Il 19 giugno scorso, sul palco del second stage di Sherwood Festival 2023, si è svolto un dibattito intitolato in maniera dirimente «Cutro non è un decreto, Cutro è una strage».
Quando Melting Pot ha deciso di organizzarlo, come avrà modo di ricordare Stefano Bleggi, erano appena trascorse davanti agli occhi le scene del PalaMilone di Crotone: un’enorme camera ardente composta da file di bare, marroni per indicare gli adulti, bianco latte per i bambini, tra cumuli di fiori e peluche. Dinanzi a quel doloroso lutto, tuttavia, si è fatta largo tra lo sgomento una grossa risposta di solidarietà dal basso che ha permesso di sostenere le famiglie delle vittime e gli stessi sopravvissuti.
Ma la triste attualità ha reso ancora più importante la tematica. Il dibattito, infatti, si è tenuto a pochi giorni da un’imponente strage nel Mar Ionio, a largo del porto di Pylos, in Grecia, della quale – probabilmente – mai si saprà quante persone sono morte e scomparse. La Guarda Costiera ellenica ha ipotizzato di 646 persone a bordo, della quale solo uno sparuto centinaio risultano essere superstiti.
L’organizzazione di Sherwood Festival, all’indomani di questa ennesima strage, ha posto subito l’accento su quanto accaduto, durante uno dei concerti sinora più frequentato, esponendo uno striscione prima dell’esibizione di Carmen Consoli e Marina Rei, chiedendo inoltre di attraversare il presidio organizzato dinanzi la Prefettura di Padova per il giorno 20 giugno.
La serata di lunedì 19, principia da un video intervento di Nawal Soufi, attivista lungo i principali confini europei, la cui esperienza fa toccare con mano il ricordo vivido del naufragio, i sentimenti di paura per la propria sopravvivenza in primis, il risollevamento dinanzi agli attori di un presunto salvataggio poi, infine, il terrore non appena le carte vengono svelate. Coloro che avrebbero potuto e dovuto salvarli, infatti, non erano altro che sorveglianti, addirittura sabotatori.
Silvia di Meo, attivista del Progetto Mem.Med, Memoria Mediterranea, rappresenta una voce tra un gruppo di persone che, nei giorni nefasti della strage di Cutro, si è subito mobilitato.
Il suo intervento ricostruisce l’evento Cutro, soprattutto per quel che è accaduto dopo, che non ha fatto altro che aggiungere ulteriore vergogna ad una situazione di per sé già gravissima.
Tante erano le persone accorse nel tentativo di rinvenire i propri cari, eppure, anche in questo caso, si è notata una profonda indifferenza, da parte di uno Stato troppo impegnato ad organizzare passerelle politiche o addirittura a spostare altrove il “simbolo di morte”.
Il Governo Italiano, se da un lato si è fortemente impegnato a trasformare la comunicazione politica su Cutro organizzando finanche un Consiglio dei Ministri speciale in tal luogo, dall’altro lato, non ha minimamente supportato le famiglie nelle ricerche dei dispersi o nel rimpatrio dei cadaveri rinvenuti. Tali soggettività hanno dovuto rivivere all’ennesima potenza la violenza del disinteresse, una freddezza che può colpire da lontano, mentre si è su una nave, o da vicino, mentre si è sulla terraferma.
Viene negata la possibilità del riconoscimento, addirittura del rimpatrio, e la reazione dei colpiti non poteva che essere di natura conflittuale. Invero, i famigliari presenti a Cutro hanno creato un cordone compatto per impedire il seppellimento delle bare sotto una coltre di indifferenza. Quell’infame tentativo politico era preordinato a disinnescare quella rabbia mossa dal dolore, per spegnere i riflettori davanti a scene di madri, padri, fratelli morsi dall’angoscia ma pronti a lottare con le unghie e con i denti. Una vera e propria negazione della morte: siamo dinanzi ad una logica del controllo sui corpi non solo in vita ma anche da stesi in una bara esanimi.
Graffia sulla pelle una frase detta a pieni polmoni: “La vostra Presidente del Consiglio non vuole venire qua a sentire l’odore della morte”.
