Cronache marsigliesi /7: la guerra civile in Francia

di Emilio Quadrelli

On s’engage ….et puis on voit (Napoleone Bonaparte)

Nel primo articolo su Marsiglia, Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia (Carmillaonline 26 marzo 2023), avevamo evidenziato l’elettricità che faceva da sfondo a questa città, un’elettricità che si respirava nell’aria e che sembrava sempre in procinto di dar fuoco alla metropoli. Avevamo atteso l’irrompere di tutto ciò nel corso delle lotte sulle pensioni, ma avevamo dovuto rilevare che tra quella frazione di classe, sostanzialmente l’aristocrazia operaia, scesa in piazza e la nuova composizione di classe operaia vi erano ben poche possibilità di cooperazione.

La cosa, in realtà, non deve stupire poiché solitamente tra il “mondo di ieri” e il “mondo nuovo” gli aspetti di rottura sono di gran lunga superiori ai possibili elementi di continuità e quanto accaduto negli ultimi giorni ne è stata una evidente conferma. La rabbia e la radicalità messa in campo dal soggetto proletario sceso in strada ben poco poteva avere a che fare con il clima da scampagnata che, nell’insieme, faceva da sfondo alle lotte contro la riforma delle pensioni. A conti fatti i due mondi non potevano incontrarsi e così è stato. Di ciò abbiamo parlato a lungo e non sembra il caso di tornarvi sopra. Semmai, ciò che va ancora una volta rilevato, è come il “mostro sacro” dell’unità di classe può sortire una qualche fascinazione solo tra chi della classe ha una conoscenza tanto astratta quanto libresca e risulti del tutto estraneo alla sua determinazione empirica. Quindi, senza fronzoli di troppo, proviamo a entrare dentro a ciò che, a tutti gli effetti, si mostra come il corposo incipit della guerra civile in Francia.

L’uccisione, una vera e propria esecuzione a freddo come senza ombra di dubbio testimonia il video che ha ripreso la scena dell’omicidio, di un giovane francese di origine algerina consumata a Nanterre il 27 giugno ha dato il la a sei giorni di rivolta la quale, secondo i più, ha reso le rivolte del 2005 e del 2006 poco più che allegre scorribande di scolaresche in festa per la fine dell’anno scolastico. Una affermazione che, chi scrive, fa fatica a metabolizzare visto che era stato presente a quelle rivolte e tutto gli erano sembrate tranne che l’esuberanza di boy scout con qualche birra di troppo in corpo. A bocce ferme, però, l’asserzione appare ben poco prossima all’esagerazione e la reazione dello stato tenderebbe a confermarlo appieno.

Tutto il nostro lavoro è incentrato su Marsiglia per cui, anche in questa occasione, focalizzeremo la nostra attenzione sulla città del Minstral in quanto non vorremmo venir meno al “tratto empirico” che ha contrassegnato tutti i nostri articoli. Per onestà intellettuale dobbiamo immediatamente dichiarare che le informazioni reperite sono di seconda mano poiché gli attori sociali che ci hanno accompagnato nelle puntate precedenti, in questo caso, non hanno avuto alcun ruolo centrale. La rivolta è stata interamente in mano, nonostante la non secondaria presenza di altre fasce di età, di ragazzi tra i 12 e i 20 anni i quali, solo in alcuni casi, possono vantare contaminazioni di natura politica, sindacale e sociale anche se è bene ricordare che tra i petit non sono poi così pochi coloro i quali hanno avuto un qualche ruolo attivo nelle lotte sociali interne ai quartieri. Una presenza giovanile che ha lasciato tra l’attonito e lo stupito i vari commentatori ma che, in realtà, non fa altro che registrare come le condizioni di classe, e in questo caso anche di “razza”, sedimenti approcci alla vita incommensurabili. Solo uno sguardo profondamente razziale può considerare quell’essere giovani per sempre, tipico dei “bimbi minchia” appartenenti al mondo bianco e garantito, una condizione universale. Ma torniamo a Marsiglia.

