Ieri, lunedì 4 settembre un gruppo di attivistə transfemministə di Venezia e del Veneto ha organizzato un’azione di contestazione durante il red carpet di Woody Allen per protestare contro la scelta della Mostra del Cinema di Venezia che quest’anno ha deciso di dare spazio a tre registi accusati di molestie sessuali e stupro. Infatti, tra gli inviti più blasonati dell’80esima edizione della Biennale compaiono Woody Allen, Luc Besson e Roman Polanski, registi coinvolti in vicende di violenze sessuali contro donne, anche minorenni. A questi si aggiunge Luca Barbareschi che si è distinto per aver rilasciato svariate interviste con dichiarazioni sessiste, misogine, omofobe.
Le scuse accampate dal direttore della Mostra, Alberto Barbera, seguono il vecchio copione della distinzione tra l’uomo, responsabile davanti alla legge, e l’artista il cui genio non è mai giudicabile poiché superiore, e quindi libero da responsabilità terrene. La violenza di genere patriarcale rimane in qualsiasi contesto un fatto collettivo, e decidere su chi accendere i riflettori significa compiere, ogni volta, una scelta politica. Non avrebbero mai fatto sfilare sul red carpet chi ha agito, solo per citare gli ultimi casi, gli stupri di Palermo, Caivano, Milano.
Mentre lə attivistə salivano sul divisorio tra il pubblico e il red carpet per denunciare con i propri corpi la cultura dello stupro le forze dell’ordine hanno violentemente cercato di fermare l’iniziativa, strattonando, spingendo e afferrando lə attivistə.
Immediatamente l’attenzione della stampa si è rivolta verso lə attivistə, che liberatesi dal tentativo di bloccare l’iniziativa al grido di «Stop rape culture» si sono tolte le magliette mostrando le lettere impresse sulla pelle. Non sono mancati gli applausi di sostegno da parte di passanti ma anche di collaboratorə della Mostra.
La violenza di genere è sistemica: colpisce ogni ambito della vita di donne e persone LGBT+ ed è sostenuta da una precisa organizzazione economica, politica, sociale e culturale. I mondi dell’arte e del cinema non fanno eccezione, e sono anzi scenari in cui spesso si amplificano gli squilibri di genere. Ne è un esempio Luca Barbareschi, presente alla Mostra in veste di produttore e regista, che definisce lo stupro come un gioco nel momento in cui afferma “Non ho mai avuto bisogno di trucchi per scopare”, e ridicolizza il gruppo di attrici che all’inizio del 2023 ha denunciato molestie sessuali subite nell’ambiente cinematografico. La società patriarcale crede al genio-artista e non a chi ha subìto violenza sessuale.
Pur di non offuscare l’immagine del genio-artista, la Biennale sceglie infatti di invisibilizzare la violenza sessuale e la relega anzi a materiale da tribunale, argomento non pertinente e al di fuori dei temi di competenza consoni a uno dei più prestigiosi festival del cinema europei. Ignorando così il problema, la Biennale contribuisce a legittimare e alimentare la cultura dello stupro, ovvero un clima in cui la violenza sulle donne e di genere viene normalizzata minimizzata e incoraggiata dal suo continuo ripetersi. Se le violenze non vengono mai reputate abbastanza gravi o abbastanza credibili, e se chi le perpetra continua a non esserne mai ritenuto responsabile, le cose non potranno mai cambiare.
La Biennale sceglie di non interessarsi alla questione, ma lə attivistə sottolineano che lo spazio per parlare di violenza di genere è ovunque, perché ovunque accade e continua a propagarsi. La denuncia è chiaramente verso la condotta di luoghi come la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che dovrebbero veicolare la cultura del consenso, del rispetto e del credere a chi subisce la violenza ma che di fatto scelgono di continuare a legittimare la cultura dello stupro.