Ma purtroppo, come già detto, Cutro non è stata e non sarà l’unica vergogna. Molteplici sono i naufragi fantasma, e continue sono le richieste delle famiglie che chiedono il rinvenimento di famigliari, “sperando” di ritrovarli rinchiusi in un hotspot o in un CPR.
E quanto detto non smette di esaurirsi, ed è anzi destinato ad intensificarsi dinanzi alla situazione politica tunisina, il cui Presidente Kaïs Saïed, ha concretizzato una vera e propria azione di razzismo di Stato. In strada, i sudsahariani sono vittime continue di violenza, la Tunisia è lungi dall’essere un luogo sicuro, contrariamente a quanto si crede. Ciononostante, il Governo italiano continua a finanziare Tunisi, sostenendo economicamente la frontiera affinché le persone vengano fermate – costi quel che costi – prima di partire verso l’Italia.
Bintou Tourè, attivista di FreeFemmes racconta proprio quel che accade a Tunisi sotto gli occhi del mondo intero.
È la stessa Guardia Costiera tunisina che rimuove i motori dalle barche, lasciando i naufraghi su barche conculcate. Si è ad un bivio senza possibilità di scampo: sulla terraferma è legittimata ogni forma di violenza nei confronti dei subsahariani, in mare si rischia la vita non solo per il viaggio, ma anche per gli attacchi oppositivi della guardia.
“In Tunisia, sulla terra ti attaccano, in mare ti attaccano, non c’è via di scampo.”
Se è riconosciuto in ogni dove che la Libia sia uno Stato temibile dai migranti, diverso discorso è per la Tunisia, che invece risulta un inferno latente, per nulla appreso.
In particolare, Bintou Tourè racconta la situazione dei rifugiati che è gravissima: chi attraversa il mare viene bloccato e inseguito addirittura fino a Lampedusa e riportato indietro in inadeguati e sovraffollati centri di accoglienza dell’UNHCR, in cui le persone protestano per poter essere liberate ma, sovente, chi rivendica la volontà di andar via viene addirittura imprigionato.
È noto come le politiche razziste e securitarie arrivano da lontano e non sono invenzione dell’attuale Governo: è dalla crisi migratoria del 2015 che diversi assestment politici, anche molto diversi tra loro, hanno di continuo inventato ed applicato dispositivi normativi per contrastare sia l’arrivo di migranti che le iniziative di solidarietà.
Non è un caso che la prima opera normativa del governo Meloni colpisce con un decreto proprio le ONG che operano i salvataggi in mare. Ma se si è iniziato a parlare di Mar Mediterraneo, sotto queste lenti, è anche perché dinanzi ai naufragi ci sono state delle organizzazioni che si sono posti l’obiettivo di salvarle quelle vite.
Mediterranea è una di queste organizzazioni che quotidianamente rischia di essere criminalizzata e di non poter più svolgere questo importante, essenziale compito.
Ma Mediterranea, come ci ha ricordato Luca Casarini, è nata anche per contrastare le leggi ingiuste e cercare di cambiarle.
Casarini racconta di quel che accadde a Catania nel novembre del 2022, a poco tempo dall’insediamento del Governo Meloni. Le navi si rifiutarono concretamente di obbedire alle insulse istruzioni di respingimento, disobbedendo. Il decreto Piantedosi non è stato nient’altro che una dichiarazione di guerra contro chi si oppone ad un sistema necrofilo, d’orrore, fondato sulla violenza, una sorta di rifugio al contropotere che si era venuto a formare a Catania, laddove una moltitudine di gente si era vista disposta ad occupare il porto e a sfondare i cancelli, al fine di costruire un meccanismo di accoglienza dal basso, di fronte alla “vergognosa, pornografica definizione di carico residuale”.
Tali piccole, medie, grandi dimensioni di solidarietà fortunatamente non vogliono sottostare a leggi mortifere, ovunque si manifestino: tanti sono gli esempi nel mondo, dai confini tra Stati Uniti e Messico, ai confini che danno verso il nord dell’Europa.
“Questa [la solidarietà, ndr.] è una dinamica forte che risponde all’unico mondo possibile costituito da violenze, dal rifiuto, dal divieto di migrare, una cosa pazzesca, da dove viene questa idea assurda per la quale uno non può andare nel posto che vuole, senza garantire il diritto a restare, perché i luoghi da cui partono sono devastati, da noi, dalla politica che conosciamo.”