La prima cosa che va rilevata è come, a differenza che nel 2005 e nel 2006, anche Marsiglia sia scesa pesantemente in campo. Nelle rivolte precedenti Marsiglia era rimasta sostanzialmente in disparte per un motivo molto semplice: il controllo che le organizzazioni criminali erano in grado di esercitare nei confronti della popolazione dei “quartieri” si mostrava pressoché assoluto. Il crimine, come ben aveva evidenziato Foucault con buona pace dei cultori delle varie “corti dei miracoli”, non è che l’altra faccia della polizia il che, come non poche testimonianze sono lì a ricordare, è particolarmente evidente, e non solo a Marsiglia, osservando i ritmi della vita quotidiana dei “quartieri”. Il connubio tra polizia e spacciatori è un dato di fatto, un connubio che ha sullo sfondo tanto il business, nel quale sono entrambi cointeressati, quanto il mantenimento dell’ordine sociale e politico. Questa verità, che è evidente un po’ ovunque, a Marsiglia era, e in parte è, ancora più vera anche se, una qualche rottura vi è stata ed è una rottura non priva di significato della quale è opportuno dare conto poiché foriera di interessanti possibili sviluppi.

Da tempo una parte, neppure secondaria, del proletariato illegale è in rotta con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico nei quartieri. Per quanto strano di primo acchito la cosa possa sembrare, la rottura è avvenuta su basi “sindacali” Ciò che gli illegali lamentano è il tasso di sfruttamento, ossia bassissima remunerazione, che le organizzazioni esercitano nei confronti dei propri salariati, l’eccesso di rischio che il “lavoro” comporta, il dispotismo che caratterizza i “quadri intermedi” del comando criminale, le irrisorie garanzie fornite a chi viene imprigionato e infine, ma certamente non per ultimo, il costante sacrificio di quote di illegali alle forze dell’ordine.

Nello scambio costante tra crimine e polizia, infatti, è compresa una quantità di arresti che le organizzazioni garantiscono alle forze dell’ordine al fine di salvare la facciata dell’azione poliziesca nei “quartieri”. Molti illegali, quindi, tendono a abbandonare il lavoro di spaccio cercando altre vie di sostentamento mentre il loro posto viene preso da immigrati clandestini i quali ben difficilmente sono in grado di sottrarsi agli imperativi del “comando illegale”. In ambito illegale si assiste a un fenomeno del tutto identico a ciò che avviene nel mondo legale, i clandestini vanno a ricoprire i lavori più pericolosi e meno retribuiti.

Detto ciò resta il fatto che, a Marsiglia, i “quartieri” sono stati toccati abbastanza poco e che tutta la rabbia dei petit si è riversata nel centro cittadino. Ciò conferma quanto posto in evidenza negli articoli precedenti ovvero la necessità di intervenire su carcere e illegalità poiché questa condizione è propria di quote non irrilevanti di classe operaia e proletariato nei confronti dei quali, le organizzazioni criminali, svolgono un ruolo di controllo e di ricatto per nulla dissimile da quello che il padrone esercita nei confronti dei lavoratori precari. Lo scontro con lo stato non può che comportare lo scontro contro la criminalità poiché l’uno si regge sull’altro. É significativo il fatto che dai “quartieri” verso il centro cittadino si siano precipitati soprattutto i giovanissimi ovvero coloro che non sono stati ancora del tutto catturati dal ricatto che crimine e polizia mettono in atto nei “quartieri”. Certo questo è solo un dato ma che, a Marsiglia, apre una crepa non secondaria verso quel monolitismo totalizzante che poteri “legittimi” e “illegittimi” sembravano in grado di vantare.

Se, 18 anni fa, Marsiglia poteva essere mostrata come il fiore all’occhiello dell’interazione tra crimine e polizia tutto ciò oggi è in gran parte saltato e questa rottura ha posto problemi non solo, e non tanto, all’ordine pubblico ma ha comportato la messa in crisi il nuovo assetto sociale ed economico della città. Per molti versi, infatti, possiamo asserire che i sei giorni di scontri che hanno paralizzato il centro di Marsiglia possono essere considerati alla stregua di sei giornate di sciopero generale totale. Le ricadute economiche non sono state di certo inferiori a quelle politiche anzi, per molti versi, sono state anche più consistenti e non ci riferiamo ai saccheggi bensì al ciclo economico interamente fondato sul turismo. Una esagerazione? Non proprio se teniamo presente, come posto in evidenza negli articoli pregressi, quanto Marsiglia si sia repentinamente trasformata in città turistica e il peso che il turismo riveste per l’economia della città. Per sei giorni il centro turistico di Marsiglia è stato paralizzato e i turisti invitati a allontanarsi.

