Perché il principio poetico è imperativo per la politica statale

Di Cynthia Chung, risingtidefoundation.net

Oggi, forse più che in qualsiasi altro momento della storia, stiamo vivendo una frattura tra quello che viene considerato il “dominio” o il “confino” dell’arte come completamente separato dal dominio della “politica”.

L’ironia di questa percezione sta nel non riconoscere che la radice del nostro sistema politico era legata alle arti fin dalla sua nascita.

Guardando all’antico Egitto e ad Atene, il mythos era dominante in tutte le sfere del pensiero. Il mythos, che si riferisce a qualsiasi cosa trasmessa per via orale, cioè favole, leggende, narrazioni, racconti ecc. In altre parole, le idee che erano pervasive in queste culture e che hanno plasmato tutti gli aspetti della vita, comprese la politica e le scienze, sono state plasmate dai mythoi, ovvero dall’arte di raccontare storie.

I grandi poemi di Omero che ci sono rimasti oggi, l’Iliade e l’Odissea, descrivono gli eventi della guerra di Troia e le sue immediate conseguenze, eventi che segnarono la discesa della Grecia in un’epoca buia. Dopo la guerra di Troia, intorno al 1190 a.C., la civiltà della Grecia continentale crollò, si perse la lingua scritta e le città scomparvero.L’Iliade e l’Odissea, scritte intorno al 700 a.C., annunciano l’inversione di tendenza e l’inizio della cultura greca classica.

Perché il principio poetico è imperativo per la politica statale
Omero (circa 9 o 8 secolo A.C.)

Queste storie epiche di Omero sono state tramandate nei secoli da poeti bardi che avevano memorizzato interi testi, viaggiavano per tutta la Grecia e raccontavano questi racconti. Queste “storie” divennero un punto di riferimento culturale dominante per tutta la Grecia e non solo, e sono molto influenti ancora oggi.

Secondo voi, perché? È solo frutto dell’immaginazione? Oppure la nostra mente, situata nel regno dell’immaginazione, può giungere a una scoperta profonda attraverso il semplice “racconto”?

Come scrisse Shelley nel suo A defense of poetry:

    I poemi di Omero e dei suoi contemporanei erano la delizia della Grecia infantile; erano gli elementi di quel sistema sociale che è la colonna su cui si è appoggiata tutta la civiltà successiva. Omero incarnava la perfezione ideale della sua epoca nel carattere umano…

Eschilo (523-456 a.C.), Sofocle (497-406 a.C.) ed Euripide (480-406 a.C.) sono considerati i tre più grandi tragediografi greci.Le gare di tragedia greca si svolgevano tra tre diversi drammaturghi (selezionati mezzo anno prima), che dovevano comporre tre tragedie e una satira ciascuno. I festeggiamenti per la tragedia greca erano secondi solo alle gare di atletica.

Le tragedie greche non erano solo un intrattenimento, ma spesso contenevano un avvertimento per coloro che non davano retta alle decisioni sfortunate dei personaggi. Spesso le storie epiche del lontano passato venivano selezionate per la loro attinenza con una situazione o un conflitto del giorno d’oggi. Come ai tempi di Shakespeare, non si poteva semplicemente criticare una guerra o la condotta di uno specifico gruppo dirigente o influente, ma piuttosto il drammaturgo sceglieva personaggi di un mondo fittizio o di un passato lontano per mostrare una predizione. Per rivelare una verità rimasta nascosta.

Si potrebbe obiettare che quelli erano tempi più semplici e che nel mondo di oggi, dominato dal calcolo e dall’informazione, non possiamo permetterci un pensiero così fantasioso e inesatto nel campo della “politica”. Io direi che questo non fa che aumentare l’urgenza di reintrodurre l’arte nel regno della “realtà”, per così dire.

Per esempio, vi è mai capitato di cercare qualcosa, fissando ostinatamente una zona specifica in cui eravate certi di aver lasciato l’oggetto, ma non c’è? Allora vi mettete a rovistare in tutta la casa e poi, tornando in quello stesso punto, vi rendete conto che l’oggetto che cercavate è sempre stato lì? In realtà era proprio davanti a voi, ma per qualche inspiegabile motivo non riuscivate a “vederlo” in quel momento.

In breve, la poesia ci dà la capacità di “vedere” qualcosa che ci è rimasto nascosto.

