di Simona Morando
Equipaggio della Tanimar, Crocevia Mediterraneo, a cura di Jacopo Anderlini e Enrico Fravega, Elèuthera editrice, Milano, 2023, pp. 152, € 17,00
Tra il 26 settembre e l’11 ottobre 2022 quindici ricercatori delle Università di Parma e di Genova, tra cui i due curatori del libro*, si sono imbarcati sulla Tanimar, un ketch di 15 metri guidato da due skipper genovesi ormai lampedusani, per attraversare il Mediterraneo e incontrare, nell’ottica della sociologia pubblica, le tappe e i protagonisti dello spazio più nevralgico della “mobilità migrante”. Un viaggio di ricerca all’interno del progetto universitario MOBS (Mobilities, solidarities and imaginaires across the borders) che indaga, attraverso osservazione diretta, interviste, dati e relazioni con istituzioni e persone, proprio il governo confinario di quattro luoghi scelti: la montagna, il Mediterraneo, lo spazio urbano e lo spazio rurale.
Con questo libro, dunque, siamo all’ascolto degli appunti di ricerca sul mare. Pantelleria, Lampedusa, Linosa e Malta, con un veloce ma significativo preambolo francese, sono le tappe di terraferma della Tanimar, in mezzo ad uno “stare mare” che sorprende i naviganti non di professione, tra perdita del proprio baricentro, ricondizionamento del tempo e delega della propria determinazione, per cui viaggiare in mare è anche un affidarsi al mare. In particolare, nonostante la firma apposta ad ogni capitolo sia individuale, i ricercatori hanno accettato tutti una deindividuazione per armonizzare naturalmente una scrittura collettiva, consona all’incontro con altri nomi collettivi, protagonisti del libro: i migranti, i pescatori, i turisti. Ne sono sortiti: un “diario etnografico” a più voci, scandito in giorni e contenuto in un libro che si legge con la brillantezza degli instant books che associano la calda esperienza alla scrittura più militante e, diciamolo, allo stile più vivace ed efficace (dovrebbe essere adottato nelle scuole), una documentazione video su meltingpot.org e un podcast per Radio Revolution. Più tipologie di scrittura e di comunicazione per un campo di ricerca ancora in corso che mira a mappare la linea di frontiera più osservata d’Europa, più bellicizzata d’Europa (leggere la pagina di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, vuol dire imbattersi in un lessico militare: sorveglianza, contrasto, rischio per la sicurezza, protezione dei confini), più sanzionata, meno compresa.
Questo è infatti in prima battuta un libro corale che tenta la comprensione della frontiera mediterranea attraverso alcuni temi. Il primo, la sparizione della cultura del mare. Nella rotta dei gommoni migranti con il loro carico di vite, spesso vite spezzate, si disegnano le isole di quell’antico mare, fotografate nella loro fase più transeunte, da isole di pescatori a borghi airbnb, trascinate da quella disneyficazione che ha colpito non solo il mare ma anche la montagna al Nord all’insegna di una inesistente wilderness (cfr. Il paradosso della sopravvivenza di Giorgio Falco, Einaudi, 2023), con conseguenze nefaste sulle identità di luoghi e persone, a Lampedusa come a Malta. Luoghi e persone già di per sé senza stato. E siamo al motivo due: «troppo stato, poco stato». A Lampedusa non ci sono ospedali, a Linosa i maestri arrivano con l’aliscafo, la cittadinanza è su quelle sponde una fatica, un travaglio, quotidiano. Ma la militarizzazione della frontiera per gli sbarchi migranti fa percepire iperstatalizzati quei luoghi: chi salva in mare, compresi i pescatori, è chiamato a rispondere delle sue azioni con la confisca della barca, con la verbalizzazione di quell’atto imposto dalla legge del mare dalla notte dei tempi, il mare è un’intricatissima mappa di leggi, cavilli, nazionali, internazionali, extraterritoriali, europei, extraeuropei in cui raccapezzarsi è impossibile. E i migranti? Terzo tema. In questa assenza palpabile di stato, visibile solo come controllo, gettano le loro ancore di disperazione i migranti. La loro presenza è invece impalpabile: la “necrostoria” che arriva dai mass media, contabilizzata fino a che fa notizia, ci narra di un mare cimitero, e lì si ferma. Non ci narra di un’isola, quella di Lampedusa, in cui i volti migranti vengono opacizzati negli hotspot dove nessuno può entrare, portare solidarietà, vedere in faccia queste storie. Un tempo non tanto distante la signora Franca, protagonista di un’intervista memorabile del Secondo giorno, poteva soccorrere i sopravvissuti, portare loro cibo e abiti; un tempo non tanto