di Enrico Pietra
Cinque anni. Cinque anni dal crollo della pila 9 del Ponte Morandi a Genova, avvenuto la piovosa mattina del 14 agosto 2018, in circa 15 secondi. Furono 43 le vittime. Quella del Morandi a Genova, la più devastante tragedia che ha colpito la città della Lanterna dal secondo dopoguerra, è ormai una vicenda che prima di essere giudiziaria e di cronaca, è divenuta nel tempo surreale.
Perché surreale? Perché sin dalle prime ore, tutti sapevano tutto. Tutti i media, le istituzioni, i giornali e le radio parlavano con cognizione di causa di un ponte “marcio”, crollato per il distacco di uno “strallo”. E tutti sapevano che la responsabilità di quanto avvenuto fosse da imputare ad ASPI e alla sua politica di lesina su monitoraggi e manutenzioni.
Non che la storia di questi quasi cinque anni trascorsi non abbia confermato le prime supposizioni, per lo meno per quanto riguarda lo stato precomatoso di quel ponte, soprattutto dei trefoli d’acciaio dei tiranti, annegati nel calcestruzzo, e delle viscere dell’impalcato, sopra cui ogni giorno passavano migliaia di mezzi e autoarticolati. Ricordo, però, che il ponte è crollato scarico: qualche decina di automobili e due o tre bilici. Sarebbe potuta andare molto, molto peggio. Eppure, siamo ancora qui a discutere, la giustizia non ha completato il suo corso, anzi gli imputati verranno auditi solo a partire dall’autunno prossimo. Malgrado le assolute certezze iniziali, più volte ribadite, nessuna decisione è stata presa, nessuna condanna è stata ancora emessa.
ASPI e SPEA sono già fuori dal processo, grazie al patteggiamento (per una cifra complessiva di 30 milioni di euro). La quota dell’88.06% di ASPI detenuta da Atlantia è stata acquisita per circa 8.2 miliardi da un consorzio formato da Cassa Depositi e Prestiti più il fondo americano Blackstone e l’australiano Macquarie. Lo Stato si è accollato l’onere di rimpinguare le casse della famiglia Benetton, che he ricevuto così una cifra abnorme semplicemente per uscire di scena.
Nella relazione presentata alle Camere il 31 marzo scorso da Giorgia Meloni e dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini (e dal Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti) si legge alle pagg.1-2 che “il Ponte sullo Stretto costituisce un’infrastruttura fondamentale rispetto alla mobilità militare, tenuto conto della presenza di importanti basi militari NATO nell’Italia meridionale”. Scritto proprio così, nero su bianco. Il progetto, infatti, rientra nel “Trans-European Transport Network”, il cui scopo, tra gli altri, è quello di creare una rete in grado di soddisfare un “Piano d’azione sulla mobilità militare 2.0”, ovvero una serie di investimenti sostenuti dalla UE per rendere le vie di comunicazione civili adatte al passaggio (anche) di mezzi militari. Il progetto, si estende lungo vari “corridoi”, tra cui quello Reno-Alpi, a cui appartiene il Ponte San Giorgio, ex Ponte Morandi. In tal senso, appare significativo leggere nella quinta versione del piano di lavoro di tale “corridoio”, targata luglio 2022, che il “San Giorgio motorway bridge in Genova as a reconstruction of the Ponte Morandi Bridge” rappresenta uno dei sette progetti realizzati tra 2019 e 2021 con il più significativo impatto sul corridoio e la sua funzionalità. Dunque, un’infrastruttura giudicata strategica dai gestori stessi di una rete pensata per essere utilizzata a fini civili e militari.
Viene il sospetto, a questo punto, che la volontà di demolire tutto il ponte Morandi, da subito propugnata a tamburo battente da media e istituzioni (ricordate l’ “avversione psicologica” dei genovesi per i ponti strallati?), nonché il prodigioso efficientismo con cui è stato ricostruito, avessero a che fare – anche – con la volontà di collocare in un punto strategico una struttura adeguata a livello militare: le nuove normative NTC 2018, a seconda della luce del ponte e a parità di schema statico, hanno infatti aumentato le sollecitazioni di progetto dei ponti stradali rispetto a quanto previsto da quelle precedenti. Non solo. Tra le aziende che si occuperanno della realizzazione dell’infrastruttura sullo stretto di Messina figura anche la WeBuild s.p.a. (ex Salini Impregilo), già artefice della costruzione della tratta dell’alta velocità Novara-Milano e del passante autostradale di Mestre (due opere utili per collegare le basi americane nel nord-est italiano), oltre che della ricostruzione del Ponte Morandi a Genova.