Non è semplicemente una questione di “logica” o di “ragione” che possiamo costringere queste cose a rivelarsi a noi, e per quanto ci sforziamo di insistere con i nostri sensi che sappiamo che qualcosa è vero, anche i nostri stessi occhi hanno la capacità di mostrarci un’immagine falsa.

Per approfondire questo aspetto, diamo uno sguardo alla costituzione di Shelley per i poeti e gli statisti, “A Defence of Poetry”.

Come Shelley discute in questo saggio, ci sono:

    due classi di azioni mentali, che si chiamano ragione e immaginazione; la prima può essere considerata come la mente che contempla le relazioni tra un pensiero e un altro, comunque prodotto, e la seconda come la mente che agisce su quei pensieri in modo da colorarli con la propria luce, e compone da essi, come da elementi, altri pensieri, ciascuno dei quali contiene in sé il principio della propria integrità…La ragione sta all’immaginazione come lo strumento all’agente, come il corpo allo spirito, come l’ombra alla sostanza.

Come la definisce Shelley, la poesia può essere definita come “l’espressione dell’immaginazione”:

    …I poeti… non sono solo gli autori della lingua e della musica, della danza, dell’architettura, della statuaria e della pittura: sono gli istitutori delle leggi, i fondatori della società civile, gli inventori delle arti della vita, i maestri che portano a una certa propensione al bello e al vero…I poeti, a seconda delle circostanze dell’epoca e della nazione in cui sono apparsi, erano chiamati, nelle prime epoche del mondo, legislatori o profeti: un poeta comprende e unisce essenzialmente entrambi questi caratteri. Infatti, non solo osserva intensamente il presente così com’è, e scopre le leggi secondo le quali le cose presenti dovrebbero essere ordinate, ma vede il futuro nel presente, e i suoi pensieri sono i germi del fiore e il frutto dell’ultimo tempo… Un poeta partecipa all’eterno, all’infinito e all’uno; per quanto riguarda le sue concezioni, il tempo e il luogo e il numero non lo sono.

Quello che Shelley sta discutendo qui è l’importanza dell’immaginazione, che non è qualcosa di fantasioso, ma in realtà qualcosa di cruciale se una società deve progredire e prosperare. Non si tratta di una forma arbitraria di immaginazione, ma piuttosto della capacità di vedere un potenziale, qualcosa che deve ancora prendere forma; qualcosa che non potremo mai tenere in mano e sezionare, come il concetto di giustizia o quello di amore, qualcosa che partecipa dell’eterno.

Shelley dice inoltre:

Si ammette che l’esercizio dell’immaginazione sia più delizioso, ma si sostiene che quellodella ragione sia più utile. Esaminiamoesaminare i motivi di questa distinzione, che cosa siintende qui per utilità. Il piacere o il bene, in senso generale, è ciò che la coscienza di un essere sensibile e intelligente coscienza di un essere sensibile e intelligente cerca e, quando lo trova, lo accetta, quando lo trova, lo accetta. Ci sono due tipi di piacere, uno duraturo, universale e permanente; l’altro transitorio e particolare… Nel primo senso, tutto ciò che rafforza e rende più forte l’intelligenza e l’intelligenza.Nel primo senso, tutto ciò che rafforza e purifica gli affetti, amplia l’immaginazione e aggiunge spirito al senso, è utile. Ma un significato più ristretto alla parola utilità, limitandola ad esprimere ciò che esprime ciò che bandisce l’importunità dei bisogni della nostra natura animale, il circondare gli uomini con la sicurezza della vita, il disperdere le superstizioni e il conciliare un tale grado di tolleranza reciproca tra gli uomini che può consistere in motivi di vantaggio personale.

Shelley utilizza in modo molto chiaro la lezione di Platone, secondo cui le azioni e i pensieri di ogni individuo nella vita sono volti alla ricerca e all’acquisizione del piacere. Tuttavia, ci sono due forme di piacere, una che partecipa all’eterno e una che partecipa al temporale. Quest’ultimo può essere definito il dominio dell’utilità ristretta (per uno studio più approfondito si rimanda al Gorgia di Platone).

L’utilità più elementare è una condizione necessaria per sostenere la vita. I nostri corpi, dopo tutto, sono fatti di carne e abbiamo bisogno di un costante rifornimento di beni temporali, come aria, cibo, acqua, calore. Ne traiamo piacere e questo è un bene.

