Se tante persone si trasferiscono per correre dietro l’amore di un uomo o di una donna, lei invece ha cambiato paese per amore dell’arte. Prendendo spunto da questa scelta, mi pare di poter affermare che la dicotomia tra razionalismo e romanticismo nella sua vicenda si armonizzano in modo convincente.

In ogni caso, ravviso in tutta la sua arte il tentativo continuo di ricomporre una frattura tra gli estremi ( soprattutto modernità/ antichità), una frattura che tenendo in considerazione la debolezza del pensiero contemporaneo, è forse più percepita che reale.

Dati i presupposti, mi pare che per definire il suo approccio all’arte, ma anche alla vita, ci sia una parola che costituisce la chiave di volta, e questa parola è impegno.

A tal riguardo mi è particolarmente piaciuta una sua espressione che tento di riportare letteralmente : <<trovo interessante creare senza esercitare la classica dittatura dell’artista sull’opera, senza imporre pressione sullo spettatore e senza dare risposte preconfezionate>>. Io interpreto questo pensiero in un solo modo : cade nella sua visione la figura del demiurgo che fa calare dall’alto la sua creazione, per farsi invece strumento di noi tutti, nel sollevare questioni con il linguaggio dell’arte.

Credo quindi a ragione di poter dire che Taisya è un’artista militante, nel senso che è disposta a sporcarsi le mani, e non alludo alla tecnica pittorica da lei usata, ma alla volontà espressa nella sua azione di misurarsi in un corpo a corpo con la realtà e di influire su di essa. Dico infine, prima di porgli domande, che nell’arduo ma probabilmente fruttuoso tentativo di decifrare la sua forma mentis, ho appreso cose che ignoravo.

Passiamo quindi alle domande:

  • Claudio Vitagliano (C.V.)Dato il tuo background riconducibile all’ambiente familiare (famiglia composta per lo più da artisti e scienziati), come mai hai deciso di essere un’artista e non una scienziata?

Taisia Korotkova (T.K.) – “I miei genitori sono artisti, mio nonno era un famoso architetto, fin dalla prima infanzia amavo disegnare ed ero circondata da libri di storia dell’arte. Questi libri rappresentavano il mio svago principale quando ero malata. Mi piaceva molto disegnare e potevo passare ore con i miei album. E ancora oggi provo la stessa sensazione eccitante che nasce davanti ad una superficie pulita su cui dovrebbe apparire l’immagine.”

  • C.V. – Nell’immaginario collettivo l’arte e la scienza sono inconciliabili, corrisponde alla realtà questo assioma?

T.K. – “No, certo che non lo è. L’arte, come la scienza, è un modo di conoscere e in una certa misura descrivere il mondo, ma a volte utilizza altri metodi. Inoltre, c’è una direzione molto interessante dell’arte scientifica, che utilizza lo stesso “tessuto”, la “forma” della scienza per creare opere d’arte. Io, invece, uso il linguaggio dell’arte per parlare di scienza.”

  • C.V. – Mi pare di capire che nella tua opera, nel complesso, sia percepibile una preoccupazione di fondo. E cioè, che essendo ad un bivio, storicamente parlando, ogni manifestazione dell’ingegno umano potrebbe avvicinarci alla realizzazione di un mondo migliore, ma potrebbe anche rappresentare il preludio di una catastrofe, sbaglio?

T.K. – “Sì, una persona con una coscienza primitiva e l’accesso a tecnologie sufficientemente avanzate può essere molto pericolosa. L’ultimo mezzo secolo lo è già stato a livello globale.”

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  • C.V. – Il metodo che utilizzi per indagare sulle attività umane che diventano poi i temi delle tue serie, ha qualcosa che è più vicino al lavoro del documentarista che di un’artista ; perché questa prassi così elaborata? Chiarisco meglio la domanda : c’è una curiosità connaturata al tuo carattere alla base di questo approccio, o pensi che così facendo siano le opere a beneficiarne in termini di contenuti?

T.K. – “Il mio tipo di pratica artistica è in realtà abbastanza comune nell’arte contemporanea. L’opera è il risultato di una ricerca. Nel mio caso, questo è in una certa misura lo studio del linguaggio della pittura figurativa e le possibilità della sua applicazione allo studio del presente e delle prospettive per il prossimo futuro.”

  • C.V. – Documentarti per te, equivale anche ad accumulare nozioni… e quindi a studiare?

T.K. – “Sì, funziona anche così. La mia immagine del mondo è in continua espansione”.