Di colpo quella sorta di valore aggiunto, Marsiglia la città pericolosa, che le agenzie turistiche sbandierano nei loro “pacchetti turistici” per attrarre un pubblico affamato di “colore” al quale, al contempo, garantiscono che questo “colore” è ben confinato e presidiato da una militarizzazione permanente, si è riversato proprio in quei non – luoghi dove croceristi di infimo ordine giocano alla “classe agiata”. Con ciò l’intero “pacchetto turistico” è venuto meno, le sbarre dello zoo sono state divelte e la fuga rapida e repentina è stata la sola via possibile per i turisti. Un enorme danno economico immediato con ricadute non secondarie sul futuro poiché nulla garantisce che quanto accaduto una volta, torni a ripetersi e, con ogni probabilità, in forma ancor più radicale.

Paradossalmente, dopo tanti libri e seminari sulla “gentrificazione” e la “turistizzazione” della città, i petit hanno portato in strada ciò che sembrava destinato a essere sepolto nelle biblioteche o in qualche angusta aula accademica del resto, nella battaglia, di professori e studenti universitari non si è avuto traccia il che, fatte le tare del caso, ci conduce a una consuetudine molto italiana, professori e studenti universitari riempiono le aule per i corsi e i seminari sulla Autonomia operaia ma non si vedono mai nei “picchetti operai” il che non fa che ricordarci come tutto il mondo sia paese.

Negli articoli precedenti avevamo individuato come la trasformazione di Marsiglia in città turistica fosse uno degli aspetti centrali dell’attuale ciclo di accumulazione e come proprio il proletariato dei “quartieri” incarnasse la forza lavoro sulla quale farlo prosperare. Bisogna riconoscere che, per quanto poco cosciente, l’azione dei petit è stata in grado di colpire il cuore del progetto politico ed economico. Non è tutto, ma è certamente qualcosa. In tutto ciò vi è un’altra particolarità che ha caratterizzato Marsiglia rispetto al resto della Francia, qua l’assalto alle merci è stato predominante.

I petit più che i simboli del potere hanno preso di mira la ricchezza. Ogni tipo di merce, dalle auto alle moto, dalle scarpe ai cellulari, dai vari brand alla moda senza tralasciare tabaccherie e supermercati è stato prima razziato e subito dopo venduto. Chi era presente agli espropri racconta di come, nelle vie immediatamente adiacenti agli esercizi commerciali presi di mira dai petit, venissero immediatamente allestiti dei “mercati” dove gli oggetti in eccedenza venivano subito monetizzati. Tutto ciò ci porta a affrontare una questione che colpevolmente abbiamo del tutto tralasciato nei nostri articoli, la “questione della merce”, un tema centrale della teoria marxiana che, e non da oggi, è stato costantemente ignorato.

Liquidato come “civetteria hegeliana” il paragrafo del Primo libro del Capitale a proposito del carattere di feticcio della merce è stato raramente oggetto di un qualche interesse poiché farlo avrebbe obbligato a una lettura del testo marxiano ben distante dallo “oggettivismo” e “scientismo” che ne ha caratterizzato lettura e divulgazione. Relegato a dotta nuance il paragrafo sulla merce se una qualche fortuna ha avuto lo deve a autori dichiaratamente apocrifi quali, per esempio, Benjamin, il giovane Lukács, la Scuola di Francoforte o alcuni ambiti della “critica ultra radicale” come il situazionismo. Eppure la merce incarna il regno del capitale nella sua totalità e sarebbe impensabile che il suo potere e il suo “fascino” lasciasse immuni proprio coloro che la merce producono.

Certo, la merce è alienazione ma l’alienazione è la cornice esistenziale all’interno della quale si dipanano le vite dei proletari, il legame contraddittorio con la merce non può che essere il frame totalizzante della vita proletaria. Non deve stupire, per tanto, che la bramosia per il possesso delle merci infiammi il desiderio proletario. Una storia che quanto andato in scena a Marsiglia ha ben poco di nuovo poiché, solo tenendo a mente la storia dei vari riots dell’era attuale, si presenta come una costante.

