Di Sonia Milone per ComeDonChisciotte.org
Prima il Mali (2020 e 2021), poi il Burkina Faso (2022) e ora il Niger. La cintura dei golpe nell’Africa subsahariana si estende e imbarazza i vertici di Bruxelles. Solo un mese fa l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, Josep Borrell, aveva incontrato Mohamed Bazoum dichiarando entusiasticamente che il Niger è “un paradiso di stabilità”.
Il caos aperto dal colpo di stato nigerino riflette le nuove dinamiche geopolitiche internazionali che si stanno intessendo sul territorio del Sahel, area sensibilissima per le ricche miniere di uranio a cui sono sempre più interessati nuovi attori esterni con cui i paesi più poveri del mondo – fragili e penetrabili – possono rinegoziare relazioni che sono state, fino ad ora, del tutto asimmetriche.
Vengono, infatti, in mente le dichiarazioni aberranti rilasciate da Borrell lo scorso 13 ottobre durante l’inaugurazione dell’Accademia diplomatica europea a Bruges, in Belgio:
“L’Europa è un giardino. Abbiamo creato questo giardino, tutto in esso funziona. Questa è la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità è stata in grado di raggiungere. Il resto del mondo non è un giardino, ma una giungla e la giungla può prendere il giardino con la forza, ma la costruzione di muri non può essere la risposta alla minaccia rappresentata dalla giungla, anche se noi, giardinieri che si occupano del giardino, non possiamo ignorare questo pericolo: dobbiamo andare noi stessi nella giungla”.
In sintesi: noi siamo il giardino, la parte di mondo curata, coltivata, colta, mentre gli altri sono gli incolti, gli incivili, i selvaggi. Noi siamo la “civitas”, la civiltà, fuori c’è solo la “silva”, ovvero il silvestre o, meglio, il selvatico. Insomma, noi siamo il Bene mentre gli altri sono il Male.
Gli “altri” sono il resto del mondo, quelli che hanno l’ardire di non condividere il sistema di valori occidentale e di voler vivere in base ai propri principi. E ciò è una minaccia, bisogna entrare nella giungla, disboscarla e trapiantarvi i semi del nostro modello di vita. Come dei bravi giardinieri, occorre addomesticare la natura ribelle e sorvegliare che ogni pianta stia al suo posto pronti a potare i rami che crescono troppo e ad estirpare le erbacce.
Magari riuscendo a trasformare la terra intera in uno sconfinato giardino, in uno spazio interamente pianificato, controllato, panottico, diradando, una volta per tutte, le ombre della foresta nera dove si nasconde solo caos e irrazionalità.
Come si è fatto con il Colonialismo nella seconda metà del XIX secolo, quando l’Africa è stata rappresentata come il luogo di un’umanità corrotta e inferiore e, perciò, idonea ad essere ridisegnata sulla base di una nuova geografia politica che ha spartito il continente fra le potenze europee. Con l’appoggio dell’antropologia evoluzionistica del tempo che ne ha fornito la giustificazione “scientifica” interpretando le differenze culturali in base a una linea progressiva che andava dal primitivo al civilizzato. I civilizzati siamo, naturalmente, sempre e solo noi. Loro, gli “altri”, sono talmente involuti che, quando giungono in Europa le sculture di Ife (attuale Nigeria), gli etnologi si affannano a giustificare cotanta, sublime, raffinata bellezza con improbabili ascendenze etrusche (!). Occorrerà attendere Picasso, Modigliani e gli altri artisti dei primi del Novecento per vedere riconosciuto il valore delle culture “altre”. Parallelamente, nell’iconografia africana compare per la prima volta il disegno della “chiave”, simbolo del potere europeo di aprire e chiudere gli spazi altrui.
È passato più di un secolo ma nel discorso di Borrell riecheggia la stessa mentalità di superiorità di allora, la medesima volontà di tenere ben strette nelle mani le chiavi delle porte del mondo. Un’arroganza che, oggi, continua a covare sotto la retorica delle parole progressiste di uguaglianza e tolleranza. Infatti, la globalizzazione altro non è che una forma moderna di Colonialismo in cui la volontà di dominio dell’Occidente si dispiega nella esportabilità della nostra forma di vita sulle altre culture e sull’intero mondo.
