di Emilio Quadrelli
Potere operaio e programma comunista
Abbiamo visto come la centralità operaia abbia ben poco di oggettivo e tanto meno di scontato. Certamente nella loro evoluzione le lotte operaie assumeranno forme tali da imporsi all’attenzione di tutti, difficile, infatti, ignorare l’autunno caldo quando milioni di operai entreranno in lotta ma ciò che nel contesto a noi interessa è osservare tutto ciò che accade prima. Ciò che diventa importante, soprattutto se vogliamo recuperare quella storia nel presente, è come l’ordine discorsivo intorno alla centralità operaia si sviluppa. In questo senso un giornale come “La classe” può assumere un valore paradigmatico. Due sembrano essere gli aspetti centrali: l’attenzione continua per tutte le lotte e le insubordinazioni operaie che si sviluppano e la ricerca costante del punto di vista operaio.
Questo corpo militante, una parte del quale si è formato all’interno delle varie esperienze operaiste degli anni precedenti mentre un altro è maturato nel ’68, che dà vita a “La classe” lavora costantemente per mettere in contatto le lotte, anche di modesta proporzione, che si sviluppano nella classe operaia. Qui riemerge in maniera non dogmatica quell’uso del giornale come elemento essenziale finalizzato alla messa in forma di quel partito dell’insurrezione che aveva fatto da sfondo al leniniano “Che fare?”.
Ma cosa significa mettere in contatto le lotte? Certo, banalmente, far sapere che esistono, ma non è solo questo il punto. Il dialogo e la conoscenza tra gruppi di lotta significa socializzare delle esperienze, unificare dei comportamenti, rompere l’isolamento a cui, di fatto, la vita operaia rinchiusa nella fabbrica–prigione è costretta. Significa che gli operai possono iniziare a riconoscersi come corpo sociale collettivo e percepirsi concretamente come classe ma non solo. Un giornale che focalizzi l’attenzione sul punto di vista operaio, e quindi assume le parole operaie come punti cardinali per la propria azione, non si limita a fare della cronaca o dell’informazione, ma assolve a un duplice obiettivo: da una parte è veicolo d’organizzazione e dall’altro fa sì che la lotta operaia assuma un ruolo centrale sulla scena politica. Ma questo è possibile solo se la centralità operaia è depurata tanto da un qualunque sostrato ideologico quanto da ogni sorta di mitologema. La centralità operaia può essere fattivamente tale se, in primo piano, è posta la concretezza operaia del suo qui e ora. Ciò che verrà definito protagonismo operaio sarà esattamente l’essere di questa concretezza che, dentro esperienze come “La classe”, iniziò a elaborare una propria sintassi e un linguaggio appropriato.
Solo chi della classe operaia ha una conoscenza del tutto astratta e, come diretta conseguenza, profondamente mitologica, ignora le condizioni materiali della vita operaia. Solo chi è estraneo al lavoro operaio può esaltarlo mentre, chi dentro a quel lavoro è costantemente imprigionato, non può fare altro che odiarlo. Gli operai se ne fottono della classe operaia in astratto ma, molto più realisticamente e sensatamente, non vogliono più essere operai. Ma il comunismo non era forse la soppressione del lavoro salariato? Allora si tratta, a partire da ciò, di leggere i comportamenti che spontaneamente pongono in crisi la macchina del comando. Il giornale diventa, in pieno stile leniniano, un organizzatore collettivo, un momento tanto di sintesi quanto di elaborazione e, con ciò, uno strumento d’organizzazione. Il giornale diventa lo strumento che costruisce la linea politica operaia perché è da dentro la classe e solo dentro di lei che può darsi linea politica e organizzazione. Non si dà linea politica, non si dà linea operaia precipitandosi davanti ai cancelli delle fabbriche con le direttive di un qualche improvvisato Comitato Centrale, ma si dà linea politica e linea operaia solo dentro la pratica dell’inchiesta e delle lotte.
