La Russia ha vissuto probabilmente le ore più surreali della sua storia recente. Ci fai una breve ricostruzione di quanto è accaduto tra l’annuncio della “marcia per la giustizia” fatto da Prigožin e quello di fermare la Wagner quando era a circa 200 km da Mosca?
Le ore tra venerdì 23 giugno e la mattina di martedì 27 giugno passeranno alla storia della Russia come il momento in cui la fragilità del sistema di potere putiniano è stata dimostrata da quello che è in tutto e per tutto un tentativo di protesta armata – più che di colpo di Stato – attuato da Evgenij Prigožin per contrastare lo scioglimento della Wagner. La marcia per la giustizia – attenzione perché il termine usato da Prigožin è spravedlivost che vuol dire anche giustizia sociale – si basava essenzialmente su quello, ma con tutta una serie di parole d’ordine retoriche, o di denuncia della corruzione in senso demagogico e populista, che comunque colpiscono quello che il cittadino russo comune.
Prigožin riesce a conquistare Rostov, che è un grande centro della Russia meridionale – il più importante assieme a Sochi e Krasnodar, strategico perché collega la Russia con il Donbass e il resto della Russia con il Caucaso – e poi dirige una colonna verso Mosca che si ferma 2 ore da lì senza incontrare grossa resistenza. È vero che nella mattina di martedì c’è stato un breve discorso di Viktor Zolotov, il capo della Guardia nazionale russa, in cui sosteneva che la marcia verso la capitale fosse stata così semplice perché tutte le forze erano concentrate proprio a Mosca. In realtà questo contraddice quanto avvenuto sotto Voronezh, che più a sud, dove c’è stato un tentativo effettivo di fermare la Wagner.
Le motivazioni per cui si è fermata la sua avanzata risiedono nel fatto che Prigožin ha ottenuto che non venisse aperto verso di sé e verso i suoi uomini alcun procedimento penale- Questo è un aspetto politico molto importante perché significa mantenere la conservazione della Wagner, anche se in Bielorussia.
Quello che colpisce è il fatto che per la prima volte è emersa nello spazio pubblico globale l’immagine interna di una Russia molto fragile. Come tu stesso hai scritto, “in Russia non esiste più il monopolio della forza da parte dello Stato”, e di conseguenza è in crisi l’ultracentralismo putiniano e la stessa sovranità statuale. Cosa può significare questo da ora in avanti?
Questo può significare che chiunque avrà la possibilità di potersi fare un proprio esercito privato se lo farà. In realtà questo è già avvenuto negli scorsi mesi con l’emersione di una serie di nuove formazioni, spesso basate sulle agenzie di sicurezza privata messe su dalle varie grandi compagnie, come nel caso della Gazprom.
Avere un piccolo esercito permette anche di non subire problemi dal punto di vista della persecuzione degli apparati dello Stato. Abbiamo visto come la reazione nei confronti degli uomini di Prigožin sia stata molto soft da questo punto di vista, in un paese dove si beccano anni di galera se si scrive un post contro la guerra su Facebook. Laquestione degli eserciti privati sta facendo sorgere molte domande all’interno dell’establishment, che in questo momento si è comunque fatto vedere più o meno compatto attorno a Putin, su chi sia il responsabile dell’ascesa di Prigožin. La contraddizione risiede nel fatto che il responsabile di questa ascesa – di Prigožin, ma anche di altri gruppi armati privati – è proprio Vladimir Putin e quello che bisogna capire da ora in avanti è che effetto avrà tutto questo nei confronti di chi, in un modo o nell’altro, decide di opporsi al presidente russo.
Soffermiamoci su Prigozhin: non è la prima volta che eserciti privati e “signori della guerra” siano parte attiva nelle guerre che si combattono nel mondo. Quello che è inedito è il ruolo pubblico che viene giocato in questo caso. Come possiamo interpretare questa cosa?
Il ruolo pubblico di Prigožin può essere interpretato proprio a causa della mancanza in Russia di uno spazio pluralista che permetta di esprimere le proprie contraddizioni e le proprie visioni del mondo. E questo tipo di spazio, che è stato massacrato nel corso degli ultimi vent’anni proprio dal regime di Putin, in un certo senso si è riproposto in modo altrettanto repressivo, altrettanto legato all’idea di un certo tipo di potere grazie proprio alla guerra. Per questo noi oggi assistiamo continuamente a una sorta di pluralismo del peggio, per cui vi sono dichiarazioni di uomini dell’apparato statale e di funzionari di politici russi legatissimi ovviamente a Putin, che però spesso chiedono di fare di più nei confronti della guerra o addirittura criticano le altre personalità di vertice. Questo è successo Prigožin che ha più volte criticato il ministro della Difesa Šojgu, chiedendone la testa.