Ma tutto questo cosa ci racconta? Molto prosaicamente che il proletariato ha ben poco a che spartire con il “socialismo francescano” e che , in tutto ciò, il rapporto con la merce assume un ruolo centrale. Per molti versi occorre riconoscere che, al pari della religione e, almeno nei nostri mondi, in maniera ancora più dirompente la merce è , al contempo, tanto l’oppio dei popoli quanto il gemito degli oppressi. Solo tenendo a mente la relazione dialettica presente nella “forma merce”, come del resto Marx aveva ben spiegato, diventa possibile interagire con il proletariato poiché. come non è possibile sconfiggere il pensiero religioso facendo leva sul razionalismo illuminista, così non è possibile liberarsi del fascino delle Adidas attraverso dotti sermoni sull’alienazione.

Un secondo aspetto che sembra difficilmente contestabile è l’organizzazione della “forza” su base territoriale. I petit si muovono a partire dalla loro appartenenza territoriale, da quella “forma gang” che sembra essere la loro principale forma di aggregazione e socializzazione. Non siamo in grado di dire molto su ciò perciò, evitando di ricalcare le orme consuete dei sociologi la cui occupazione principale è discettare su ciò che non conoscono, ci limitiamo a rilevare come questa forma organizzativa, sul piano del confronto militare, sia stata in grado di porre letteralmente in crisi la polizia che non riusciva mai a entrare direttamente in contatto con gli autori delle azioni i quali, una volta portato a termine l’obiettivo prefissato, riuscivano facilmente a dileguarsi ponendo in atto il noto principio maoista di apparire all’improvviso per poi ripiegare velocemente.

Certo, è ben difficile che i petit conoscano Mao o le varie tecniche di guerriglia urbana o meglio non le hanno studiate ma le hanno apprese attraverso quella trasmissione di “sapere orale” presente nei “quartieri”. Appare esattamente qua quella “memoria delle lotte” che attraversa varie generazioni di petit e che sembra essere un elemento fondativo del loro “romanzo di formazione” . Un aspetto del tutto ignorato dalle scienze sociali con la sola eccezione dei lavori di Bugliari Goggia, Rosso banlieue e La santa canaglia, che sembrano essere tra i pochi, se non unici, lavori di ricerca in grado di raccontare qualcosa di sensato e reale sulle vite e le storie del “popolo dei quartieri”. Testi che mi permetto di consigliare a chi è interessato a una lettura “empirica” di questi mondi deprivata dall’insieme di “ismi” che, per lo più, accompagnano le “profonde riflessioni” sociologiche sui mondi della banlieue insieme a tutte le amenità che si portano appresso.

Sul territorio e il suo ruolo, non per caso, ci siamo soffermati in numerosi passaggi degli articoli precedenti all’interno dei quali evidenziavamo come, in virtù delle trasformazioni radicali avvenute all’interno delle relazioni industriali contemporanee, il territorio, più che il luogo di lavoro fosse in grado di assolvere al ruolo strategico di contenitore della “forza” operaia e proletaria. Quanto andato in scena in questi giorni ne rappresenta più di una conferma. Appare del tutto irrealistico pensare, cosa abituale in un passato ormai lontano, a decine di migliaia di operai che escono dalla fabbrica per marciare verso il centro cittadino o i quartieri della borghesia piuttosto a masse operaie e proletarie che dal “quartiere” si riversano su centri del consumo, della ricchezza e del potere. Quanto andato in scena, di ciò, ne è una prosaica conferma.

Veniamo infine alla “questione polizia” e militarizzazione del territorio. Su questo aspetto ci siamo a lungo soffermati negli articoli precedenti evidenziando come, per la “popolazione dei quartieri” la polizia e il suo fare dispotico, razzista e colonialista rappresentasse una questione di vita o di morte. La rivolta ha avuto la polizia, insieme alle merci, come obiettivo principale e il bilancio che i petit offrono, almeno ciò è quanto abbiamo appreso dai nostri corrispondenti, delle battaglie è quanto mai positivo. La polizia è stata sostanzialmente ridicolizzata e posta sotto scacco. I petit hanno letteralmente svuotato il centro e la polizia non è stata in grado di impedire neppure un esproprio. Con ogni probabilità, in tutto ciò, vi è sicuramente qualche enfasi di troppo ma indubbiamente, al momento, i petit hanno vinto la battaglia, che però, è ancora molto lunga ed è palese che la risposta dello stato non si farà attendere.

