di Luca Baiada
La più piccola aveva quattro mesi, la più vecchia novantadue anni. Assassinate dai tedeschi nel Padule di Fucecchio il 23 agosto 1944. Gli inglesi nel 1945 scrissero che i morti erano 184. Certi resoconti dell’epoca dicono duecento, persino ottocento. Mi sono chiesto il numero esatto, so che ormai è stato stabilito: sono 174. Adesso mi domando cosa sia, l’esattezza del numero. Quando ci chiediamo il numero preciso, su quella soglia ci siamo noi. Trappola morale, terribile e indispensabile, quella differenza dice anche il nostro posto fra i vivi e i morti, e insieme la scelta fra acquietarci di fronte all’assassinio oppure chiedere giustizia, smascherare ogni travestimento, ogni surrogato. Nello scarto di una strage, nella coscienza dello scarto, si affaccia la strage della coscienza. Ogni zona grigia chiede: e tu, da che parte stai?
Dopo il vertice italo-tedesco di Trieste, nel 2008, con gli accordi sulle riparazioni memoriali la Germania ha speso pochi milioni di euro per iniziative di cultura. Tanti libri e libriccini e convegni e parole. Tanto mai più. Così erano i patti, in quell’incontro pittoresco. Berlusconi era soddisfatto per il siluramento della breve legislatura 2006-2008 e per il ritorno al governo (bella forza: prima, alla fine della legislatura 2001-2006, aveva avvelenato la legge elettorale col «porcellum»). Questioni importanti come la crisi Alitalia avevano preso la piega desiderata. Il potere era saldo eppure prometteva sviluppi: non c’era un successore ma nuove leve scalpitavano. Nel governo c’era una vivace ministra della gioventù, una che «fa ggiovane»: si chiamava Giorgia.
Nell’incontro internazionale fatto a Trieste, anche alla Risiera di San Sabba, il padrone delle televisioni fece uno dei suoi scherzi: il cucù alla Merkel. Che ridere. A Berlusconi l’appoggio tedesco faceva comodo, e poi contava su una presidenza del consiglio senza fine; tre anni dopo l’avrebbe lasciata senza tornarci. Stupirsi? Se un uomo ha un medico che propone la sua immortalità, può anche far lazzi alla signora che guarderà con sorrisino di Mutti le sue dimissioni. Il frutto delle intese di quel periodo fu: niente alle famiglie delle vittime di strage e deportazione, spiccioli per gli storici e le amministrazioni locali. Hanno chiamato tutto questo riparazione, memoria attiva, lenimento, simbolo pesante. Sulla strage di Fucecchio la manovra è stata alacre.
A Cintolese, comune di Monsummano Terme, è stato finanziato un monumento, direttamente nel cimitero, di fronte al cancello principale. I parenti, per visitare le tombe, devono vedere un’opera pagata dai tedeschi (per questo, qualcuno entra da un altro varco). Da tempo il manufatto è malmesso. Poco lontano c’è una tomba speciale, e ancora adesso c’è chi va a calpestarla calcando il piede con piacere: là giace – come si dice qui, Iddio l’accresca pena – il fascista che collaborò coi soldati. A pochi passi, il fascista e i ruderi pagati dalla Germania. Finalmente riuniti.
Anche a Massarella, frazione di Fucecchio, Berlino ha finanziato un monumento: è stato spianato un declivo, con le misure di un parcheggio, e c’è una staccionata a picco sul Padule. Sulle lastre conficcate in terra, oltre al cortese ricordo del contributo della Germania, ci sono i nomi delle vittime cadute nei paraggi. C’è anche un Cerrini. Vediamo meglio.
I Cerrini erano una famiglia di Venturina, in Maremma. Il padre Eder, comunista, il primogenito Enos, il figlio minore Eros. Nella strage cadde Enos, e infatti nel centro di Venturina c’è una strada col suo nome. Invece Eros sopravvisse al conflitto mondiale. Sul monumento è stato scritto Eros, non Enos, come se i tedeschi fossero tornati a finire il lavoro. Eppure sulla chiesa di Massarella, a pochi passi, c’è una lapidina di quelle da tre soldi, ma italiani, voluta dal Comitato di liberazione nazionale poco tempo dopo la guerra, e il nome del caduto è giusto: Enos Cerrini. Sul monumento grosso, pagato dalla Germania, il nome è stato scritto sbagliato. Successivamente qualcosa o qualcuno deve aver suggerito di correggere: adesso, anche sul monumento moderno si legge Enos Cerrini. Già, ma si vede anche la correzione. Scoperto lo sbaglio, non era il caso di sostituire la lastra? Invece, via il nome Eros con un taglio, e arriva un tassello col nome nuovo. Una toppa con saldatura.