Occorre ricordare che il “Piano per la mobilità militare” fu approvato per l’Italia dalla nostra Commissione Difesa il 5 dicembre del 2018. Tale piano prevede globalmente un versamento di un miliardo e settecento milioni di euro per sveltire e rendere più fluido il trasporto e il movimento delle truppe militari in Europa, soprattutto nel senso ovest-est, dopo che, a partire dal 2014, la presenza americana in Europa (già aumentata per l’allargamento verso est della NATO) si è fatta più pressante a seguito dell’annessione della Crimea alla Russia. L’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 ha fornito le giustificazioni per un’ulteriore accelerazione della militarizzazione delle reti trasportistiche europee. Così il 10 novembre scorso è stato varato il “Piano d’azione per la mobilità militare 2.0”, rimodulando la prima versione. Il disgraziato crollo del Ponte Morandi, nell’ottica dell’implementazione invocata, è stato un accadimento nodale.
Danilo Coppe, il mago degli esplosivi che nel giugno 2019 fece implodere le pile 10 e 11 di ciò che rimaneva del ponte sul Polcevera, rivelò alla stampa e ai giudici di essere stato contattato da ASPI già nel 2003 per il calcolo dei costi di un’eventuale demolizione del ponte, giacché era chiaro anche allora che costasse di più mantenerlo che abbatterlo. Solo che sotto il viadotto c’erano diversi edifici e passavano linee ferroviarie, elettriche, gasdotti, strade provinciali e comunali. Bastava in pratica l’opposizione di un solo ente che si sarebbe bloccato tutto. Ecco perché – ha detto Coppe – “bisognava pensare all’americana, lavorare con elasticità mentale”. E non se ne fece nulla.
L’indagine sulla documentazione video del crollo del Morandi e le sue anomalie, tra cui il framerate incostante del filmato Ferrometal – la “prova regina” – ha lasciato in chi scrive molto amaro in bocca. Gli altri video sono stati tagliati e le telecamere che avrebbero potuto chiarire quanto accaduto si trovavano sul Ponte e le gestiva Autostrade: purtroppo però quella est è andata fuori uso per colpa del “temporale” (anzi, dello “sciame sismico” successivo al crollo), mentre quella a Ovest ha registrato una misteriosa coltre caliginosa bianca materializzarsi nel giro di un minuto proprio intorno alla pila 9 negli attimi immediatamente precedenti al cedimento.
Per onestà intellettuale, andrebbe inoltre ricordato che il crollo del manufatto, al netto di 43 vittime e del baratro in cui sono precipitate le loro famiglie, ha cagionato a cascata anche molti vantaggi secondari:
– Regione Liguria, Comune di Genova e Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale, hanno ricevuto da Autostrade 1.5 miliardi di euro per la realizzazione di opere nevralgiche e fondamentali (tra cui il tunnel subportuale).
– Tutta la zona del Polcevera verrà sottoposta a un pesante restyling, con investimenti consistenti (la comparsa dell’americana Amazon è solo l’inizio).
– I proprietari delle case sotto il ponte si sono visti rimborsare il valore delle proprie abitazioni ben oltre il prezzo di mercato e hanno potuto spostarsi in zone della città più prestigiose.
– Il “Modello Genova”, che ha operato in barba a regole e normative, spesso citato e molto amato dai nostri governanti, ha rappresentato uno splendido archetipo per gestire circostanze emergenziali.
– Atlantia ha guadagnato una montagna di soldi (vedi sopra). Nello specifico, i villains della storia, i pantagruelici Benetton (detentori del 30% di Atlantia), hanno ricevuto 2.5 miliardi di euro dalle casse pubbliche.
Sarebbe infine doveroso dare una risposta definitiva ai molti che hanno testimoniato davanti ai giudici nei mesi scorsi di un forte boato avvertito prima del crollo: il rumore di uno strallo in calcestruzzo che si rompe non lo conosce nessuno. E spiegare anche cos’erano quei bagliori ripresi nel fortunoso video di Davide Di Giorgio, erroneamente ritenuti provenire dalla sottostante ferrovia. Sarebbe utile, nell’attesa di comprendere come verranno accolte le teorie con cui si difenderanno gli imputati: il vizio costruttivo occulto della pila 9, quella crollata, sembra andrà per la maggiore. Genova in fondo chiede “solo” giustizia.