Cavalieri erranti in un’apocalisse senza distopia

di Paolo Lago

Già all’inizio degli anni Ottanta, Teresa De Lauretis, citando Foucault, scriveva che la fantascienza contemporanea si è ormai lasciata alle spalle il classico conflitto fra utopia e distopia, indirizzandosi invece verso l’eterotopia, verso la coesistenza di sistemi di significato fra loro apparentemente inconciliabili. Pochi anni dopo, il concetto è ribadito da Fredric Jameson secondo il quale, ciò che distingue la fantascienza contemporanea dalle sue versioni ottocentesche è che, invece di proporre scenari utopici (o distopici), rispecchia il nostro senso di straniamento di fronte alla rapidità dei cambiamenti in corso. Sotto il travestimento di futuri post-apocalittici, quindi, non vi è altro che la nostra difficile e contraddittoria contemporaneità. Penso che ciò possa valere anche per gran parte della fantascienza di oggi: dietro l’apparente distopia vi è invece l’eterotopia, uno “spazio altro” secondo la definizione di Foucault; una dimensione e un modo diversi per raccontare ciò che ci circonda. Quindi, la letteratura, il cinema, le serie TV, quando mettono in scena catastrofici scenari futuri, raccontano né più né meno che il mondo di oggi.

Ebbene, la post-apocalittica Corea del Sud del futuro raccontata in Black Knight (2023, sei episodi per una stagione), in onda su Netflix, non è altro il mondo di oggi, nel quale però vige un importante ribaltamento di prospettiva. Quello che nell’odierna società dei consumi è considerato come uno dei lavori più soggetti a sfruttamento e meno gratificanti, cioè il rider, il corriere (attività il cui ampio spettro racchiude sia l’immigrato sottopagato che consegna cibarie a domicilio in bicicletta o in motorino, sia il corriere che con il furgone si fa centinaia di chilometri al giorno sempre sotto stress per rispettare gli orari), nel futuro eterotopico di Black Knight si trasforma in un lavoro da eroe, da “cavaliere nero” (un termine che indica un personaggio ambiguo e misterioso e che rimanda all’immaginario del ciclo arturiano e, successivamente, alla ricezione romantica e gotica del Medioevo). I corrieri, infatti, garantiscono la sopravvivenza alle altre persone e si battono contro le ingiustizie sociali. A causa dell’impatto della Terra con una cometa, l’intera Corea del Sud si è trasformata in un immenso deserto e all’aperto c’è scarsità di ossigeno. I corrieri, al servizio della potente corporation Cheonmyeong Group, si spostano su enormi camion che solcano il deserto e consegnano a domicilio le scorte di ossigeno e viveri a una popolazione che ha trovato rifugio in veri e propri bunker, completamente separati dall’esterno. Fare il corriere vuol dire essere un salvatore dell’umanità, come il leggendario 5-8, una specie di vendicatore mascherato che, assieme a un gruppo ristretto di corrieri, cerca però di sabotare il sistema classista e discriminatorio della corporation. Quest’ultima appare assai più potente degli apparati di governo (lo strapotere delle corporation è molto presente nell’immaginario fantascientifico contemporaneo e ci è stato tramandato cinematograficamente da capolavori come Alien e Blade Runner, entrambi di Ridley Scott) e mantiene la società rigidamente separata in classi sociali. I più poveri sono i “rifugiati”, che vivono in baraccopoli improvvisate oppure all’aperto, costretti a portare una maschera di ossigeno, non possedendo neppure un codice QR che permette l’accesso ai più essenziali servizi sociali; poi ci sono i cittadini ‘normali’, rinchiusi nei loro bunker ‘a schiera’; infine, i ricchissimi, i più vicini alla Cheonmyeong Group, che conducono la loro vita in serre artificiali dove viene ricreata un’esistenza quasi normale, con tutti gli agi e i confort.