Tuttavia, c’è un problema che sorge se affermiamo che questo è il fine ultimo della nostra esistenza. La nostra mente, anche se qualcuno lo contesta, non partecipa pienamente al regno temporale, ma è anche situata nell’eterno.

Il fatto che possiamo anche solo immaginare il concetto di eterno è una prova di questo. La nostra mente ha la capacità di partecipare a qualcosa che è al di là della nostra percezione diretta dello spazio-tempo fisico e quindi partecipa all’eterno.

Continuiamo a leggere:

Ma mentre lo scettico distrugge le grossolane superstizioni, si risparmi di deturpare, come hanno fatto alcuni scrittori francesi, le verità eterne caratterizzate dall’immaginazione degli uomini. Mentre il meccanicista riduce e l’economista politico combina il lavoro, si guardino bene dal far sì che le loro speculazioni, per mancanza di corrispondenza con quei principi primi che appartengono all’immaginazione, non tendano, come hanno fatto nell’Inghilterra moderna, a esasperare contemporaneamente gli estremi del lusso e della miseria. Hanno esemplificato il detto: “A chi ha, sarà dato di più e a chi non ha, sarà tolto il poco che ha”. I ricchi sono diventati più ricchi e i poveri sono diventati più poveri; e la nave dello Stato è spinta tra la Scilla e la Cariddi dell’anarchia e del dispotismo. Questi sono gli effetti che devono sempre derivare da un esercizio smodato della facoltà di calcolo.

Shelley ci avverte che seguire ciecamente la “facoltà di calcolo” e l’”utilità” diretta di un mero oggetto fisico ci priverà di ciò che è umano. Si tratta di “strumenti” necessari, ma non dovrebbero mai essere usati per “governare” un individuo o un popolo.

Pertanto, come possiamo risolvere questo problema?

Come creare e mantenere una società che sia abbastanza fluida da muoversi sempre più verso il miglioramento in tutte le sue sfere? Deve avere al centro “l’anima”, per così dire, di ciò che è essere umano e di come questo si relaziona a qualcosa di più grande di noi e della nostra vita.

Shelley afferma:

È difficile definire il piacere nel suo senso più alto; la definizione comporta una serie di apparenti paradossi. Infatti, per un inspiegabile difetto di armonia nella costituzione della natura umana, il dolore delle parti inferiori è spesso collegato ai piaceri delle parti superiori del nostro essere. Il dolore, il terrore, l’angoscia, la stessa disperazione, sono spesso le espressioni prescelte di un avvicinamento al bene supremo. La nostra simpatia nella finzione tragica dipende da questo principio; la tragedia si diletta offrendo un’ombra del piacere che esiste nel dolore. Questa è anche la fonte della malinconia che è inseparabile dalla melodia più dolce. Il piacere che è nel dolore è più dolce del piacere stesso. Da qui il detto: “È meglio andare nella casa del lutto che in quella del divertimento”. Non che questa massima specie di piacere sia necessariamente legata al dolore. Il piacere dell’amore e dell’amicizia, l’estasi dell’ammirazione della natura, la gioia della percezione e ancor più della creazione di poesie, sono spesso del tutto inalterati.La produzione e la garanzia del piacere in questo senso più elevato è la vera utilità. Coloro che producono e conservano questo piacere sono poeti o filosofi poetici.

Qui Shelley sta facendo notare che il vero utile, il vero piacevole, è ciò che ci rende veramente buoni, veramente più “umani”. Tuttavia, questo “senso più alto” del piacere è spesso legato al dolore. Questo tende a trattare la lotta tra le qualità mortali e quelle immortali del nostro essere (per uno studio più approfondito di questo aspetto si rimanda a “Sull’arte tragica” di Schiller).

Per esempio, la nostra mortalità, di per sé, è una cosa tragica. Il fatto che il tempo che trascorriamo su questa terra sia relativamente breve ci rende partecipi di una sorta di dolore, ma quando il nostro apprezzamento per la vita è ancora più caro e sacro, ci dà un piacere più grande, più ricco e colorato che se dessimo per scontata tale vita.

Tuttavia, c’è una condivisione ancora più alta del piacere e del dolore e questo partecipa all’eterno.

Perché il pubblico si commuove di fronte al sacrificio di un personaggio sul palcoscenico per un altro bene? Perché ci commuovono storie come Giovanna d’Arco, Braveheart, Romeo e Giulietta?