Di tutti gli strafalcioni sparsi per l’Italia, nella beffa riparazionista uscita dal vertice del cucù, basterebbe assaggiare questo. A Massarella, da una parte c’è la memoria pagata a miccino, ma a testa alta, col nome giusto; dall’altra c’è la memoria rassegnata. Per scrivere subito il nome giusto bastava guardare la facciata della chiesa, ma bisognava avere passione e curiosaggine, non quattrini tedeschi facili e notabilati italiani pronti a raccattarli. La farina del Diavolo va tutta in crusca, la memoria spesata dalla ragion di Stato offende le vittime. E può nascondere: ventotto lastre dell’opera, a Massarella, portano ciascuna una parola («memoria, sangue, acqua…»), ma nessuna ricorda i fascisti e il collaborazionismo.
A Ponte Buggianese, località Capannone, c’è un edificio che con la strage c’entra come gli Stati italiani preunitari con la Seconda guerra mondiale. Era una dogana, poi magazzino, sugli antichi confini fra possedimenti lucchesi e fiorentini. È stato restaurato col contributo di Berlino. Un lavoro riuscito benissimo, assicurano quelli che riescono a vederlo dentro. Si era detto di farci incontri, raduni di auto d’epoca, cultura e passatempi. Dovrebbero esserci anche alloggi per le visite, e i cartelli nelle vicinanze promettono: «Ospitale Dogana del Capannone». È quasi sempre chiuso. Però c’è un minimo centro di documentazione, raramente visibile. La Dogana è stata usata con impegno per eventi; primeggia la presentazione, sei anni fa, dell’Atlante delle stragi, prodotto di punta fra quelli finanziati dalla Germania, e di un volume di cui è coautore Paolo Pezzino, che dello stesso Atlante è il direttore scientifico. Forse si tratta di imprevisti effetti promozionali.
Ancora a Ponte Buggianese, invece, c’è la tabaccaia: è uno di quegli essiccatoi, alti e inconfondibili nelle campagne toscane, manufatti di archeologia industriale che parlano del lavoro e del sudore. Pochi la notano, ma laggiù, davvero, ci fu la strage: contadini e sfollati, anche da lontano. La più piccola, Giancarla Ferlini, tredici anni. Insieme ai fratelli Malfatti, Evandro e Inghilesco. Insieme a Nicole Sandra Settepassi, diciassettenne. Non si può nominare Nicole senza dire dell’ombra, del diversamente morto che la seguì: suo padre Aldo, che perduta quell’unica figlia si suicidò nel 1951.
Un barrocciaio della Valdinievole, poco dopo la guerra, aveva composto una ballata e la ripeteva a memoria: «Popolo se mi ascolti / ti spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia…». Davvero orribile commedia, il modo in cui sono state trattate le vittime delle stragi nazifasciste, fra esercizio brutale del potere, diversivi chiacchierini e furbizie di legulei.
Sulle stragi, di processi penali se ne videro pochi nella seconda metà degli anni Quaranta, e a già negli anni Cinquanta, a parte Reder e Kappler, i tedeschi erano stati liberati e i fascisti italiani amnistiati. Dopo la rifrequentazione dell’Armadio della vergogna, l’archivio custodito negli uffici centrali della giustizia militare, in questo secolo ci sono stati una ventina di dibattimenti. In quel periodo, in Italia, sono andati in detenzione – ma non in carcere o non a lungo – tre militari. Sui risarcimenti, poi, la Germania punta i piedi da sempre. Dopo la riunificazione non ha più scuse legali, eppure si aggrappa a ogni pretesto e trova ampi appoggi italiani. Ha già fatto una causa contro l’Italia, proprio nel 2008, dopo il vertice di Trieste, davanti alla Corte internazionale di giustizia, all’Aia. L’anno scorso ne ha iniziata un’altra, davanti alla stessa Corte, seguita, a distanza di ore, da una normativa italiana (nel decreto-legge 36) per venirle subito incontro.
