di Sandro Moiso
Francesco Dei, Balcani in fiamme. Storia militare della guerra russo-turca (1877-1878), Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 424, euro 32,00
Il bel saggio di Francesco Dei, appena pubblicato da Mimesis, permette di svolgere riflessioni, non solo di carattere militare, su molti aspetti dei conflitti alle porte d’Europa, sia di ieri che di oggi.
L’autore non è nuovo ad opere del genere poiché, già in passato, si è occupato di conflitti che, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi vent’anni del secolo successivo, hanno visto coinvolte le forze armate russe. Sia nella loro forma zarista che in quella di Armata rossa.
Dei, nato a Siena nel 1975 e laureato in Scienza politiche, si è specializzato in storia e cultura dell’Estremo oriente e in storia e cultura della Russia e dell’Europa slava. Appassionato di storia militare, ha pubblicato, sempre per Mimesis nel 2018, “La rivoluzione sotto assedio: Storia militare della guerra civile russa 1917-1922” (a suo tempo recensito su «Carmillaonline» il 27 giugno 2018), mentre nel 2020 ha dato alle stampe una “Storia militare della guerra russo giapponese 1904 – 1905” (LEG, Gorizia 2020).
La guerra affrontata nel saggio attuale è uno delle tante che hanno visto, tra l’età moderna e quella successiva alla metà del XIX secolo, due imperi, quello russo e quello ottomano, affrontarsi sia per il controllo dei Balcani che della Crimea e del Mar Nero. Conflitti in cui, di volta in volta, l’”aggressore” è stato uno dei due paesi, con motivazioni spesso mascherate dietro alla necessità di intervenire in difesa di minoranze etnico-religiose oppure di comunità ribellatesi contro lo zar o il sultano.
Nel caso della guerra del 1877-1878 il pretesto è fornito dalla persecuzione delle comunità cristiane dell’impero ottomano da parte delle milizie irregolari turche basci-buzuk, soprattutto in Bulgaria. Cosa che fornì lo spunto all’impero zarista, custode formale della fede ortodossa, di intervenire per espandere la propria influenza e presenza militare nell’area. A differenza, solo per fare un esempio, della guerra russo-turca del 1768-1774 in cui la parte del persecutore, in questo caso di comunità polacche e ucraine, era stata svolta dalle truppe di Caterina II di Russia e del suo favorito, Stanislao Augusto Poniatowski.
Considerata da molti storici come un conflitto secondario, la guerra russo-turca, nelle pagine e nell’accurata ricerca di Dei si rivela, nei fatti, una anticipazione e prefigurazione del futuro conflitto mondiale, in cui, soprattutto i Russi, utilizzeranno tecniche, strumenti, tattiche e lezioni tratte sia dalla guerra civile americana del 1860-65 che del conflitto franco prussiano del 1870.
Capisaldi trincerati sotto il livello del suolo o posti come rilievi creati con l’artificio di essere circondati e protetti da scavi profondi 4 o 5 metri che mettevano in difficoltà l’assalto delle fanterie e della stessa cavalleria; l’uso di armi da fuoco a retrocarica con gran numero di proiettili a disposizione di ogni soldato; mitragliatrici (prima fra tutte la Gatling così ampiamente utilizzata nel conflitto tra Nord e Sud negli Stati Uniti) e diversi tipi di artiglieria, cosi come l’uso dei primi siluri a propulsione per la marina militare, delinearono con grande anticipo quello che sarebbe stato, sul piano militare, il grande macello del Primo conflitto mondiale che sarebbe iniziato meno di quarant’anni dopo. Preceduta, per quanto riguarda la Russia, ancora dal conflitto russo-giapponese del 1904-1905.
Anche nel numero dei morto e feriti tra i soldati che, secondo i calcoli dell’autore, raggiunse quello complessivo di circa 230.000 caduti, spartiti su entrambi i fronti, nell’arco di soli 10 mesi di scontri.
Caduti che se apparentemente diminuivano rispetto al conflitto in Crimea del 1853-1856 (con un numero di soldati deceduti compreso tra i 363 e 673mila) oppure alla guerra civile americana (con un milione e ottocentomila caduti), costituivano un discreto esempio di macelleria automatizzata moderna se si tiene conto della minor durata del conflitto stesso.
L’autore eccelle sia nella descrizione del conflitto e del suo svolgimento sul campo e a livello politico-diplomatico, che nel descrivere le sofferenze delle popolazioni civili coinvolte. Così come nell’elencare le caratteristiche della capacità di resistenza del popolo russo e del suo esercito e le motivazioni su cui questa si è, spesso, fondata. Cosa che nell’introduzione lo porta a tracciare interessanti paralleli con il conflitto attualmente in atto in Ucraina.
