Grecia, strage di Pylos. «Nessuna pace per gli assassini»

Da tempo, definiamo la politica migratoria europea “necropolitica”, ovvero – seguendo Achille Mbembe – una politica che crea le condizioni strutturali per produrre la morte di un gruppo di persone.

Un’architettura di morte, che vediamo ogni giorno nel regime europeo del confine, sempre più legale, sofisticata, diffusa. Ci accorgiamo ora che ci hanno tolto anche la morte, nel senso che personalmente e collettivamente – noi “vivi” – le diamo, facendo esperienza di quella degli altri, vicini e lontani. Ci hanno tolto anche la morte perché hanno tolto il lutto a chi ha perso una persona cara, la possibilità di piangere un corpo morto, la possibilità di conoscerne il nome, di sapere chi, dove, quando, quanti.

Probabilmente non sapremo mai quante persone sono affogate nella strage avvenuta tra martedì 13 e mercoledì 14 giugno ad 80 chilometri al largo del porto di Pylos. Gli stessi migranti, al telefono con l’attivista Nawal Soufi, parlavano di 750 persone a bordo, di cui molti bambini. La Guardia costiera ellenica dice 646. Le foto e le informazioni disponibili fino ad ora confermano quest’ordine di grandezza, ma le cifre sono destinate a rimanere indicative. Il naufragio è avvenuto nella zona con il mare più profondo di tutto il Mediterraneo: circa 60 km a sud-ovest di Pylos si trova la Fossa di Calipso, una depressione che supera i 5.000 metri di profondità. Gli esperti dicono che il recupero dei corpi sarà quindi particolarmente difficoltoso, il mare li inghiottirà per sempre. Ad oggi, sono solo 104 i superstiti, difficilmente questo numero aumenterà. Oltre la produzione della morte si situa forse l’annullamento, l’annientamento della persona (della vita). Sono parole che, chiaramente, richiamano il nazismo. Non sapere chi, non sapere quanti, non poter riavere i corpi – massivamente e sistematicamente – è qualcosa che, credo, si avvicina all’annientamento. 

I dettagli che iniziano a trapelare dipingono un quadro dei fatti che non solo seppellisce ogni retorica della “tragica fatalità”, ma svela le responsabilità dirette della HCG (Hellenic Coast Guard) nel causare il “capovolgimento” della barca. Come ricostruito dall’attivista Iasonas Apostolopoulos, sulla base delle dichiarazioni del parlamentare Kriton Arsenis, che ha potuto parlare con i sopravvissuti a Kalamata, la HCG avrebbe legato il peschereccio con delle corde e provato a trascinarlo. Sarebbe stato proprio questo tentativo di rimorchio a far ribaltare la barca. Queste ricostruzioni si allineano con i primi racconti di Nawal Soufi. 

Evidentemente, la differenza – se esiste – tra uccidere e lasciar morire sfuma: non è “solo” indifferenza complice, non è “semplicemente” girarsi dall’altra parte. L’omissione di soccorso è la punta dell’iceberg di un sistema complesso – quello dei confini europei – progettato per annientare la vita. Sistema di cui la guardia costiera è solo un tassello. Non è l’Europa che finge di non vedere, è l’Europa che, strutturalmente, con delle politiche precise e radicate nel tempo, produce morte.

La versione ufficiale della HCG descrive invece il capovolgimento come frutto di una maldestra manovra – in mare piatto – del peschereccio stesso. Dall’altra parte, puntano tutto sulla colpevolizzazione delle vittime: “Ripetevano costantemente di voler salpare per l’Italia e di non volere alcun aiuto dalla Grecia”, si ribadisce ossessivamente nel comunicato. Ma è assodato che questo improbabile “non volevano essere aiutati”, secondo il diritto del mare, non giustifica il mancato soccorso, come chiarito dall’ordine degli avvocati di Kalamata – che si è offerto di supportare gratuitamente i sopravvissuti. Così come è assodato che la HCG sapeva tutto dalla mattina di martedì 13 giugno, alla luce dell’avvistamento da parte del velivolo di Frontex e degli SOS diffusi da Alarm Phone – pubblicati da wearesolomon – e inoltrati anche ad UNCHR, NATO, e al difensore civico greco.

Ma non lasciamo non detti: probabilmente l’HCG voleva trascinare il peschereccio in zona SAR maltese o italiana. Questa volontà è stata più forte di quella di salvare 750 vite umane in evidente pericolo. Forse anche per questo, ai giornalisti è stato impedito di parlare con i sopravvissuti. Dopo delle pressioni, è stato permesso solo ai parlamentari. 

Melting Pot Grecia

Come da copione, nove di loro, egiziani, sono stati arrestati accusati di traffico di esseri umani ed omicidio[1], mentre la maggior parte (71 persone) è stata trasferita nel campo di Malakasa 2, nel “centro di accoglienza e identificazione”: una struttura chiusa, controllata, isolata, priva di supporto psicologico e assistenza medica adeguata. Sono siriani, egiziani, pakistani e palestinesi. Non devono poter raccontare, devono capire che non c’è pietà, che nulla gli sarà concesso.

Nel porto di Kalamata, sembra di rivivere i giorni di Cutro: arrivano i familiari da tutta Europa e non solo. Alcuni trovano i propri cari, molti non li troveranno. Nessun aiuto da parte dello Stato, nessuna informazione, dicono. Non c’è pace per i vivi, non c’è pace per i morti. Finora sono stati recuperati ed identificati 78 corpi, saranno trasportati con dei camion frigorifero al cimitero di Schisto.

Melting Pot Grecia

Intanto, si riempiono le strade della Grecia. Dal porto di Pylos ad Atene, Salonicco, Patrasso, Karditsa, Kalamata, migliaia di persone si sono messe in marcia. Ad Atene, giovedì sera, una marea umana si è scontrata con i soliti gangster in divisa.

La risposta dello Stato è sempre la stessa, anche con i solidali. Sono piazze commosse ma piene di rabbia. Una rabbia degna. Puntano chiaramente il dito verso gli assassini: non solo la guardia costiera, ma lo Stato greco, l’Unione Europea, Frontex, questo sistema coloniale e razzista.

Domenica 18 giugno nel pomeriggio un altro corteo, chiamato dalla Open Assembly Against Pushbacks and Border Violence, si muoverà dal Pireo verso gli uffici di Frontex: l’agenzia europea non potrà giocare la parte dei “buoni” che avevano segnalato per tempo la barca in pericolo.

Dalle strade, si leva una promessa: non dimentichiamo, non perdoniamo.


Condividi questo contenuto...

Lascia un commento