I cosiddetti “selvaggi” si sono combattuti, uccisi e anche sterminati, ma sempre nel reciproco riconoscimento del valore dell’alterità. Per noi, invece, gli “altri” non sono niente. La nostra idea astratta e universalistica di “umanità” è razzista nella sua essenza poiché istituisce la categoria opposta di “non umanità”. Non è un progresso morale, ma l’approfondimento del razzismo occidentale che s’incarica di annichilire le differenze estendendo a tutti la logica capitalistica delle equivalenze.
La nostra è la civiltà che ha fatto dell’assolutizzazione della ragione il proprio unico orizzonte di senso. Un’assolutizzazione del tutto metastorica e irrazionale che, tuttavia, ha portato alla credenza (una vera e propria superstizione) che lo sviluppo tecnologico coincida con il progresso dell’umanità autolegittimandosi a conquistare il resto del globo e relegando le altre culture ai margini della geografia, nell’angolo dell’indifferenza, in luoghi lontani destinati a sparire o a essere saccheggiati.
Senza farlo di proposito, Joseph Borrell ha evocato due grandi archetipi dell’antropologia che declinano due modi opposti di concepire il mondo. La foresta è, infatti, l’archetipo che rappresenta la natura nel suo stato originario di primigeneità immutabile, di crescita autonoma senza modificazioni apportate dall’uomo. È un “assoluto”, l’inabitabile per eccellenza: un luogo che supera ogni misura umana e che non può essere dominato. Il giardino è, invece, l’archetipo che rappresenta la natura nel suo aspetto più benefico e razionale. È l’emblema di una natura addomesticata, coltivata, progettata per divenire un luogo accogliente, a misura umana. È, infatti, l’immagine del paradiso terrestre creato da Dio e offerto all’uomo come dimora provvida dispensatrice di frutti e di beni, materiali e spirituali, affinché una vita armonica possa svilupparsi. Dalla stessa radice latina deriva sia domus, casa, sia dominus, dominio.
Giardino e foresta simboleggiano due forme di conoscenza opposte: nel giardino la luminosità solare, apollinea, dirada le tenebre labirintiche della foresta dionisiaca. Il giardino è progettato per essere offerto primariamente alla vista che, da lontano, con distacco razionale, può abbracciarne il disegno complessivo. La foresta, invece, può essere conosciuta solo standovi dentro, percorrendola, poiché nessuno sguardo esterno globalizzante è in grado di sintetizzarne la complessità che si dà solo per scorci parziali perpetuamente cangianti ad ogni passo. Richiede la partecipazione intima e fisica alle sue leggi, come fa il selvaggio che la vive dall’interno per ottenerne una memoria e un controllo.
Ad esempio, i Pigmei (popolo nomade delle aree equatoriali comprese fra il Camerun e lo Zaire) percorrono la foresta incidendo le foglie e tracciando segni sul terreno: rendono, in tal modo, significativo lo spazio ritagliandole degli itinerari, cioè lo umanizzano. E dove il fitto della foresta lascia spazio alla radura, lì situano l’accampamento. L’area priva di vegetazione, dove vi si riversa la luce del sole, non è concepita come un vuoto ma come apertura a un principio di insediamento. Il centro della radura viene sempre lasciato libero e investito di funzioni importanti per il gruppo come le cerimonie religiose o quelle legate alla parola perchè chi parla nel centro è udito da tutti.
Per le etnie africane il concetto di spazio come vuoto da invadere e riempire non esiste. Lo spazio non è mai un’entità astratta, divisibile in parti equivalenti e misurabili, come è nella nostra tradizione cartesiana, ma è un campo relazionale, topologico, qualitativamente differenziato e non quantitativamente omogeneo.