Per altro verso questo lavoro è costantemente attento al punto di vista operaio perché è proprio questo a fornire l’ossatura del partito dell’insurrezione. Scorrendo anche solo di sfuggita i numeri de “La classe” è facile notare la quantità di materiali empirici di cui il giornale è ricco. Si tratta di resoconti operai, interventi in fabbrica, interventi in assemblea, interviste insomma tutto ciò che dentro la classe si muove e questo produce almeno tre risultati: da un lato rompe qualunque possibilità di isolamento della classe operaia e delle sue lotte, le quali, grazie alla risonanza che il giornale offre loro, si socializzano con una certa facilità, gli operai comprendono che quanto accade in una determinata officina non è un fatto isolato, ma quanto accade ha dinamiche e motivazioni del tutto simili a qualcosa in atto a qualche chilometro di distanza, o anche a centinaia di chilometri.
La classe operaia, così, comprende di non essere un insieme di individui casualmente piombati in una particolare situazione, ma di essere parte di un tutto che condivide la medesima condizione e sta condividendo le stesse esperienze. Attraverso la circolarità delle lotte non vi è solo la socializzazione di queste ma lo scambio delle esperienze. Da ogni contesa si può apprendere un modus operandi e la sua eventuale generalizzazione. Infine, ma certamente non per ultimo, queste esperienze diventano oggetto di discussione per tutti i militanti che si pongono sul terreno della conflittualità operaia. La classe operaia, quella vera e non la sua icona propria delle varie ortodossie comuniste, diventa il costante punto di riferimento di tutto il dibattito politico del movimento. Va detto chiaramente: senza tutto questo impegno le lotte operaie ben difficilmente sarebbero state in grado di avere quel ruolo centrale che tutta la società italiana gli ha riconosciuto e “La classe” rappresenta un passaggio essenziale di tutto questo, così come, ed è quanto si proverà ad argomentare nelle pagine seguenti, avrà l’indubbio merito di portare nel dibattito operaio l’insieme di tensioni politiche, culturali ed esistenziali che il ’68 aveva fatto albeggiare. In questo modo la lotta concreta dell’officina può coniugarsi con le astrazioni che agitano il mondo emancipando la fabbrica dai suoi angusti perimetri e la classe operaia dal suo isolamento.
Mao e il maoismo sono sicuramente una di queste astrazioni. L’interesse de “La classe” per la Cina e per la Rivoluzione culturale che la sta attraversando non è cosa secondaria. Prima di parlare del maoismo che trova un certo spazio nel giornale necessita una premessa al fine di emancipare sin da subito “La classe” da quell’insieme di gruppi e gruppuscoli, per non dire della quantità di neopartiti comunisti marxisti–leninisti, formatisi sulla scia del maoismo i quali se meritano una nota storica, questa è una nota tutta perimetrata nell’ambito del folclore e del ridicolo. Il Mao che sta dentro “La classe” è un eretico, forse ancor più di Lenin e comunque un Mao che non ha nulla di quell’esotico e/o terzomondismo che caratterizza le diverse organizzazioni maoiste.
In prima istanza il Mao che interessa a “La classe” è quello che si contrappone radicalmente al socialimperialismo sovietico. Qui l’interesse è duplice: da una parte significa identificare sul piano internazionale un polo innovativo finalizzato allo sviluppo del movimento rivoluzionario internazionale, anche dentro le metropoli imperialiste e focalizza lo sguardo proprio su ciò che accade nelle metropoli imperialiste. Mentre il socialimperialismo è artefice non secondario del mantenimento dello status quo post bellico, la Cina maoista è fondamentalmente propensa a far saltare il banco della spartizione del mondo in precise e delimitate sfere di influenza allo stesso tempo, così come il socialimperialismo è tutto dentro i Palazzi, la Cina si mostra come un valente interlocutore della o delle Strade quindi, il rapporto con il maoismo, può essere giocato tutto contro il riformismo il quale si identifica appieno nel blocco socialimperialista e delle relazioni politiche ufficiali delle quali ha fatto il suo solo orizzonte.
Ciò era stato quanto mai evidente nel corso del ’68 quando, proprio Mao e la rivoluzione cinese, erano diventati uno dei punti di riferimento centrali di quel movimento che aveva sconvolto gli equilibri di tutti i sistemi politici1. Mao e il maoismo sono l’elemento di rottura internazionale che affascina gran parte della gioventù rivoluzionaria e in ciò un ruolo non secondario lo gioca il fattivo appoggio che la rivoluzione cinese sta offrendo al popolo vietnamita in guerra con l’imperialismo americano ma anche il rapporto che il maoismo costruisce con realtà come le Black Panther e i vari movimenti di resistenza sviluppatisi dentro le metropoli imperialiste. Mao, in un mondo che sembra immutabile, è il vento dell’est che ritorna a dire: “Bisogna sognare!” e lo fa ponendo nuovamente al centro del suo agire quella marxiana violenza, ostetrica della storia, messa al bando dal movimento operaio ufficiale.
