A un mese dal Salone del Libro di Torino possiamo affermare che l’evento è stato – forse suo malgrado – uno spartiacque nel dibattito pubblico attorno all’influenza che la destra sta avendo non solo nella politica nazionale (vedi anche ultime elezioni amministrative), ma anche nell’ambiente culturale. Vuoi perché nei giorni del Salone teneva banco anche la questione delle nomine Rai, vuoi perché una così tale parata di ministri non si era mai vista a un evento culturale: le ragioni possono essere svariate, ma la sostanza non cambia.
È vero anche che, nell’immenso calderone di manifestazioni letterarie, il Salone del Libro di Torino è quella che più di tutte si fa cartina di tornasole dello stato dell’editoria e, più in generale, del dibattito pubblico nel nostro paese. Chi non si ricorda della cacciata di Edizioni Altaforte, casa editrice vicina a Casapound, nell’ormai lontano 2019?
Come è ormai noto, ciò che in questa edizione è rimbalzato maggiormente agli onori di cronaca della stampa nostrana è stato il caso della ministra della famiglia, della natalità e delle pari opportunità Eugenia Roccella, contestata da alcune attiviste Nudm e XR durante la presentazione del suo libro autobiografico “Una famiglia radicale”. Era da tempo che non si assisteva a una strumentalizzazione così forte di una contestazione – tra l’altro del tutto legittima, per le ragioni che spiegheremo tra poco – e a una così imbarazzante alzata di scudi di quasi tutto l’arco parlamentare in favore della ministra.
La contestazione pacifica e legittima delle attiviste è stata narrata nella maniera più becera possibile, arrivando a definire le contestatrici squadracce femministe (si, lo hanno scritto davvero). E se dall’area destra dell’emiciclo il piagnisteo nasconde un fastidio atavico contro le forme di dissenso è proprio il “centro moderato” che ci ha regalato le migliori perle, andando persino a scomodare Pasolini da quel pantheon di autori di sinistra che ogni tanto vengono citati totalmente a sproposito, tra l’altro senza alcun riscontro filologico. Il fine è chiaramente di alimentare quella retorica degli “intolleranti-contro-la-libertà-di- espressione-che-impediscono-alla- povera-ministra-di-presentare”. Ci dispiace tanto.
Dagli ignavi di dantesca memoria come il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alle uscite infelici dei cosiddetti centristi, Renzi in primis: se è vero che il valore di una persona si misura quando la situazione necessita di schierarsi, allora abbiamo chiaro da che parte sta chi parla di “opposti estremismi” o di fantomatiche “teorie del ferro di cavallo” capaci di far imbarazzare chiunque abbia una seppur minima idea di cosa sia la politica. Il fondatore di Italia Viva ha addirittura ripescato quel mantra pasoliniano del “fascismo degli antifascisti” –frase con cui Pasolini attacca l’antifascismo istituzionale di DC & Co, non certo quello di piazza (basta leggere Wu Ming 1 in proposito) – eterna formula monolitica usata dalla destra ogni qual volta il loro piagnucolare ritiene di voler esser legittimato.
Ma “Il Riformista” di Renzi non si ferma certo all’imbarazzante editoriale del suo nuovo proprietario; è proprio dalla penna di Benedetta Frucci che infatti partono altre deliranti accuse: La Ministra Roccella contestata: contro di lei, l’Olimpo del Capalbio-pensiero. In nome del “non tollerare gli intolleranti”, troppo spesso si propagano teorie illiberali: da Saviano a Murgia, passando per Schlein e Montanari, intellettuali e politici si schierano dalla parte dei contestatori della Ministra. Ebbene sì, abbiamo appreso che Saviano e Murgia propongono teorie “illiberali”. Dovrebbe forse Renzi porsi la questione di quando siano “liberali” certi suoi amici dal Golfo?
Ma se è oramai in che lidi è approdata quella vecchia idea renziana di “partito della nazione”, diverso è invece il discorso di chi non ha nemmeno avuto il coraggio di schierarsi o lo ha fatto in maniera estremamente goffa. Sul suo account Istagram il direttore emerito del Salone Nicola La Gioia scrive “Quello che ho detto è molto semplice. Ho detto che in democrazia le contestazioni sono legittime purché non violente. E poi ho invitato chi contestava a dialogare col ministro (…). Mi sembrava che i contestatori non accettassero questo tipo di invito (anche qui: chi contesta, purché in modo non violento, decide come contestare.” Un capolavoro di cerchiobottismo!