Così come non esiste una netta scissione fra l’uomo e la natura, esiste solo una distinzione fra natura umanizzata e natura selvaggia dove, all’esigenza della demarcazione, si accompagna sempre anche quella del raccordo: non si tratta di esercitare un dominio sulla natura ma di innescare uno spazio antropizzato al suo interno. La demarcazione non è un confine fisso ma mobile, da presidiare con attenzione.
Presso gli Hausa della Nigeria, ad esempio, il garii, traducibile impropriamente con città, comprende non solo gli insediamenti effettivi ma anche le zone non abitate ma potenzialmente abitabili, includendo anche il cielo e i pozzi d’acqua. Fuori del garii ci sono le terre improduttive, siano esse lontane, vicine o addirittura interne all’insediamento abitato: la “distanza” non è concepita geometricamente. Il garii si dilata all’alba quando gli abitanti vanno al lavoro nei campi e si contrae la notte, con l’oscurità, quando ogni spazio al di fuori della casa tende a divenire brousse. Ma anche a mezzogiorno, quando il sole abbaglia e appiattisce le figure rendendole meno distinte, la brousse può avanzare.
In Burkina Faso, quando arriva la stagione secca e la sterpaglia invade i campi cancellandone i confini, tocca ai cacciatori Lobi aprire ritualmente la brousse e penetrarvi, mentre le divinità dei campi si ritirano nei granai. Con la stagione delle piogge saranno gli spiriti della brousse a ritirarsi mentre gli uomini e le divinità agrarie lasceranno i villaggi per recarsi sui campi e chiudere la brousse sospendendo la caccia. Le spedizioni dei cacciatori Lobi ritagliano temporaneamente dei territori umanizzati che rendono la distesa indifferenziata della savana un luogo temporaneamente protetto dagli spiriti che vi abitano. Anche le statue di fango poste al limite del villaggio hanno la medesima funzione: impedire agli spiriti della foresta di entrare nello spazio ordinato del villaggio.
Per i “selvaggi”, che non hanno mai “naturalizzato” la natura, essa è un “altro” reale, vivente, differenziato: è una figura alla pari dello scambio sociale nell’ordine simbolico. E il territorio è sempre uno spazio elastico generato da una dialettica delle differenze. Nei dipinti su corteccia dei nomadi pigmei, ad esempio, compaiono segni che rimandano sia alle foglie incise durante gli spostamenti, sia a quelli lasciati sul terreno nei rituali che propiziano la caccia, sia a quelli delle pitture corporee. Tali rimandi attenuano la distinzione fra accampamento e foresta fornendo una sorta di travestimento a colui che indossa il tessuto e assimilandolo alla natura.
In Africa, il cacciatore è sempre una figura ambigua per il suo transitare continuamente fra la brousse e il villaggio. Rispettato e temuto al contempo, gli si conferisce uno status particolare per controllarne l’oscuro potere che gli deriva dal contatto con le forze della foresta. Tale ambiguità è testimoniata dai tessuti: a differenza dei membri del villaggio che indossano abiti che esibiscono misura e chiarezza, segni della civiltà, il cacciatore indossa abiti scuri con amuleti in pelle, corna, pelo e cauri che rimandano alle creature selvagge della brousse. Quando un animale viene ucciso nella brousse una sua parte significativa viene aggiunta all’abito che così si modifica continuamente. Con gli anni, gli elementi animali finiscono con il ricoprire tutto il tessuto: l’abito assomiglia sempre di più alla brousse e il cacciatore si immedesima sempre più con essa. La trasformazione non implica però il passare dall’altro lato: il cacciatore resta un operatore culturale che si muove lungo la linea di frontiera, l’elemento naturale cucito al tessuto si muta in artefatto che restituisce la brousse con una valenza diversa umanizzata. Il confine non crea una cesura ma un’osmosi porosa.
Noi abbiamo desimbolizzato la natura trasferendola alle leggi biologiche della scienza. Il nostro rapporto con la natura non è più vivo e mortale, ma strumentale: essa è veramente una natura morta, uno sfondo asettico, messo nello statuto idealizzato dell’ecologia, un vero e proprio ghetto, così come abbiamo messo nei musei le culture extra-occidentali dopo averle sterminate.