Il decreto Piantedosi, ancora, si fa largo in un Paese in cui la guardia costiera italiana è l’unica che, qualunque sia la pressione di Governo, da Minniti in poi, salva migliaia di persone.
Le operazioni di salvataggio avvengono di norma all’interno delle acque internazionali, nel momento in cui vengono introdotte coattivamente delle competenze suddivise per zone SAR (zone di ricerca e soccorso) , si è dinanzi al tentativo di rendere “meno fluido” il mare, un mare che è di tutti perché internazionale. Dinanzi alla solidificazione del fluido, non resta che agire adoperando una vera e propria destrutturazione della frontiera, affinché il Mediterraneo non venga concepito come una sorta di fossato attorno ad un castello da proteggere. L’unica soluzione è disobbedire, violare, fino a distruggere tali leggi. Bisogna aprire buchi nelle frontiere ed essere contro chi politicizza l’aiuto umanitario, trasformandolo addirittura in una pratica criminale. Senza la disobbedienza “il Mar Mediterraneo rischia di diventare un’enorme fossa comune senza croci”.
Enrica Rigo, docente di filosofia del diritto dell’Università di Roma Tre, interviene nel dibattito affrontando la questione migratoria da una prospettiva femminista radicale. Le donne, raccontate in passato come vittime di tratta da proteggere, sono di fatto poi sparite dalla narrazione dell’attraversamento dei confini, anche dalle stesse statistiche, che in maniera invisibilizzante le fa comparire in combinato disposto con i bambini (“donne e bambini”, mai “donne”).
Narrare di donne attraversatrici dei confini “sbatte in faccia” la radicalità di queste azioni.
Come dice il filosofo camerunense Achille Mbembe, la possibilità di sopravvivere è legata alla capacità di attraversare i confini. Ciò non vuol dire che solo chi è bravo riesce, ma chi soprattutto ne ha la possibilità economica. La lotta di classe si gioca soprattutto sui confini interni ed esterni, sulla possibilità giuridico-politica di attraversare i confini.
I confini sono luoghi di morte, più di 27mila morti in 10 anni solo nel Mediterraneo, è come se una cittadina del nord-est fosse improvvisamente sparita.
È necessario narrare degli attraversamenti anche mediante la radicalità della prospettiva femminista, capovolgendo una narrazione mortificante, proprio come accade nelle piazze convocate dal movimento femminista o con Black Live Matters. Se le vite delle donne non valgono, bisogna scioperare.
La giurista E. Tendayi Achiume, di origine gambiana, reporter ONU sul razzismo e xenofobia, definisce la libertà di migrazione come pratica decoloniale per l’uguaglianza. La decolonialità è una pratica politica che i migranti mettono in campo ogni giorno sulla dimensione dell’uguaglianza.
Sono i migranti sia i primi a disobbedire che i primi ad essere colpiti dalle azioni di disobbedienza.
Questa libertà di movimento, lungi dall’essere una libertà astratta, è una lotta quotidiana che bisogna portare avanti: nei tribunali, nelle azioni di solidarietà, contro i decreti che traducono in legge una vergogna accollando la responsabilità dei naufragi ai migranti che guidano le navi, ai capitani che hanno in mano la bussola che sono sempre e comunque meglio di chi cerca di affogarli.
I confini non sono impermeabili, sono porosi, bisogna continuare a stare sulla frontiera, monitorare costantemente, decostruirla.
Ma contro i mille dispositivi coercitivi fortunatamente nascono mille pratiche contrarie. È necessario sempre più sentirsi parte di un flusso globale, fuori dai crismi nazionali ed europei. Quel che nasce sulla spinta contraria ha necessità di una teoria cospirativa, che sia orientata a violare leggi che nascono su presupposti mortiferi.
“Il tema cospirativo non è un orpello ideologico.”
“Le persone migranti scavalcano confini anche rispetto ad una morte già decretata. Bisogna assumersi questa cosa, sentirlo dentro, su questo [loro, il potere ndr.] hanno paura, ma se possono avere i soldati, noi abbiamo il cuore.”