Sulla scia di ciò “La classe” trova nel maoismo uno strumento di battaglia politica contro il riformismo e con ciò Mao è portato, così come è stato fatto con Lenin, dentro la fabbrica tanto che si potrebbe dire da Lenin in Inghilterra a Mao a Mirafiori. Di ciò si ha una corposa dimostrazione attraverso le scritte, già ricordate, fatte dagli operai legati a “La classe” in fabbrica: “Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina!” è esattamente questo il maoismo privo di fronzoli e folclore immesso nella metropoli imperialista. È il Mao stratega militare2 che viene ripreso e modellato dentro la fabbrica prima e, almeno per la componente che darà vita a Lotta Continua, nella metropoli poi, così come il principio della guerra di lunga durata diventa il punto di riferimento costante di tutto ciò che ruota nella e intorno a “La classe”.
Questo apre su un altro tema centrale, tanto della teoria politica maoista quanto, come si è provato ad argomentare in precedenza, negli orizzonti de “La classe”, ovvero la questione della violenza. Mentre il riformismo, attraverso l’assunzione della guerra di posizione come solo e unico orizzonte politico, ha espunto la questione politico–militare, Mao, con il suo: “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”, aveva riportato, e lo aveva fatto come leader di una delle più grandi potenze del mondo, la questione della violenza al centro dell’agenda politica dei movimenti comunisti e lo aveva fatto declinandola interamente sulle masse. Non la guerra degli apparati cara al socialimperialismo, ma la guerra di popolo, la guerra delle masse e la sua organizzazione. Abbiamo detto che il principio maoista della guerra di lunga durata3 è assunto per intero da “La classe” il che comporta tutta una serie di ricadute che, dalla teoria maoista, possono ricevere non secondarie indicazioni. Lo studio degli “Scritti militari” di Mao diventano un passaggio centrale per tutta una generazione di avanguardie operaie e militanti comunisti che, proprio su questo terreno, si erano mostrati completamente vergini.
Attraverso gli scritti militari di Mao è possibile cogliere la questione dell’edificazione del dualismo di potere che, secondo i militanti de “La classe”, sarà la caratteristica del processo rivoluzionario dentro le metropoli imperialiste. Ciò che la lotta di fabbrica ha fatto albeggiare è un conflitto che non si risolverà in una battaglia ma che per forza di cose si protrarrà nel tempo, un conflitto che, pur con tutte le tare del caso, assumerà contorni simili alla guerra rivoluzionaria in Cina ossia una guerra fatta di avanzate e ritirate, di zone liberate e instaurazione del potere rosso, ma anche di ripiegamenti repentini sotto l’incalzare della contro offensiva padronale e statuale.
Qui vi è un salto politico radicale rispetto all’operaismo che ha preceduto questa nuova stagione della lotta operaia. Il vecchio operaismo non era stato certamente parsimonioso nel decretare il potere operaio ma era un potere che, a conti fatti, non trovava mai una qualche forma. Nel vecchio operaismo il potere operaio non trovava mai un momento di cristallizzazione politico–organizzativa ma si dava soltanto come elemento di una conflittualità permanente capace di definire rapporti di forza e di potere continuamente in trasformazione senza che, il potere operaio, trovasse degli istituti politici stabili in grado di esercitarsi sino in fondo. Per il vecchio operaismo il potere operaio è ciò che sta nella sua potenza, una potenza che non ha necessità e bisogno di trovare una sua concretezza stabilmente organizzata. Da questa impasse “La classe” si emancipa sin da subito e l’incontro con il maoismo, in ciò, gioca un ruolo per nulla secondario. Vale la pena di sottolineare, infatti, come proprio nell’assunzione del maoismo come possibile referente teorico–politico la questione dello stato venga assunta per intero e, con ciò, la rottura con tutte le ambiguità proprie dell’operaismo delle origini si consumi appieno. Anche se solo abbozzata la necessità di offrire uno sbocco organizzativo politico–militare alla lotta operaia è ormai un bisogno reale. Da qui non si torna indietro e gli anni immediatamente a ridosso di questa stagione daranno, di tutto ciò, più che una conferma. Mentre i gruppi e partitini maoisti si caratterizzeranno per la loro dimensione da operetta finendo con l’esaurirsi in un mare di ridicolo, il maoismo che fuoriesce da “La classe” sarà all’origine delle più significative pratiche rivoluzionarie dei primi anni settanta.