  • C.V. – Per realizzare i tuoi dipinti, usi una tecnica antica, precedente l’avvento della pittura ad olio, qui in Italia almeno, ovvero la tempera al tuorlo d’uovo su gesso. Oltre quelle che sono le motivazioni di questa scelta che tu hai già palesato, ovvero il bisogno di ottenere una resa cromatica corrispondente alle tue esigenze, non potrebbe essere sotteso un altro motivo, quello cioè di volerci dire che non c’è vera modernità che non porti con sé reminiscenze della tradizione?

T.K. – “Penso che l’uso di una tecnica così “lenta” sia il desiderio di catturare e fissare alcuni momenti della modernità che scorre veloce, senza farsi illusioni su una sua “rilevanza. L’arte è difficile e probabilmente non ha bisogno di coincidere, ad esempio, con il ritmo del flusso delle notizie o dello sviluppo repentino delle technologie che usiamo comunemente ogni giorno. L’arte ha i suoi tempi e questo è il suo vantaggio. In un certo senso può restare indietro e in qualcosa, al contrario, può superare (e piuttosto fortemente) la modernità.”

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  • C.V. – Le implicazioni delle tesi nella tua opera, mi pare che rendano quello che fai, arte concettuale sotto mentite spoglie. Questo pensiero è campato in aria?

T.K. – “Mi piace l’arte concettuale, ma amo anche la pittura. E queste sono pratiche completamente diverse. A volte, ho la sensazione di agire come un artista concettuale, ma poi improvvisamente mi trasformo in un pittore quasi ingenuo. Mi piace cercare opportunità per creare opere da qualche parte ai confini di varie pratiche artistiche”.

  • C.V. – Perché la scelta di organizzare in serie tematiche la tua produzione?

T.K. – “Non mi sono ancora posto un compito del genere: fare una dichiarazione artistica a tutti gli effetti sotto forma di un’unica opera. È interessante per me lavorare in serie, dove ogni lavoro è come un capitolo di un romanzo o una canzone di un album, o un episodio di una serie”.

C.V. – Parliamo un po ‘ delle tue serie, iniziando da “Space Museum“. Innanzitutto, vorrei chiederti spiegazioni su un’espressione che utilizzi proprio in relazione a questa serie ; “riflettere la riflessione”.

T.K. – “Il fatto è che la collezione da museo di solito pretende di rappresentare un certo periodo storico/culturale, cioè “riflette” il passato. Ma, ovviamente, non ha la capacità di trasmettere questo passato nella sua interezza. Nelle mie opere dedicate ai musei spaziali, rifletto esattamente le specificità delle esposizioni di questi musei, le percepisco come un’installazione artistica integrale, totale”.

  • C.V. – A proposito degli oggetti dismessi che popolano i musei della scienza, e dell’interazione con l’ambiente circostante che li caricherebbe di nuova vita, e quindi anche di un nuovo senso, mi sono venuti in mente i ready made delle avanguardie di inizio secolo scorso. Ti sembra un accostamento, seppur lontano, probabile?

T.K. – “Sì, certo, più passa il tempo e meno pensiamo alla funzione degli oggetti museali e più cominciamo ad ammirarli, a percepirne il valore estetico. Ciò è particolarmente evidente nel nostro atteggiamento nei confronti dei manufatti più antichi, la cui funzione spesso non è chiara, e siamo lasciati a percepirli come arte, mentre i contemporanei di questi oggetti molto probabilmente li percepivano come cose rituali abbastanza funzionali”.

  • C.V. – Dicendo che alcuni oggetti hanno un loro valore estetico che prescinde la funzionalità e l’origine e che tu riconosci come arte cambiando semplicemente il contesto in cui sono posti, non hai paura di banalizzare la concezione stessa di arte, intesa dai più come pratica sacrale?

T.K. – “Per me l’arte non è una pratica sacra, ma un campo di sperimentazione. Scoprire e mostrare la bellezza dove non è consuetudine notarla è un’attività interessante. Ho una storia da raccontare su questo: quando ho messo attenzione sulla bellezza del design delle astronavi sovietiche degli anni ’60, ho scoperto che molte di esse erano state progettate da Galina Balashova, una meravigliosa designer donna che, come si è scoperto in seguito, ha studiato con mio nonno, l’architetto Nikolai Sukoyan presso l’Istituto di architettura di Mosca”.