La guerra civile è iniziata e le sue avvisaglie sono ampiamente in atto. Di ciò il comunicato dei sindacati di polizia che riportiamo non lascia ombre di dubbio. Senza troppi rigiri di parole la polizia dichiara: “Questa è una guerra e noi siamo in guerra”. Ciò che si è visto nelle strade, del resto, lo conferma appieno. Avevamo notato come, in relazione al movimento sulle pensioni, la polizia operasse con “il freno a mano tirato” mentre, questa volta, non solo ha tolto il freno a mano ma abbia innestato, sin da subito, il turbo. La cosa non deve stupire poiché siamo “semplicemente” di fronte alla declinazione interna del frame bellico che fa da sfondo all’agire degli stati imperialisti contemporanei.

La Francia è un paese in guerra e non solo per il suo coinvolgimento nel conflitto ucraino bensì perché il suo esercito è impegnato in tutta una serie di conflitti, soprattutto in Africa. La guerra è la cifra del presente e, per forza di cose, alla guerra esterna fa da contraltare la guerra interna. La pacificazione a ogni costo, non a caso il governo ha preso seriamente in considerazione il passaggio allo “stato di eccezione”, è l’obiettivo dello stato. Su ciò non bisogna cullare mene democratiche, non solo lo stato utilizzerà appieno la forza, ma la stessa società francese si sta attrezzando per la controrivoluzione preventiva.

La discesa in campo delle “ronde fasciste” ha ben poco di nostalgico e folclorico ma incarna l’organizzazione militare dei civili che si stanno attrezzando per condurre la loro battaglia di classe. Le “ronde fasciste” sono una storia del presente poiché siamo a “classe contro classe”. Punto. Come si potrà facilmente capire, il comunicato dei sindacati di polizia che segue non ha bisogno di interpretazioni in quanto ha l’indubbio merito di una chiarezza e una progettualità cristallina. Soprattutto là dove si afferma:

Alliance Police Nationale e UNSA Police indignate per la stigmatizzazione di cui sono vittime gli agenti di polizia e le loro rappresentanze sindacali, responsabili e rappresentative, confermano che non accetteranno più calunnie e insulti da parte di certi rappresentanti del mondo politico che hanno cercato di deformare le affermazioni contenute nel comunicato del 30 giugno 2023.
L’affermazione «Noi siamo in guerra» costituisce un’immagine reale delle condizioni in cui si trovano ogni giorno i nostri colleghi sul campo. Siamo ormai posti di fronte ad una vera guerriglia urbana e non a semplici violenze urbane, motivo per cui i nostri colleghi fanno fronte ad un’autentica guerra urbana che intendiamo vincere.
Questa espressione è stata utilizzata in prima persona dal presidente Macron ai tempi del Covid, ma pochi allora si indignarono per il suo contenuto.
Quando le nostre organizzazioni evocano la resistenza intendono parlare di resistenza sindacale, di future battaglie sindacali, della resistenza di cui danno prova i nostri colleghi quando fronteggiano coloro che intendono seminare il caos. Caos voluto da coloro che intendono nuocere ai valori della nostra repubblica.
Alliance Police Nationale e UNSA Police continueranno la battaglia per difendere i valori della Repubblica, le istituzioni e per difendere gli agenti di polizia da tutti coloro che intendono annientarli.

Intorno a questo documento, come testimoniano le “ronde” ma forse ancor più l’oltre milione e mezzo di Euro raccolti in pochi giorni per sostenere il poliziotto killer, si vanno coagulando non le “forze della reazione” bensì il fronte di classe della borghesia. Non abbiamo parlato di guerra civile per dare aria ai denti, ma avendo chiaramente a mente come, quando il conflitto di classe raggiunge una certa soglia, è l’intera società borghese che si militarizza e la formazione di novelli “corpi franchi” risponde esattamente alle esigenze dello “stato di eccezione”. A Marsiglia, nel frattempo, si registra un morto, colpito al petto qualche sera fa da un “proiettile di gomma”, mentre un altro, sempre vittima della medesima arma, è in fin di vita.