Un ulteriore aspetto che lega “La classe” al maoismo è l’inchiesta. Anche in questo caso l’immediata vena polemica con il riformismo è tanto evidente quanto immediata. La famosa asserzione di Mao: “Solo chi fa inchiesta ha diritto parola”4, suona come miele alle orecchie de “La classe” che proprio sulla centralità dell’inchiesta operaia aveva declinato la sua linea di condotta. Mentre per il riformismo a contare sono solo gli equilibri politici e il punto di vista delle masse è del tutto inessenziale tanto che, per lo più, si mostra del tutto incapace di leggere e comprendere le trasformazioni intervenute all’interno della composizione di classe, mentre Mao pone al centro dell’attività del partito il lavoro di inchiesta e quindi la soggettività delle masse al centro dell’iniziativa di partito.
In ciò non vi è solo un aspetto metodologico ma il completo recupero della dialettica marxiana. Lo stile di lavoro basato sull’inchiesta recupera interamente la triade marxiana prassi/teoria/prassi e, con questa, rimette in sella tutte le argomentazioni di Lenin intorno a Hegel presenti nei “Quaderni filosofici”5, ma con ciò, e non è cosa di poco conto, vi è la completa presa di distanza dalla svolta impressa al marxismo dal Diamat6 e il recupero integrale del rapporto dialettico tra classe e partito. Ma questa lettura di Mao che cosa è se non il pieno recupero di quella attualità della rivoluzione che il ’68 aveva fatto albeggiare in occidente? Anche su ciò almeno due tratti del maoismo si mostrano particolarmente affini a ciò che “La classe” ha appreso dalle lotte operaie le quali con il ’68 hanno non poco a che fare.
Il secondo aspetto del maoismo che cattura l’attenzione de “La classe” è quel fenomeno in atto in Cina, fortemente voluto da Mao, che ha preso il nome di Rivoluzione culturale la quale non poche aspettative ha creato dentro tutto quel mondo comunista che ha rotto con il movimento operaio ufficiale. Sparare sul quartier generale è l’incipit attraverso il quale la Rivoluzione culturale si è presentata. Questo, in prima istanza, significa ridare la parola alle masse ponendo tra parentesi fino ad azzerarlo il potere che una casta di burocrati di partito sta esercitando, ma questo significa anche cogliere nella fase attuale della rivoluzione cinese quell’antiautoritarismo così presente nelle istanze più radicali del ’68 e che adesso rivive, e per di più in maniera amplificata, dentro le lotte operaie. Se c’è qualcosa che padroni e riformisti lamentano è proprio la messa in mora dell’autorità da parte degli operai. La non governamentalità della fabbrica trova origine proprio nel rifiuto del principio di autorità e la rivoluzione culturale sembra sintetizzare proprio questo. Dando l’indicazione di sparare sul quartier generale Mao rimette al centro l’azione dal basso, il potere delle masse e la necessità di esautorare ogni forma di autorità burocratica ma, in questo, c’è anche molto di più. In ciò vi è il completo recupero dell’insegnamento leniniano per il quale la legittimità del partito è tale solo se espressione e sintesi della soggettività di classe, solo come passaggio intermedio della dialettica marxiana prassi/teoria/prassi. A fronte di un potere burocratico che azzera i poli della prassi per assolutizzare la sintesi teorica (che si incarna nell’apparato) Mao rimette in campo Lenin. Se necessario, se il partito diventa un corpo burocratico estraneo alle masse, il partito va azzerato e l’organizzazione ricostruita ex novo a partire da quelle che sono le istanze delle masse, bisogna, cioè, sparare sul quartier generale, ma non è forse questa la linea di condotta proprio de “La classe”? Molto sinteticamente questo il maoismo con il quale “La classe” si contamina. Ma non è solo Mao l’orizzonte astratto che occupa le pagine del giornale poiché a farsi prepotentemente strada è il rapporto razza/classe e le coeve forme di colonialismo interno che fanno da sfondo al ciclo di accumulazione capitalista.
( 6 – continua)