A volte il passato non passa, non vuole passare. Vergangenheit, die nicht vergehen will, scriveva Ernst Nolte, quello della grande contesa storica, l’Historikerstreit, cominciata su «Frankfurter Allgemeine» nel 1986. Nolte fu accusato di revisionismo, ma il suo lavoro era persino più insidioso di quello revisionista, perché nel diluvio verbale furbo e minuzioso che proponeva, e che avrebbe affascinato una parte della cultura europea un po’ come le asserzioni oracolari di Carl Schmitt, era sottintesa una pacificazione morale, finale e digestiva. Ma la giustizia? Il modello, avviato sulle pagine del famoso giornale, parrebbe aver avuto un’eco suggestiva, e in varie direzioni. Il figlio di Ernst Nolte, Georg, è un giurista, adesso fa parte proprio della Corte dell’Aia e si attende di conoscere un suo contributo al processo: si tratta di stabilire le conseguenze dei crimini che Nolte padre chiudeva in abili cornici verbali, per i suoi giochi di illusione ottica. Se per Ernst Nolte lo sterminio degli ebrei era colpa dei sovietici, dove si andrà a cercare, fuori della Germania, la responsabilità giuridica delle stragi di italiani?
In nome della ragion di Stato il tira e molla di vertenze, leggi e posizionamenti – in Italia, all’Aia, a Strasburgo – ha calpestato le vittime con nuovi oltraggi. Ultimo, appunto, il decreto-legge del 2022, con uno stanziamento modesto (a carico dell’Italia), che per funzionare vuole un decreto interministeriale, arrivato di recente. La Corte costituzionale, qualche settimana fa, ha escluso che queste norme vadano contro la Costituzione: grazie a un cosiddetto «bilanciamento» ha fatto prevalere le cancellerie sulle persone. I risarcimenti possono aspettare, forse ci saranno solo per alcuni e in misura incerta. Il rischio è che siano fatti con le monete di mastro Adamo, «ch’avevan tre carati di mondiglia».
E pensare che sono passati quasi ottant’anni. Anni di lutto, di attesa e di dubbi. «La speranza: l’ultima tortura, di quante ho mai sofferte, la più atroce», così mormora il protagonista del Prigioniero. È un’opera che Luigi Dallapiccola, ispirandosi a un racconto di Villiers de l’Isle-Adam, La torture par l’espérance, iniziò a scrivere durante la Seconda guerra mondiale. Tempo di chiarezza, anche sugli inganni falsamente soccorrevoli. E non solo durante la guerra, ci fu chiarezza. Per esempio, negli anni successivi una commissione di giuristi e intellettuali italiani investigò su uno dei massacri più noti, quello di Boves, e consegnò i risultati all’autorità giudiziaria tedesca. Quella archiviò. Allora la commissione – era il 18 febbraio 1969 – presentò una ricusazione ad ignominia:
«Tutti i magistrati tedeschi che si sono pronunziati hanno rifiutato di accertare la verità e protetto i criminali nazisti. La magistratura tedesca deve essere ricusata perché indegna di fiducia. La storia, che ha già giudicato Peiper e tutti gli altri criminali nazisti, giudicherà anche la decisione del Tribunale di Stoccarda. In Italia sarà pubblicata la documentazione del processo».
Ma va detto chiaro: credere che tutti i giudizi della storia siano definitivi è sbagliato; i documenti vivono grazie ai lettori, agli interpreti e ai critici; comunque, la memoria non basta. Avere propositi alti è bene, ed è bene sapere che si scontrano con una bassa realtà. Anche la lapide del Cln per i caduti, a Massarella, fu dettata «con la certezza di giustizia».
Sembrano lontani, il mondo e la storia, dalla palude interna più grande d’Italia? Eppure sono vicinissimi: lo spazio si contrae, se opache manovre servono a fare monumentini. Anche il tempo si schiaccia e si allinea, se una dogana preunitaria diventa un centro di piccolo spettacolo, mentre in un ufficio giudiziario internazionale, in Olanda, i giuristi hanno sul tavolo le conseguenze di crimini atroci, gli stessi che il revisionismo e il riparazionismo hanno limato, arrotondato, aggiustato in una mota di chiacchiere.