Perché il modello di “educazione sessuale” proposto dal Ministro Valditara è problematico

Dello stupro di gruppo avvenuto a Palermo pochi giorni fa, abbiamo oramai sentito parlare in tutte le forme. Trattato come un avvenimento eccezionale, per giorni i media sono stati invasi da questa notizia, fino a trasformarla in un vero e proprio trend, facendo circolare migliaia di post, video e stories che spettacolarizzano questa violenza.

Le parole dei sette ragazzi che hanno compiuto la violenza sono risuonate assiduamente in tutte le piattaforme. Sono comparsi dei video falsi dove questi apparentemente si scusavano, come se ciò potesse bastare a cancellare la violenza, come se l’importante fosse ripulirsi l’immagine. Una violenza è diventata per l’ennesima volta una questione mediatica, un mero gossip su cui lucrare e da cui trarre visibilità e fama.

Assistiamo nuovamente a dinamiche per cui l’oppresso e il suo dolore finiscono nel dimenticatoio e i veri protagonisti della vicenda diventano gli oppressori. Certamente insulti e messaggi d’odio nei loro confronti non sono mancati; anzi, l’approccio ai fatti estremamente violento dimostra soltanto quanto essi vengano visti e trattati come dei casi eccezionali e non come parte di un problema sistemico derivante da fattori culturali radicati nella nostra società. 

Infatti, gli abusi attuati da questi sette ragazzi non sono che il frutto dell’educazione patriarcale che li ha accompagnati nel corso di tutte le loro vite, impregnandoli della cultura del dominio a cui sono unicamente destinati in quanto socializzati come uomini.

Inoltre, la concezione secondo cui questi avvenimenti riguarderebbero esclusivamente la sfera sessuale ignora completamente le dinamiche di potere che regolano la nostra società e legittimano gli uomini a perpetrare queste e altre violenze. Perché quando parliamo di violenza di genere non parliamo soltanto di stupro ma parliamo di battute e commenti sessisti, di catcalling, di contatto e immagini non consensuali, molestie, e molto altro ancora.

Quello che è avvenuto e la narrazione che ne è conseguita sono la strenua dimostrazione del fallimento dell’attuale sistema educativo, che da anni ignora la necessità sin dalla scuola media inferiore di ricevere un’educazione sessuale adeguata, che parli di affettività slegata dalla conservazione di dinamiche patriarcali e violente. Un’educazione che tratti la centralità che ha il consenso e di come sia valido solo se esplicito e revocabile in ogni momento.

Necessitiamo insomma di una pedagogia transfemminista nei metodi e nei contenuti, che ci dia gli strumenti per impedire all’educazione patriarcale di riprodursi e riaffermarsi nelle generazioni che ci seguiranno. Che svolti completamente i programmi scolastici di stampo machista a cui i nostri testi sono relegati, che smetta di promuovere ideali di violenza e di oppressione dei corpi.

Questo il nostro “caro” Ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara sembra ancora non averlo compreso, date le sue ultime dichiarazioni e proposte.

Maneggiando la questione come un’anomalia che necessita di un intervento emergenziale, Valditara propone un progetto di educazione sessuale nelle scuole che inizi questo settembre e si protragga non oltre il 25 novembre di questo stesso anno, che andrà a coinvolgere molto probabilmente solamente chi frequenta dal terzo al quinto anno. Già a questo punto non è difficile coglierne le criticità, a partire dalla durata, in contrapposizione netta alla richiesta e necessità di avere un’educazione sessuale costante, ricca e completa. Ma non è da trascurare la possibile esclusione dellə studentə più giovani dal progetto, volontà che porta con sé il carico dei tabù che ci vengono impressi fin dall’infanzia, e che continuano a rafforzare lo stigma che ci è costruito intorno.

Ma non è tutto, perché se le modalità sono preoccupanti i contenuti proposti lo sono ancor di più. Infatti, secondo il nostro Ministro, ciò che lə giovani hanno bisogno di apprendere prima di tutto sono le conseguenze penali dei reati per stupro e violenza, e riconoscere l’importanza di “denunciare perché i colpevoli vengano puniti”. Afferma inoltre che queste poche ore di “educazione alla sessualità” saranno incentrate sul “contrasto alla violenza di genere”.

Riguardo queste affermazioni possiamo riscontrare due problemi: intanto è totalmente ovvio come, secondo il ministero, l’educazione sessuale sia necessaria solo come rimedio temporaneo ed emergenziale ad avvenimenti considerati isolati ed eccezionali. Non quindi come una parte fondamentale dell’educazione di ogni persona che si rapporti o si rapporterà nel corso della sua vita con altri individui, trattando quindi tematiche di genere, consenso, e sessualità a 360°.

Inoltre, la centralità del punto di vista penale all’interno dei temi trattati nel progetto non farà altro che alimentare un pensiero del “giusto-sbagliato” totalmente calato dall’alto, che non attinge minimamente a un pensiero critico sviluppato tramite un ragionamento sull’argomento in questione. Si perpetua così una visione incentrata sul terrorismo psicologico, per la quale si evita di commettere atti di violenza non perché si sono ricevuti gli strumenti necessari per ragionare sulla natura di tali comportamenti – arrivando alla conclusione che siano frutto di un’educazione patriarcale, machista, e al dominio -, ma per una mera paura di incorrere in conseguenze penali. Questo rende quindi tutte queste ore di cosiddetta “educazione sessuale” totalmente vane.

Non ci sorprende che un Ministro che finora ha promosso la competizione, la meritocrazia e l’umiliazione come metodi educativi, ora voglia mantenere il focus sulla punizione degli individui, che andrà soltanto a fortificare quell’ideale secondo cui stiamo parlando di pochi uomini malati e non di pedine del patriarcato. La giustizia punitiva non è la risposta, ma un ulteriore ostacolo all’autodeterminazione delle donne e alla liberazione da quella paura e fragilità a cui ci hanno associatə e in cui ci hanno rinchiuse.

Non ci sorprende nemmeno dal fatto che tra le figure che Valditara propone per tenere queste lezioni ci siano avvocati e rappresentanti di associazioni in difesa delle vittime di violenza, che sappiamo essere spesso estremamente problematiche in quanto promotrici dell’industria del salvataggio e della protezione.

Noi non vogliamo essere salvatə, non vogliamo essere protettə.

Vogliamo essere vivə, liberə di camminare per le strade delle nostre città, per i corridoi delle nostre scuole, tra le pareti delle nostre case senza avere paura. E per farlo non abbiamo bisogno di carceri piene e infiniti processi legali, ma abbiamo bisogno di sradicare il patriarcato alla radice. E le nostre aule sono lo spazio in cui abbiamo realmente la possibilità di farlo, in cui possiamo intraprendere dei reali processi collettivi che mirino alla decostruzione personale e alla decostruzione delle dinamiche sociali che abbiamo interiorizzato.

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