Giardino e foresta sono due paesaggi a temperatura differente, orientati secondo coordinate geo-culturali completamente opposte. Per Martin Heiddeger, la Foresta esprime anche la componente aurorale della Terra in quanto Erde, opposta alla Terra in quanto Welt. Qualsiasi azione umana non può che istituirsi come attività modificatrice che tende a trasformare la natura in cultura, ovvero la Foresta in Giardino. Diverso però è il modo in cui viene concettualizzato.
La nostra civiltà si basa sul pensiero logico-analitico, su una cultura dedita a coltivare il giardino. Il giardino era il sogno di portare il Paradiso in terra, lungamente vagheggiato da un Occidente che, alla fine, tradendo sé stesso, lo ha trasformato nell’incubo odierno.
Il giardino ha cominciato ad appassire quando i tarli del pensiero astraente hanno iniziato a prosciugare la fertile vitalità di ogni contenuto che non fosse riducibile a formule scientifiche.
La modernità, col suo grande progetto di addomesticamento totalitario del reale, di rimodellamento uniforme di ogni alterità, di rarefazione di ogni ombra alla luce delle sue ipostasi illuministe, in sintesi, con il suo sogno di trasformare il mondo in uno spazio interamente controllato, si ritrova, infine, senza più terreno sotto i piedi facendo dello sradicamento e della deterritorializzazione le proprie coordinate di fondo.
E il giardino, accuratamente coltivato da Socrate, Eraclito, Leonardo, ora è infestato dai parassiti di Bruxelles che stanno facendo marcire definitivamente i frutti di una tradizione bimillenaria di incommensurabile bellezza, sapienza e profondità.
Globalizzazione, cancel culture, censura della pluralità, massificazione livellante, abbassamento dell’istruzione, distruzione dell’arte, genderismo, eugenetica, transumanesimo, scientismo, tecnocrazia, metaverso, sono i semi assai velenosi piantati nel nostro terreno dai Borrell e dalle Von der Leyen, i “giardinieri” al soldo dei proprietari del tecno-capitalismo neoliberale, apolide e feroce.
Il giardino sta appassendo sotto i nostri occhi: se non lo ripuliamo velocemente dai parassiti morirà del tutto. E mentre l’Africa si ribella spezzando i ceppi per correre verso il multipolarismo, l’Italia decide di restare dentro la gabbia dell’eurozona dove si sta allestendo la nuova tratta degli schiavi con le catene del debito infinito, dei passaporti vaccinali, delle smart cities, delle monete digitali.
E non ci saranno più nè la verginità precapitalistica della foresta né l’ordine armonico del giardino ma un’unica monocultura improntata al modello panopticon di uno spazio interamente visibile, senza zone d’ombra e vie di fuga, cioè lo spazio pianificato e controllabile del potere disciplinare e del capitalismo della sorveglianza.
Abbiamo dimenticato che all’origine della nostra luminosa civiltà c’è anche quel luogo di curve e bivii che è il labirinto, l’analogo architettonico della foresta oscura. E se è vero che Teseo uccide il Minotauro segnando la vittoria dell’elemento apollineo su quello dionisiaco, del logos sul mytos, è anche vero che ritrova la luce del sole uscendo dalle tenebre del labirinto solo grazie al filo tesogli da Arianna, la sposa di Dioniso.
La sapienza greca non ha mai trascurato la dialettica feconda fra il filo lineare della logica e il vortice vertiginoso dell’ebbrezza, fra l’ordine eccessivo di Euclide e il caos incontrollato delle Baccanti, fra la foresta e il giardino. “Dioniso fa parte dell’ordine!”, dicevano ad Atene.
Infatti, nei templi eretti sulle coste frattali della Grecia si ergeva la statua di Atena, portatrice delle funzioni civilizzatrici e della saggezza politica, che serbava sul petto l’effigie della testa mostruosa di Medusa.
Sarebbe ora di licenziare il giardiniere Borrell, è evidente che non ha il “pollice verde”.. .
Di Sonia Milone per ComeDonChisciotte.org
22.08.2023