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  • C.V. – In Funghi invece, colgo in sottofondo la parola speranza. La speranza o anche l’augurio, che la soffocante presenza della plastica nelle nostre vite, perda consistenza. In questa serie, è tuo intento fare riferimento a biotecnologie già sperimentate con successo e mai messe in pratica su larga scala?

T.K. – “Sì, in effetti, il problema della onnipresenza della plastica esiste, e non c’è ancora una soluzione a questo problema. Gli scienziati hanno scoperto diversi tipi di funghi che secernono enzimi in grado di decomporre la plastica. I funghi decompongono la plastica molto lentamente, ma con successo. Inoltre, questa tecnologia non si è ancora sviluppata e ciò dipende soprattutto dal fatto che i funghi sono un regno incontrollabile, in rapida evoluzione e poco compreso rispetto ai tantissimi nostri “vicini” sul pianeta. In poche parole, gli scienziati temono che a un certo punto la plastica possa sembrare troppo gustosa per i funghi e quindi potenzialmente poter arrivare a mangiare non soltanto i rifiuti della plastica, ma tutto ciò che è plastica, compreso ciò che di utile utilizziamo nella vita di tutti i giorni e ben oltre.”

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  • C.V. – In “Large Hadron Collider”, usi la tecnica dell’incisione adottando colori neutri ed estrapolando dall’immagine completa alcuni particolari, che risultano poi a prima vista esempi di arte astratta. C’è anche qui il tentativo di racchiudere nello stesso racconto due estremi, astrattismo e figurativismo, ritenuti di solito irrimediabilmente distanti?

T.K. – “All’interno di ogni buona opera figurativa ci sono componenti astratti, senza di essi la composizione semplicemente non avrebbe una sua omogeneità. Questi sono ritmo, tono, luce, linee, macchie, leggerezza, pesantezza e molto altro. È solo che nel XX secolo, con l’invenzione della fotografia e del cinema, è scomparsa la necessità di un’immagine realistica e gli artisti hanno avuto l’opportunità di mostrare l’essenza stessa dell’immagine, la composizione, non nascosta dietro i soliti oggetti. Nel processo di creazione di un’immagine, dedico la maggior parte del mio tempo all’organizzazione dei componenti astratti di cui sopra. Altrimenti, tutto andrebbe a pezzi”.

  • C.V. – Sempre in questa serie, stabilisci un parallelo tra la fisica, accennando all’esplorazione del mondo ( fisico) posteriore e l’arte, parlando di esplorazione del lato posteriore della rappresentazione. Puoi spiegare meglio cosa intendi proponendo questa similitudine?

T.K. – “La fisica esplora la struttura del mondo, le sostanze e le energie, la relazione della materia, alla ricerca di antimateria e altre sostanze interessanti, spesso invisibili. In questa serie di lavori, disegnando in negativo le immagini originali (così si prepara il modulo per la stampa) e lavorando con trame frammentarie, come “incomplete”, ho riflettuto molto sul processo stesso di creazione del “tessuto” di questi lavori. Lavorare con lo spazio negativo, l’incompletezza del risultato finale, i vuoti compositivi: mi è sembrato che in questo ci fosse un parallelo con il lavoro degli scienziati.”

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  • C.V. – Parlando della serie Reproduction, sembra che tu voglia sottolineare l’incrinatura creatasi nel mondo contemporaneo tra ricerca scientifica ed etica, e cosi?

T.K. – “In generale, i risultati scientifici possono essere utilizzati come strumento, ma la domanda è quali obiettivi dovranno affrontare coloro che dispongono di tale strumento. E ovviamente, qui ci sono molte questioni etiche. Le donne nelle società patriarcali, da tempo immemorabile, sono state oggetto di manipolazione riproduttiva. Ad esempio, non è un segreto per nessuno che le tecnologie riproduttive nelle società in cui gli uomini hanno tradizionalmente più diritti o in cui il tasso di natalità è limitato dalla legge creino il problema del “gendercidio” femminile. E qui torniamo di nuovo alla questione se l’umanità sia pronta a utilizzare le alte tecnologie senza causare danni a se stessa”.

Taisia Korotkova, l'artista che dipinge la modernità: "L'umanità è pronta a usare la tecnologia senza causare danni a se stessa?"

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  • C.V. – Nella mostra Dark Forest, (29 aprile-13 giugno 2021, galleria Tretyakov- Mosca) , la messa in scena della tua arte si fa selvaggia. La rappresentazione, pur riprendendo i temi di Closed Russia ( le zone off limits, che conservano l’antico armamentario sovietico, anche nucleare), perde in compitezza e si trasforma in un racconto che prende vita con l’impiego di mezzi per te piuttosto inconsueti : grandi dipinti su tovaglia, installazioni, utilizzo di oggetti che sembrano non avere nessuna attinenza tra di loro, ecc. Perchè questo scarto rispetto a tutta la tua produzione precedente?