Né una parola su chi sia realmente Eugenia Roccella o sulle 29 denunce che sono partite dalla Digos di Torino, assolutamente spropositate rispetto alla tipologia di manifestazione. Nessun rimando neppure all’importanza dell’aborto libero e sicuro: anche in questo caso, sembra che l’attenzione della stampa sia solo e unicamente sulla contestazione e non sul motivo per cui la ministra è stata fischiata. Motivo che affonda con radici ben più profonde del piagnucolare di qualche politica.
Di tutta l’immensa mole di materiale politico-mediatico che è stata prodotta sulla faccenda c’è ne è difatti pochissimo sulla figura della Roccella e sul suo libro “Una famiglia radicale”. La neo-ministra (figlia “d’arte” del deputato del Partito Radicale nonché fondatore Franco Roccella) si è distinta, dagli anni 90’ in poi, per il progressivo allontanamento dal movimento femminista. Come spiega alle pagine di “È Vita” (inserto di Avvenire dalla chiarissima linea editoriale), la giovane Eugenia si è distaccata da quelle idee che, per lei, stavano “conducendo alla distruzione dell’individuo sponsorizzando un’idea di libertà senza limiti che, in qualche maniera che non ci è dato sapere, condurrà ad un’“illibertà assoluta”. “La libertà che non libera” non ci ricorda un certo Carlo Calenda?
La carriera della giovane politica decolla proprio dai quotidiani di area cattolica o di destra come Avvenire o Il Giornale. Sottosegretaria nei governi Berlusconi III e IV e ora Ministra in quello capeggiato da Giorgia Meloni, si è sempre distinta per esser dalla parte “dei più deboli” (sic!): ha definito l’aborto come una cosa che “putroppo c’è”, si è scagliata contro la pillola abortiva definendola “terrificante”, contro il Ddl Zan e contro una maggiore tutela dei diritti LGBTQ+. Come ministra della natalità, ha difeso la famosa circolare di Piantedosi che vieta ai sindaci di trascrivere gli atti di nascita di coppie omosessuali nati all’estero. Ha fondato il comitato “Di mamma c’è n’è una sola “e ha definito il matrimonio “l’incontro di due diversi che producono continuità generazionale”.
Nel 2011 si fece firmataria di una lettera, pubblicata su “Tempi”, in cui si chiedeva al mondo cattolico di sospendere il giudizio morale su Berlusconi. Erano i tempi dei cosiddetti processi “Ruby” e Silvio era indagato per favoreggiamento della prostituzione minorile. Decisamente un ottimo curriculum per una che si definisce femminista. Il suo libro verte proprio su ciò, sulla sua autobiografia da “femminista e radicale” in un periodo di sconvolgimenti e lotte. Sfogliarlo sapendo chi è oggi la ministra risulta quantomeno grottesco.
Ma al di là delle considerazioni morali che possono essere fatte sulla questione, il Salone è anche questo: uno spazio aperto a (quasi) tutti dove il confronto è bipartisan. Il mondo dell’editoria è per natura intriso di realtà politiche ed è anche in questi contesti che lo scontro si esaspera portando a eventi come quello di cui sopra. Come infatti faceva notare Mark Fisher, nel momento in cui, per presunta superiorità morale o politica che sia, si rinuncia a “colonizzare “uno spazio esso non rimane per questo neutrale, ma viene egemonizzato da altri.
È però doveroso tornare alla questione posta all’inizio: ossia quella dell’influenza culturale di un pensiero reazionario che sta prendendo sempre più piede. E non parliamo solo di “destra” in senso stretto, ma di un topos narrativo che si sta incuneando in ogni dove. C’è chi sta parlando di una vera e propria “egemonia culturale” del pensiero di destra. Ma ha ancora senso parlare di egemonia in termini gramsciani, quando viviamo in un’epoca dove è la performatività ad aver realmente egemonizzato qualsiasi forma di azione e pensiero?
Come ci insegna anche l’esperienza di Ultima Generazione, la propaganda del fatto ad oggi eccede il fatto in sé e per questo viene sovente rigettata da chi si vuole sensibilizzare. Senza entrare nel merito di pratiche giuste o sbagliate, quanto effettivamente il guadagno in termini di visibilità si tramuta in dibattito sui temi o in dibattito sul modus?
Probabilmente, per contrastare un’agenda politica e culturale dominata dal pensiero reazionario abbiamo bisogno non solo di competere sul terreno della performatività, ma di aprire uno spazio di riappropriazione a tutto tondo: dei linguaggi, degli strumenti, della scena pubblica. Uno spazio che sia di emancipazione collettiva, prima ancora che di difesa di una presunta egemonia che forse non è mai realmente esistita.