È in effetti la cosa più contraria alla “logica” o alla “ragione”, andare contro la nostra stessa esistenza fisica, non è vero? Rinunciare alla vita per una “causa”, per un’”idea”? Nessuno di noi desidera la morte, quindi perché dovremmo essere commossi dal sacrificio della vita di un altro per qualcosa che va oltre la nostra esistenza fisica?

È una riflessione sul fatto che il nostro desiderio più vero e profondo non è quello di prolungare una vita mortale, ma piuttosto quello di partecipare al massimo grado a qualcosa di immortale.

Torniamo a Shelley:

Tutte le cose esistono in quanto percepite: almeno in relazione al percipiente. “La mente è un luogo a sé stante e può fare dell’inferno un paradiso, del paradiso un inferno”. Ma la poesia sconfigge la maledizione che ci costringe a subire l’accidente delle impressioni circostanti. E sia che stenda il proprio sipario figurato, sia che ritiri il velo oscuro della vita dalla scena delle cose, crea ugualmente per noi un essere nel nostro essere. Ci rende abitanti di un mondo per il quale il mondo familiare è un caos. Riproduce l’universo comune di cui siamo porzioni e percipienti, e cancella dalla nostra vista interiore la pellicola di familiarità che ci oscura la meraviglia del nostro essere. Ci costringe a sentire ciò che percepiamo e a immaginare ciò che conosciamo. Crea di nuovo l’universo, dopo che è stato annientato nella nostra mente dal ripetersi di impressioni smussate dalla reiterazione.

Il modo migliore per capire a cosa si riferisce Shelley è che l’utilità ristretta e l’usanza/tradizione dogmatica sono più vicine alla vera morte che al sacrificio di una Giovanna d’Arco. Prolungare semplicemente un’esistenza fisica in tutte le nostre funzioni corporee non è diverso dall’esistenza di qualcuno che è stato lobotomizzato o è in stato comatoso.

Il valore più grande della vita è quello che partecipa a qualcosa che va oltre il mero aspetto fisico. “La mente è un luogo a sé stante e può fare dell’inferno un paradiso, dell’inferno un paradiso”, significa che la nostra mente è ciò che dà forma alla nostra “realtà”, è ciò che dà forma alle nostre scelte, alle nostre decisioni, al nostro futuro… alle nostre possibilità. A seconda delle decisioni che prendiamo, il corso della nostra vita e di intere civiltà può cambiare in meglio o in peggio.

L’immaginazione permette di trasformare una situazione senza speranza in una situazione fortuita. È l’immaginazione che coglie una rara opportunità quando si presenta, ed è veramente dall’immaginazione che siamo in grado di “cogliere l’attimo”, come la storia de “Il conte di Montecristo” di Dumas ci esemplifica magnificamente.

E così concludiamo con:

    La poesia è l’araldo, il compagno e il seguace più infallibile del risveglio di un grande popolo per operare un cambiamento benefico nell’opinione o nelle istituzioni. In questi periodi si accumula il potere di comunicare e ricevere concezioni intense e appassionate sull’uomo e sulla natura. La persona in cui risiede questo potere può spesso, per quanto riguarda molte parti della sua natura, avere una scarsa corrispondenza apparente con quello spirito di bene di cui è ministro. Ma anche se negano e abiurano, sono comunque costretti a servire quel potere che siede sul trono della loro stessa anima.

È impossibile leggere i componimenti dei più celebri scrittori dei giorni nostri senza essere colpiti dalla vita elettrica che arde nelle loro parole. Essi misurano la circonferenza e scandagliano le profondità della natura umana con uno spirito globale e penetrante, e sono forse essi stessi i più sinceramente stupiti dalle sue manifestazioni; perché non è tanto il loro spirito quanto lo spirito dell’epoca. I poeti sono gli ierofanti di un’ispirazione non compresa; gli specchi delle ombre gigantesche che il futuro proietta sul presente; le parole che esprimono ciò che non capiscono; le trombe che cantano alla battaglia e non sentono ciò che ispirano; l’influenza che non è mossa, ma muove. I poeti sono i legislatori misconosciuti del mondo.

Di Cynthia Chung, risingtidefoundation.net

Cynthia Chung è presidente della Rising Tide Foundation e autrice del libro “L’impero su cui non tramonta mai il sole nero“.

Fonte:

https://risingtidefoundation.net/2023/08/05/towards-an-age-of-reason-why-the-poetic-principle-is-imperative-for-statecraft/

Traduzione di Costantino Ceoldo – Pubblicato da CDC Cultura.

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