T.K. – “Mentre lavoravo alla serie “Russia Chiusa”, ho accumulato molto materiale e sto giusto pensando in quale forma questa storia potrebbe continuare. A poco a poco, mi sono fatta l’idea che questi dovrebbero essere dei grandi disegni di paesaggi in modo che lo spettatore riesca in qualche modo ad entrare nello spazio teatrale e diventi lui stesso un eroe-viaggiatore. A prima vista sembra che questo progetto abbia poco in comune con la serie precedente, ma non è così. Ho lavorato ancora con il linguaggio dell’arte tradizionale (in questo caso, con l’illustrazione fiabesca “classica” del periodo precedente la prima guerra mondiale). Ho scelto questo linguaggio non a caso, perché corrisponde benissimo con lo stile delle storie degli stessi “stalkers”, persone in viaggio attraverso luoghi abbandonati. Sulla base dei blog di queste persone, è stata creata la serie Dark Forest. Anche in questa serie viene nuovamente sollevata la questione dell’uso di tecnologie che una persona non può controllare completamente. Nel processo di preparazione della mostra alla Galleria statale Tretyakov, ai disegni sono state aggiunte installazioni e oggetti già pronti”.

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C.V. – C’è in quest’opera il desiderio di stabilire una distanza con l’accademismo ( solo apparente ), che ha contraddistinto, fino ad ora la tua azione creativa?

T.K. – “Non la penso così, i disegni sono realizzati abbastanza nell’ambito della scuola accademica, da un lato, e nel loro contenuto continuano la serie precedente”.

C.V. – Per quel che concerne lo smaltimento delle scorie nucleari, in un’intervista rilasciata in Belgio, ad Anversa, affermi che degli scienziati Russi avrebbero pronta una soluzione. Dici anche però, che restano questioni in sospeso, quali sono?

T.K. – “C’è solo una soluzione parziale, il combustibile nucleare esaurito viene rielaborato e può essere parzialmente utilizzato per creare nuovo carburante. Ma dalla lavorazione, a sua volta, rimangono anche i rifiuti, e il tempo di decadimento di questi rifiuti inizia da 2500 anni. Devono essere conservati in modo sicuro in appositi depositi. Naturalmente, sorge la domanda su quanto sia realistico parlare di stoccaggio sicuro con tali termini”.

  • C.V. – Allargando la nostra conversazione all’arte Russa in generale, ti chiedo: come mai dal socialismo reale in poi, l’arte Russa è completamente scomparsa dai radar dell’Occidente?

T.K. – “Questo non è del tutto vero, negli anni ’80 e ’90 in Occidente c’era un enorme interesse per l’arte cosiddetta “non ufficiale”, per gli artisti underground che lavoravano al di fuori del sistema sovietico. E i prezzi di questi artisti sono ancora alti, vedete ad esempio I. Kabakov, Komar-Melamid, Faibisovich o Eric Bulatov e così via. Poi, all’inizio del 2000, l’arte russa era ben rappresentata anche a livello internazionale (Vinogradov-Dubosarsky, Koshlyakov, ecc..”

  • C.V. – Alcuni giorni fa mi è capitata sotto gli occhi, la classifica di Art Price del 2017 ( non ho trovato edizioni posteriori) in cui i primi 500 artisti del mondo sono stati classificati per ordine di fatturato. Ebbene non c’è neanche un artista Russo; secondo te, come mai?

T.K. – “In generale, la visibilità degli artisti sulla scena internazionale è compito della politica culturale dello Stato. Tutto dipende da come i poteri di quel paese sono disposti a investire e promuovere i loro artisti nelle aste, nelle grandi mostre museali, nelle fiere e così via”.

  • C.V. – Fermo restando che la guerra iniziata nel 2021, ha contribuito a mettere ancor di più la cultura Russa al bando, non credi che già precedentemente ci fosse nei confronti degli artisti Russi una forma di ostracismo dettato dal mercato dell’arte mondiale a trazione USA?

T.K. – “Per quanto riguarda il mercato dell’arte, funziona come qualsiasi altro mercato, cioè l’investimento di denaro, la promozione del prodotto funzionano, e non credo che gli Stati Uniti abbiano qualcosa a che fare con il fatto che i prezzi per l’arte contemporanea russa non sono abbastanza alta. A questo proposito, è interessante guardare alla Cina, gli Stati Uniti non sembrano interferire affatto con lo sviluppo del loro mercato dell’arte”.