distante i migranti potevano uscire dagli hotspot perché non carcerati, ma appunto persone e superstiti. Ma oggi il turista non deve vedere e la signora Franca non può attraversare i varchi per portare cibo e vestiti perché le regole sono cambiate. Nemmeno i ricercatori della Tanimar hanno visto i migranti, pur avvinandosi agli hotspot; per cui questo è un libro sulla frontiera delle migrazioni in cui non è stato possibile raccontare i migranti vivi arrivati a Lampedusa. È stato possibile solo raccontare i migranti morti: visitare prima con gli occhi e poi con le parole il cimitero dell’isola, le croci improvvisate di carità, l’obitorio delle salme dimenticate che nessuno rivendica, il museo degli oggetti naufragati. L’equipaggio della Tanimar, nella sua testimonianza ci pone dinnanzi al paradosso: quello della sparizione del migrante nel momento in cui sempre le note cronache ci parlano dell’invasione del migrante (un arguto repêchage di un articolo del 1947 a p. 27 ci ricorda di quando la Tunisia marchiava con identiche parole il tentativo disperato degli ex prigionieri di guerra italo-tunisini di scappare dalla poverissima Sicilia e di raggiungere con ogni mezzo Cap Bon). Mentre sono sempre in rotativa le retoriche degli anniversari a cui è difficile sfuggire: proprio nei giorni della spedizione cadeva il 3 ottobre memore di quella data del 2013 in cui morirono 368 migranti davanti al mare di Lampedusa. Ma il prossimo anno l’Europa avrà in calendario il 13-14 giugno dei 350 morti al largo della Grecia, l’Italia avrà il 23 febbraio del naufragio di Cutro. Le date e le commemorazioni rassicurano le coscienze, le realtà sono lontane dal cambiare. E nuovamente i migranti purtroppo morti oscurano i migranti vivi e i loro diritti di una vita migliore.
Il migrante vivo è invisibile come il lavoro antico del pescatore. La costruzione del diario etnografico prende letteralmente il largo quando racconta perentoriamente che Il mare è un macello, accomunando tonni e naufraghi in una brutale quanto efficace immagine concreta e metaforica ad un tempo. Nello stesso mare trovano strage uomini e pesci, arrotati dallo stesso meccanismo capitalistico (si può ancora dire, vero?): dei primi sappiamo e non sappiamo, dei secondi non sappiamo proprio e però ne abbiamo le tavole imbandite. Venticinque gabbie con duemila tonni ciascuna transitano ogni anno dai mari sardi a quelli internazionali al largo di Malta: lavoratori senza nome sottopagati, braccianti del mare, vengono arruolati da ogni costa limitrofa per vivere dieci-dodici ore al giorno in acqua, ingrassare i tonni, al momento buono (cioè quando parte la richiesta dalle enormi navi giapponesi ormeggiate fuori da ogni linea confinaria nazionale) ucciderne fino a rendere rosso di sangue il mare fino alle sponde maltesi – che non battono ciglio – in una colossale deroga di tutto e a tutto: diritto del lavoro, degli uomini, dell’ambiente, degli animali, financo dei consumatori, volendo mettersi sulla stessa lunghezza d’onda. Pagine raccapriccianti, ottima sintesi dello scandalo perenne nel e del Mediterraneo.
«voi /che in voi sconfinate» ha scritto Eugenio De Signoribus in (voce fuori campo), poesia di Ronda dei conversi (2005, ma oggi in Poesie dell’Italia contemporanea, a cura di Tommaso Di Dio, Il saggiatore, 2023). E così dentro di loro sono sconfinati gli autori di questo libro, sconfinando anche noi lettori. Nel fondo di queste pagine e del libro tutto c’è il netto valore di cosa voglia dire fare ricerca per conoscere e per meglio agire. Per noi lettori è l’occasione di una solida e ben circostanziata contro-informazione, che poi è l’unica informazione possibile in questi tempi di propaganda continua. Resta sospesa, alla fine del libro, la domanda che i ricercatori rivolgono in prima istanza a sé stessi, prima come cittadini e poi come studiosi: ma la giustizia dov’è per ciò che gli occhi hanno visto? Ottima domanda anche per il lettore, in effetti. Come i ricercatori si rispondono, si tratta per tutto di «mantenere aperta la possibilità stessa di chiedere giustizia» (p. 55). O, come ha scritto il poeta già citato, si tratta di «arginare ancora / la malattia del male».
* Ecco i nomi di tutti gli studiosi che hanno firmato le pagine del libro: Guglielmo Agolino, Jacopo Anderlini, Davide Cangelosi, Arianna Colombo, Luca Daminelli, Emanuela Fracassi, Enrico Fravega, Luca Giliberti, Francesca Goletti, Daniela Leonardi, Antonio Milotta, Luca Queirolo Palmas, Vincenza Pellegrino, Filippo Torre, Veronica Valenti.