Concludiamo questo nostro intervento riportando il testo prodotto dai militanti che sono stati i principali artefici degli “articoli marsigliesi”. Un testo che, chi scrive, condivide in gran parte perché convinto, come più volte asserito, che ciò che ci aspetta è una lotta di lunga durata e che solo una sintesi organizzativa capace di trasportare la soggettività di classe dentro l’azione della soggettività politica sia garanzia di successo. Sappiamo anche che, la prossima volta, sarà peggio su entrambi i lati della barricata. La guerra civile è iniziata e dentro questa “porta stretta” saremo obbligati a passare.

Per i giovani teppisti della lotta di classe

In questi giorni la Francia è attraversata da rivolte e saccheggi. La scintilla è stata l’uccisione di un giovane (17 anni, di origine algerina) da parte di un poliziotto (un ex militare). Questa morte ha scatenato un’ondata di mobilitazioni in tutte le principali città della Francia. Giovani, giovanissimi (tra i 10 e i 20 anni) sono scesi in strada. Si susseguono saccheggi, assalti di edifici pubblici e privati, distruzione di auto e veicoli della polizia. La rivolta ha costretto il governo a imprigionare il poliziotto che ha ucciso il ragazzo. È interessante notare che la polizia si lamenta della tecnica di guerriglia urbana utilizzata dai rivoltosi (piccoli gruppi che si muovono e non cercano di affrontare la polizia), che consente una maggiore “libertà di movimento” da parte dei rivoltosi. Ciò non ha impedito alla polizia di arrestare più di 3.000 persone. Sul piano politico, ciò che è accaduto è il risultato di una de-integrazione sociale in Francia e di una proletarizzazione più generale della società. Una tendenza che, secondo noi, si estende a tutta l’Europa. La particolarità francese è che ci troviamo in una zona in cui la dimensione di classe è intrecciata con la dimensione “razziale” legata alle logiche coloniali vecchie e nuove. I giovani che hanno partecipato alla rivolta e ai saccheggi erano per lo più giovani francesi di origine africana. Le risposte del governo sono state disordinate, superate dalla velocità con cui si sono svolte le manifestazioni, l’attacco di Macron contro le famiglie in Francia che non sorvegliano i loro figli è significativo…. . Non solo i giovani sono stati criminalizzati, ma anche i genitori sono stati accusati. È una confessione involontaria del governo sulla frattura sociale nella società francese. Quando la stessa istituzione borghese della famiglia è rimessa in discussione dal governo… Alcuni sindacati di polizia hanno chiamato alla guerra civile, sebbene queste proposte siano contestate dal governo, hanno evidenziato una tendenza interna alla polizia in Francia. Se l’esercito diventa sempre più una forza di polizia da inviare all’estero, la polizia diventa una forza militare per controllare e «conquistare» il territorio interno. Il governo e le diverse forze politiche hanno invocato la pace e il dialogo, usando un po’ di tutto, dalla squadra di calcio nazionale francese ai tifosi organizzati come quello dell’OM a Marsiglia… l’importante è il ritorno alla calma borghese. Il nostro ruolo come comunisti rivoluzionari, non deve essere quello di gridare, di utilizzare le vittime, ci sono già molte organizzazioni in Francia che lo fanno (riformisti e religiosi). Una rivolta è un fatto politico, ma manca ancora di “forza” se non c’è una frazione rivoluzionaria capace di utilizzare questa “forza” in relazione alla lotta di classe (scontro contro l’apparato di potere della borghesia). È dunque importante per noi rimettere al centro la questione dell’organizzazione, il ruolo della sintesi politica (del programma) e il radicamento reale di una frazione di comunisti in seno alla classe (classe vista come reale forza sociale, con tutte le sue differenze e contraddizioni interne). Che si traduce nel nostro ruolo e nella nostra partecipazione ai sindacati, comitati di quartiere, associazioni culturali e sportive, ecc… costruire e partecipare a forme concrete di organizzazione e di solidarietà proletaria. Difendere la legittimità di questa rivolta e le implicazioni politiche, comprendere le ragioni della vendetta di una parte della gioventù francese è indispensabile per coloro che si dichiarano comunisti. Le radicali fratture sociali sono processi inevitabili in una società che si basa sul profitto e lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. I saccheggi, le distruzioni, non sono il socialismo, ma il segno delle contraddizioni di questa vecchia società e del bisogno e dell’emergere di una nuova1.

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