  • C.V. – Nel 2010 hai vinto il premio Kandinsky. Tale premio è stato istituito da Deutsche Bank in collaborazione con Art Kronika ; non ti pare che i poteri finanziari condizionino esageratamente la scala valoriale del sistema arte, favorendo spesso interessi economici più o meno palesi, invece che la valorizzazione e la cura del puro talento?

T.K. – “Questa è una domanda molto difficile, c’è un’intera area dell’arte che si occupa di critica istituzionale, ma la cosa divertente è che questo tipo di arte viene assorbita e acquistata da grandi istituzioni. Se vuoi iniziare a comprendere i meccanismi del flusso di denaro che esiste nel mercato dell’arte, alla fine dovrai immergerti nei problemi della struttura del sistema capitalista, o nei problemi dell’influenza della propaganda statale nei paesi comunisti, o in problemi chiamati artwashing. Probabilmente esiste anche lo sviluppo e la cura del talento puro, ma molto probabilmente ciò dipende da iniziative private di singoli mecenati”.

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  • C.V. – Una volta il mecenatismo incoraggiava con tutti i mezzi possibili, anche economici, gli artisti già “esistenti in natura” e ritenuti di talento. Oggi invece sembra che il sistema arte, ricorrendo anche alle leggi del marketing, abbia preso il sopravvento, creando dal nulla fenomeni artistici avari di contenuti che però rispondono in pieno alle esigenze di mercato, proprio come nel mondo della produzione e del consumo. La tua idea al riguardo qual è?

T.K. – “In passato, allo stesso modo, c’erano artisti da salotto, di successo commerciale, che adesso poche persone ricordano, mentre non tutti gli autori ora famosi hanno ricevuto una degna remunerazione per le proprie opere durante la loro vita. In generale, la combinazione di buona arte e successo commerciale è una cosa del tutto imprevedibile. Rembrandt ha guadagnato poco durante il periodo in cui ha creato le sue opere migliori, così come Jan Vermeer. Mentre Rubens e Velasquez hanno guadagnato bene”.

  • C.V. – La promozione e la diffusione di un’arte genuina, che non debba per forza sottostare ai diktat internazionali di curatori, critici e galleristi, troppo innamorati del business come potrebbe essere possibile?

T.K. – “Curatori e critici svolgono un lavoro importante, descrivono e studiano il campo intellettuale in cui si crea l’arte contemporanea. I bravi curatori professionisti non si impegnano nella dittatura, ma al contrario cercano di ampliare la conoscenza delle varie arti. Per quanto riguarda l’oggi e l’iniziativa artistica in genere, mi sembra che viviamo in un momento di grandi opportunità. Lo spazio digitale ti permette di esprimerti direttamente senza intermediari, ci sono organizzazioni spontanee di artisti che presidiano spazi non commerciali. Queste sono le cosiddette iniziative “orizzontali”, e penso che siano il futuro”.

  • C.V. – In Italia, a differenza di paesi come ad esempio in UK, lo stato non incoraggia né tutela la carriera di promettenti artisti giovani che tentano di affacciarsi sulla scena nazionale o internazionale. Su questa stessa questione puoi dirci cosa avviene nella Federazione Russa?

T.K. – “Ora in Russia ci sono cambiamenti significativi nella struttura delle politiche culturali. Quei sistemi di supporto per gli artisti che sono stati costruiti dopo la dissoluzione dell’URSS stanno diventando irrilevanti. Non posso prevedere come si svolgeranno gli eventi”.

  • C.V. – C’è molto velleitarismo comunque, e solo in Italia, i presunti artisti sono milioni, o più precisamente, quelli che si ritengono tali. Non pensi che sarebbe meglio incoraggiare una cultura che promuova nel mondo dell’arte una visione “professionale” dell’esercizio creativo?

T.K. – “Dipende da cosa si intende per “professionalità” nell’arte. L’istruzione accademica non garantisce sempre la nascita di un buon artista. L’arte è una materia viva che non tollera i dogmi, a volte germoglia in condizioni del tutto inaspettate. L’unica cosa che conta per l’arte è la libertà”.

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  • C.V. – A questo proposito, nel circuito artistico, non sarebbe necessario tornare a ritenere come presupposto utile se non indispensabile, la formazione accademica che spesso nell’arte contemporanea è invece trascurata se non assente?