Sotto il travestimento distopico creato dalla serie TV intravediamo perciò un’eterotopia del nostro mondo e, soprattutto, della società contemporanea coreana, ma anche cinese o giapponese. Innanzitutto, il pervasivo e digitalizzato controllo sociale. Le classi abbienti possiedono tatuato sulla mano un codice QR che permette loro l’accesso a qualsiasi servizio. Se anche dalle nostre parti il controllo digitale dei cittadini sta aumentando sempre di più, sicuramente paesi come la Corea del Sud o la Cina possiedono livelli altissimi di digitalizzazione dell’esistenza quotidiana finalizzata a un controllo quasi invisibile. È quella che il filosofo Byung-Chul Han (non a caso, un altro sudcoreano) chiama “società della trasparenza”: un universo sociale in cui ognuno si consegna volontariamente al controllo tramite gli smartphone e le loro applicazioni; un universo che ha la peculiarità di eliminare l’Altro o l’Estraneo. L’alterità è negativa e disturba la piatta comunicazione dell’Uguale. Perciò, la corporation non trova niente di meglio che indire una gara per dare l’opportunità al vincitore di diventare un corriere, gara che serve in realtà per eliminare la popolazione più povera. Dal momento che alla competizione partecipa il giovane rifugiato Yoon Sa-wol, tutti i rifugiati fanno il tifo per lui e la potente azienda predispone dei maxischermi nelle zone delle baraccopoli con l’intento di riunire più persone possibile per ucciderle. Un altro sistema per eliminare i più poveri sono i vaccini: ai “rifugiati”, chiamati a raccolta – si direbbe oggi – negli “hub vaccinali”, viene inoculato un siero che dovrebbe proteggerli dalle malattie ma che in breve tempo li conduce alla morte. Capiamo subito allora che dietro allo scenario distopico raccontato nel film c’è ancora una volta la nostra società, con un preciso riferimento all’emergenza Covid. Maschere per l’ossigeno, vaccini, codici QR rimandano alle misure di controllo della popolazione allestite per arginare l’emergenza del virus. Ancora una volta, se guardiamo alla realtà di diversi paesi orientali, tra cui la Corea del Sud, capiamo subito come queste misure siano state più pervasive e digitalizzate di quanto sia avvenuto da noi. D’altra parte, non dobbiamo neanche dimenticare che si tratta di paesi in cui la pandemia ha colpito assai duramente. Non vengono risparmiati neppure i risvolti più complottisti della nostra contemporaneità: si scoprirà infatti che i macchinari del governo (cioè, ça va sans dire, della corporation) che dovrebbero diffondere ossigeno nell’aria contribuiscono invece all’inquinamento. Anzi, il presunto inquinamento dell’aria, per cui è necessario portare sempre la maschera per l’ossigeno, non sarà forse del tutto opera della potente e mefistofelica Cheonmyeong Group?

Dalla Corea del Sud arrivano perciò letture interessanti della nostra contemporaneità, sia da una prospettiva filosofica che da una più legata all’immaginario cinematografico. Possiamo ricordare anche Bong Joon-ho, regista di un film significativo come Parasite (2019), in cui la “trasparenza” si è diffusa ormai in tutte le fasce sociali, persino nelle più povere, per mezzo della pervasiva diffusione degli smartphone. Un altro importante film del regista sudcoreano (dal quale è stata tratta anche una serie TV) è poi The Snowpiercer (2013), in cui in un mondo futuro completamente ricoperto dai ghiacci (altra eterotopia della nostra contemporaneità), gli unici sopravvissuti vivono su un treno rigidamente diviso in classi sociali. Se negli ultimi vagoni incontriamo i più poveri, sottoposti ad angherie di ogni tipo, nella testa ci sono i ricchissimi, che trascorrono la loro esistenza in luoghi eleganti e sicuri. Non dovremmo dimenticare neppure Okja, del 2017, in cui una potente azienda alimentare incentiva l’allevamento di sensibilissimi “supermaiali” al solo scopo di confinarli in mattatoi (dipinti come lager) per poi trasformarli in cotolette e salsicce. A capo della corporation c’è Lucy Mirando, interpretata da Tilda Swinton, che presenta il suo progetto aziendale in una forma spettacolare e teatrale: lo spettacolo più gretto ed ostentato è ormai la forma privilegiata di comunicazione delle potenti lobby che controllano le economie degli stati. Ma anche questo ce lo aveva già insegnato un capolavoro degli anni Ottanta come Videodrome (1983) di David Cronenberg. Dalla Corea del Sud arriva anche la recente serie TV Squid Game (2021, 9 episodi per una stagione), in cui l’inferno dell’Uguale – come direbbe Byung-Chul Han – è dominato dal denaro, in nome del quale i più poveri e indebitati della società non esitano ad affrontarsi in giochi crudeli e mortali controllati dai più ricchi capi d’azienda del globo, nascosti dietro le quinte come macabri burattinai.

Pensare che quei mondi distopici, post-apocalittici, devastati da conflitti nucleari, da catastrofi naturali, che vediamo nei film e nelle serie TV di fantascienza contemporanee non sono altro che “eterotopie” per rappresentare il nostro mondo ci fa venire i brividi. Ma i brividi ci dovrebbero venire anche a vedere come è il nostro mondo, senza distopie o travestimenti: un mondo dominato dall’economia capitalistica più gretta e meschina, dalla guerra infinita (a sua volta intrecciata alla sfera economica), dalle discriminazioni, dai conflitti sociali, dall’inquinamento e dal cambiamento climatico, dalla distruzione selvaggia degli spazi naturali e dalla cementificazione incentivata dagli stessi governi e poteri, dalla pervasività del controllo digitale che irrompe anche nella sfera della medicina e della salute, dalle manipolazioni genetiche. La fantascienza e la distopia sono intorno a noi, basta guardare un qualsiasi telegiornale. Però, se abbiamo bisogno di un immaginario che possa funzionare anche come una resistenza (non solo passiva ma anche creativa) a questa distopia quotidiana, a questo lento affondare nell’irrealtà, affidiamoci allora alle eterotopie create dal cinema e dalle serie TV e, non da ultimo, a quella creata da questa interessante Black Knight.

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