Lasciando, però, al lettore interessato la ricostruzione di quei drammatici avvenimenti che si conclusero con una vittoria russa non coronata dai risultati sperati e con un ulteriore indebolimento di quello che era ormai chiamato il Grande Malato, ovvero l’impero ottomano, occorre qui sottolineare alcune ulteriori riflessioni che il testo di Dei induce a svolgere, pur non trattandole sempre in maniera diretta.
La prima riguarda proprio il numero dei caduti che, dal punto di vista delle perdite puramente militari, avrebbe raggiunto il suo apice nel conflitto 1914-18 e che ci suggerisce che le cifre pornograficamente fornite ogni giorno dai media e dalla propaganda sulle perdite russe (soprattutto) ed ucraine, per il conflitto attualmente in corso, devono essere per stati in precedenza un po’ (se non molto) gonfiate. Secondo fonti del Pentagono, infatti, a tutto aprile 2023, l’esercito ucraino avrebbe sofferto un numero di perdite che potrebbe variare dai 124.500 ai 131.00, compresi 17.500 deceduti in azione; mentre le forze russe avrebbero subito da 189.500 a 223.00 perdite di cui 43.000 sarebbero cadute in azione1. Chiaramente in molti articoli riguardanti l’argomento si è giocato molto sulla traduzione del termine inglese casualties che può indicare sia le vittime che i feriti oppure i morti.
Anche se c’è da osservare come l’attuale conflitto, proprio per la novità rappresentata da alcuni strumenti usati per la prima volta su larghissima scala come i droni, di fatto costituisca sia un passo avanti nelle tecniche militari che un passo, forse due, indietro con il forzato ritorno alla guerra di trincea e il rallentamento della guerra di movimento. Dovuto sia al controllo dello spazio aereo e terrestre con i droni che all’utilizzo di più maneggevoli e micidiali armi anticarro su entrambi i fronti. Mentre allo stesso tempo, il numero delle vittime civili sembra andare in controtendenza rispetto ad un trend storico in cui, dalla seconda guerra mondiale in poi, il numero dei civili uccisi in ogni guerra , allargata o locale, ha sempre ampiamente sopravanzato quello dei militari uccisi.
La seconda riflessione, invece, aiuta a spiegare la tensione e l’attenzione con cui i media liberal occidentali hanno seguito le recenti elezioni tenutesi in Turchia, tifando apertamente per il tutt’altro che liberale avversario di Recep Tayyip Erdogan, Kemal Kilicdaroglu, che aveva promesso un patto più forte con l’UE (e quindi con le sue politiche nei confronti della Russia). Questo perché, al di là delle farlocche dichiarazioni sui “diritti” (poi smentite proprio dalla promessa del pugno duro con i migranti presenti sul territorio turco fatta dallo stesso Kilicdaroglu), quello che interessava allo schieramento occidentale era il far tornare la Turchia “nemica” della Russia come nei decenni e nei secoli precedenti.
Smontare quell’asse che, se non costituisce ancora una vera e propria alleanza con Putin, in realtà fa sì che il paese detentore del secondo apparato militare della Nato (ampiamente rivisitato nei suoi vertici dopo il fallito colpo di stato del 20162, sventato anche grazie all’intervento dell’intelligence russa) non costituisca più quel baluardo anti-russo cui la Storia degli ultimi decenni, ma soprattutto dei secoli precedenti, aveva abituato l’Occidente (e soprattutto il Regno Unito) ad un “sicuro” contenimento verso il Mediterraneo e il Medio Oriente della potenza slava.
Proprio ciò, ovvero la differente politica di Erdogan e della Turchia nei confronti della Russia e delle “volontà occidentali”, costituisce uno dei fatti di rilevanza storica scaturiti prima e confermati durante l’attuale conflitto russo-ucraino. Dimostrando che non sempre la Storia si ripete, uguale a se stessa, così come troppo spesso analisti, studiosi, politici e militari dello schieramento europeo e Nato continuano a pensare per poter fare affidamento su certezze, in realtà, in via di rapido decadimento.
Un’ultima riflessione, che svolge ancora l’autore proprio nel saggio, riguarda infine la debolezza e la vacuità delle trattative diplomatiche una volta che i conflitti sono avviati e non abbiano ancora raggiunto un punto in cui sia chiara la loro possibile conclusione. Cosa che non fa altro che confermare lo sconcerto e la delusione di chi, oggi, dal Vaticano a varie altre entità politiche e statuali, guarda e promuove, con scarsi o nulli risultati, una soluzione diplomatica del conflitto in corso. In questo, sì, la Storia sembra ripetersi ancora, indipendentemente dalle capacità e dal carisma dei promotori delle medesime iniziative3.