T.K. – “Studiare è sicuramente meglio che non studiare, possedere le capacità della ricerca accademica è sicuramente meglio che non possederle, ma avendo acquisito tutte queste capacità, l’artista deve anche poter rinunciare a tutto questo, se necessario per lo sviluppo della sua arte”.

  • C.V. – Passiamo oltre. Pasolini parlava di omologazione, riferendosi all’adeguamento delle menti a modelli imposti dal consumismo dilagante. Non credi che questo privilegi la visibilità di fenomeni effimeri che mortificano la cultura?

T.K – “Il consumismo dilagante è un problema serio. Soprattutto dal punto di vista ambientale. Nella cultura, ovviamente, si riflette anche questo problema. Ma continuano comunque a nascere opere interessanti e profonde. Quanto al degrado, c’è sempre stata la cosiddetta “arte popolare”, la cultura popolare, da tempo immemorabile, gli artisti si esibivano nelle piazze, mostravano ogni sorta di curiosità. È solo che ora è tutto spostato sui reels di Instagram”.

  • C.V. – C’è o no un tentativo consapevole di svuotare le menti dal pensiero critico che potrebbe risultare un ostacolo al progetto di una società votata al solo consumo?

T.K. – “Oh, il compito di liberare le menti dal pensiero critico mi sembra il compito principale di qualsiasi classe dirigente. Ciò è particolarmente evidente negli esempi di società totalitarie. Perché abbiamo bisogno di persone istruite che pensano? Per fare domande ai funzionari assunti con i soldi delle tasse? O forse allora per garantire il ricambio del potere? O forse per partecipare ad una più efficiente distribuzione dei fondi pubblici a beneficio di tutti i cittadini? Questi sono desideri molto pericolosi e dannosi per chi comanda”.

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  • C.V. – Il vuoto esistenziale che affligge la vita di masse sterminate di persone può essere colmato guardando indietro e recuperando le nostre identità tramite la riscoperta delle tradizioni?

T.K. – “Per andare avanti, devi avere una buona comprensione della tua storia con tutti i suoi successi e fallimenti, ma il problema è che raramente c’è un’opinione comune nella società su ciò che conta come un risultato e cosa è un fallimento. Le tradizioni non dovrebbero diventare parte della manipolazione ideologica”.

  • C.V. – A proposito di tradizioni, qual è l’artista che ti ha di più ispirato?

T.K. – “Questa è la domanda più difficile! Nella mia valutazione personale gli artisti sono divisi in due parti, la prima sono quelli nelle cui opere trovo risposte ai problemi che sorgono nel corso del mio lavoro, cioè quando posso praticamente utilizzare la mia esperienza di comunicazione con le loro opere. I secondi sono gli artisti che hanno creato grandi opere che mi provocano puro piacere in tutto, sia nella forma che nel contenuto, oltrechè la consapevolezza che io non così non riuscirei mai a farlo, semplicemente perché la penso diversamente. La prima categoria comprende i pittori della scuola fiamminga, come Pieter de Hooch, Jan Vermeer, Van der Weyden, i pittori del Trecento italiano, Giotto, Fra Beato Angelico e i maestri bizantini. Il secondo – l’antica scultura greca del periodo classico, le sculture di Michelangelo, gli artisti dell’era d’avanguardia, Saul Le Witt .. e amo anche molto l’architettura del modernismo. Soprattutto degli anni ’60 del XX secolo: manifesta l’amore per la Persona, senza il desiderio di sopprimerla o rifarla”.

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Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org

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Taisia Korotkova è nata a Mosca nel 1980. Nel 2003 si è laureata presso l’Istituto di Arte Contemporanea (Mosca). Nel 2004 si è laureata presso l’Istituto Statale d’Arte V. I. Surikov di Mosca. Nel 2010 ha vinto il Premio Kandinsky nella categoria “Giovane artista dell’anno. Progetto dell’anno”. Le opere di Taisia Korotkova si trovano nelle collezioni della Galleria Statale Tretyakov, del Museo d’Arte Moderna di Mosca, dell’Istituto di Arte Realistica Russa, del Museo d’Arte di Uppsala, della collezione del Presidente della Repubblica Austriaca, del Municipio di Mosca, oltre che in collezioni private in Russia e in Europa.

Taisia Korotkova – sito web: www.taisiakorotkova.com

Traduzione dal russo a cura della Redazione di ComeDonChisciotte.org

Le opere ritratte nell’articolo sono di Taisia Korotkova

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