Io non credo che questo processo possa fermarsi così. Ora sicuramente assisteremo a una fase di riassestamento del terremoto di questi giorni e quindi probabilmente vedremo un rafforzamento del controllo da parte di Putin, soprattutto in queste prime settimane. Però, io credo che si sia intensificata la dinamica dello sgretolamento della verticale del potere e, in più, il fatto che queste contraddizioni, che erano presenti anche in passato, ora siano pubbliche potrebbe avere effetto anche per alcuni gruppi sociali, nonostante la società russa sia in questo momento estremamente atomizzata.
Un’altra cosa che colpisce delle tue analisi è che “nessuno dei contendenti ha provato a mobilitare la popolazione” nei suoi appelli. Perché?
Perché vi è una logica nel potere russo per cui il popolo è spettatore, deve essere trattato come uno spettatore. Non è qualcosa di così assurdo, anche facendo un parallelo con l’Italia, ma in Russia questo è stato teorizzato del secolo in corso, quindi fin da quando Putin ha iniziato il suo mandato di potere. Questo cozza molto con l’idea che si ha soprattutto in Occidente, avanzata da alcuni osservatori, di una società russa monolitica, pronta come un solo uomo a colpire laddove Putin lo voglia.
In realtà si tratta di una società attualizzata, innanzitutto per ragioni socio-economiche. Si pensi al fatto che al di fuori di Mosca e Pietroburgo si vive abbastanza male, non esiste il contratto collettivo nazionale di lavoro, tutta una serie di diritti sociali sono stati tolti dal Codice del Lavoro del 2002, che è stato una delle prime grandi riforme interne di Putin. Inoltre vi è un controllo spietato sul posto di lavoro e questo ha, ad esempio, avuto forti ripercussioni sulle dinamiche di reclutamento, sia nell’esercito regolare che nella Wagner. Per cui la società in questo senso viene vista, nonostante le grandi parole retoriche, un po’ alla Margaret Thatcher che sosteneva non esistesse una società, ma una sorta di serbatoio di uomini e donne da utilizzare.
Io credo che per tutto questo non ci sia stata una mobilitazione, non ci siano stati appelli, non ci sia stato un tentativo di armare la società, proprio perché entrambe le parti ritenevano di poter fare da sé.
Veniamo alle ripercussioni internazionali. È emerso – anche un po’ inaspettatamente- il ruolo del presidente bielorusso Lukašėnka, ma la comunità internazionale è rimasta a guardare. Cosa possiamo aspettarci da ora in avanti? Che ripercussioni per la guerra in Ucraina?
Lukašėnka è un personaggio molto particolare. Spesso in Italia deleghiamo che sia un semplice burattino di Putin, ma non è così. Lukashenko diventa presidente nel 1994, si è formato nella inquieta fase politica che va tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, è uno che ha un’esperienza di oratore e grande capacità di convincimento. Ed è molto scaltro. Fino al 2020, con la repressione della rivolta popolare in Bielorussia, Lukašėnka è riuscito a rilanciare su più fronti, e anche nel suo rapporto con Mosca, intensificandosi negli ultimi anni, continua a mantenere una propria indipendenza, che non è la stessa di qualche anno fa, però ricordiamoci che ancora oggi la Bielorussia non riconosce l’annessione della Crimea. È vero che dalla Bielorussia sono partiti attacchi aerei, sono arrivate anche le colonne di soldati russi diretti verso Kiev, però non si unirà alla guerra, anche perché Lukašėnka capisce molto bene che, a differenza della Russia, entrare in guerra per Minsk potrebbe essere un rischio nel breve periodo molto maggiore.
Il fatto di aver mediato con Prigožin, in un momento in cui Putin rifiutava qualsiasi confronto, anche per un suo senso di superiorità “zarista” nei confronti di quello che era il suo ristoratore preferito, conferisce a Lukašėnka una credibilità politica e accrescerà il suo ruolo nello spazio post-sovietico a livello diplomatico. E gli permette probabilmente di uscire dall’isolamento a cui era stato condannato dopo la repressione del 2020. Quanto quello che è accaduto possa avere effetti sulla guerra in Ucraina? Intanto possiamo ammettere che Prigožin dicesse la verità sulla natura della guerra e sulle sue conseguenze, anche se spesso si dimentica che lui era anche quello che diceva che per vincere la guerra bisogna diventare una sorta di grande Corea del Nord, per qualche anno mobilitare completamente la popolazione e l’economia e quindi era fautore di una prospettiva molto più hard rispetto a quella di Putin.
Sul piano bellico non abbiamo visto grandissimi cambiamenti di fronte durante questi giorni e credo che anche da parte ucraina sia prevalso lo stupore. Il problema vero di questa guerra è che c’è un forte rischio che possa cronicizzarsi, creando tutta una serie di problemi agli ucraini, ai russi, ma anche a livello europeo. Perché un conflitto di questa portata sul continente europeo porta a emergenze di vario tipo, da quella umanitaria a quella del finanziamento delle spese militari e quindi la conseguente riduzione delle spese sociali che comunque coinvolgono tutti noi.