di Emilio Quadrelli
Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit
Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più alto del ciclo di accumulazione capitalista. Con ciò si pone una pietra tombale all’edulcorata visione gradualista e riformista la quale, nello sviluppo delle forze produttive capitaliste, intravvede in prima istanza un principio di civilizzazione per rimettere al centro quel lato cattivo della storia sul quale non poco si era soffermato Marx nella sua “Miseria della filosofia”. Del resto questo proletariato in pelle scura mostra non poche affinità con il proletariato locale che è andato a sedimentare la nuova composizione di classe, a ben vedere gli operai che vanno a posizionarsi intorno alla catena di montaggio sono soprattutto operai meridionali ossia prodotti diretti della colonia interna italiana 1.
Esattamente qui, contro tutte le retoriche risorgimentali care al movimento operaio ufficiale, si delinea un discorso storico–politico che non fa sconti sul tratto coloniale che sta alla base dell’unificazione italiana e che non poche ripercussioni finisce con l’avere sul presente. Molto realisticamente la monarchia sabauda è colta nella sua realtà ossia quella di una tra le monarchie più reazionarie in vena di conquiste e annessioni e non è secondario rilevare come, proprio da ambiti interni a “La classe”, prenderà forma una contro narrazione anche sul mito garibaldino il cui tratto conquistatore e coloniale sarà irrimediabilmente marchiato a fuoco riportando alla luce il massacro di Bronte2. Per altro verso sempre da ambiti interni o affini a “La classe” prenderà forma una rivisitazione storica sul brigantaggio meridionale come forma di resistenza al dominio coloniale della monarchia sabauda3.
La lettura che “La classe” dà del nuovo operaio deportato nelle metropoli industriali del nord è una lettura sostanzialmente coloniale, da qui la facile affinità con tutti quegli spezzoni e segmenti di classe operaia i quali, pur con storie diverse, respirano la medesima aria di famiglia. In ciò vi è una drastica e radicale rottura con tutta la narrazione socialdemocratica e riformista sullo sviluppo del capitalismo e sulle modalità dei suoi cicli di accumulazione4. Nella narrazione classica del movimento operaio ufficiale sullo sviluppo del capitalismo il colonialismo non è mai stato osservato come tratto essenziale dell’accumulazione. Le colonie sono sempre state considerate una appendice dello sviluppo capitalistico, sicuramente importanti per quanto concerne l’accaparramento di materie prime essenziali ma del tutto prive di interesse per quanto riguarda l’estrazione di plusvalore. Le colonie sono state considerate importanti per i materiali grezzi presenti ma non per come il capitalismo metteva a profitto il corpo dell’indigeno anzi, sotto questo aspetto, il colonialismo è spesso stato osservato come un doloroso ma necessario passaggio poiché, proprio grazie al colonialismo, i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere ai fasti della modernità. In sostanza si è finito per ignorare bellamente l’importanza che il colonialismo e il coevo modello coloniale hanno avuto per l’accumulazione capitalista.
“La classe” non solo si emancipa da queste pastoie, ma indica una lettura, che solo molti anni dopo diventerà moneta corrente, non poco innovativa a proposito dello sviluppo capitalista. L’attenzione che il giornale riversa verso il proletariato in pelle scura, le sue lotte e le sue forme organizzative ne sono una non secondaria esemplificazione. Prima di chiudere su questo aspetto pare importante rilevare come, proprio a partire da ciò, per “La classe” l’unità operaia è, in prima istanza, unità di quei settori operai i quali poco o nulla hanno da guadagnare nel rapporto con il capitalismo. Si evidenzia, cioè, come “La classe” non sia attratta dal mostro sacro dell’unità (indistinta) della classe ma focalizzi interesse e attenzione su determinati comparti operai. In Italia, proprio in virtù della colonia interna rappresentata dal Meridione, la spaccatura dentro la classe operaia non avrà tratti macroscopici ma, se volgiamo lo sguardo verso un paese come gli USA, è facile comprendere come questa contrapposizione dentro la classe assuma contorni di ben altra natura. Negli Stati Uniti la classe operaia bianca di ceppo anglosassone ha sempre giocato un ruolo avverso nei confronti sia dei neri, sia del proletariato immigrato identificandosi quasi integralmente con le politiche imperialiste del governo, di ciò l’appoggio alla guerra contro il Vietnam ne ha rappresentato qualcosa di più che un semplice esempio.
Veniamo ora a un altro tema che caratterizza il giornale: gli studenti e il rapporto con il movimento studentesco. Agli studenti il giornale dedica un certo spazio compiendo con ciò una non secondaria rottura con la tradizione operaista. Per l’operaismo che abbiamo definito classico e/o tradizionale gli studenti non rappresentavano alcun interesse. Considerati genericamente piccola borghesia potevano riscuotere un qualche interesse se, come singoli, decidevano di approdare alla militanza operaista, ma gli studenti in quanto tali erano considerati del tutto estranei e inutili alla lotta operaia. Ciò accade, ovviamente, prima del ’68 dopo di che, nulla sarà come prima.
Non lo sarà perché si modifica radicalmente l’analisi sulla composizione di classe della scuola e in particolare sulla figura del tecnico il quale, come più volte “La classe” riporta, è artefice nella fabbrica di lotte non secondarie, anche perché, nelle punte avanzate del capitalismo, ciò è soprattutto vero per quanto riguarda le grosse fabbriche del milanese dove la ristrutturazione capitalista poggia esattamente su una dilatazione e massificazione del tecnico il quale, dentro questo passaggio, perde velocemente il suo ruolo di comparto privilegiato per farsi classe operaia a tutto tondo. La scuola, attraverso l’inaugurazione della scuola di massa5, ha cambiato volto e si è adeguata alle istanze e alle esigenze del neocapitalismo.
La proletarizzazione del corpo studentesco è un dato di fatto che non può essere ignorato e su ciò “La classe” si spende non poco. Il legame operai-studenti ha ormai perso quel tratto ideologico in cui tendevano a rinchiuderlo tanto il riformismo quanto le varie anime dell’ortodossia comunista e che riduceva questi ultimi simili a una sorta di boy scout, proni a farsi missionari davanti alle fabbriche. Con ciò veniva anche meno quella funzione sociale che riformisti e ortodossi vari avevano prefigurato per gli studenti dentro i quartieri poiché, per “La classe”, questi non sono un supporto ideologico esterno agli operai ma parte dello stesso fronte di lotta. La loro proletarizzazione li rende del tutto interni o almeno affini alla lotta operaia benché nessuno si sogni di mettere in discussione la centralità e la direzione operaia. C’è un altro aspetto sul quale, però, vale la pena di soffermarsi: ossia le contaminazioni che il mondo operaio subisce dal e attraverso il mondo studentesco.
Abbiamo detto, parlando del maoismo, di quanto l’indicazione dello sparare sul quartier generale abbia fatto presa su questa tipologia operaia e di come l’antiautoritarismo sia un tratto indelebile della lotta operaia ma abbiamo anche detto come questa classe operaia si caratterizzi per il rifiuto del lavoro e per il volere tutto. È una battaglia di potere e di libertà che caratterizza questo soggetto operaio il quale ha nelle corde non il mito soviettista dell’operaio assunto a simulacro, ma semmai la sua negazione, sulla scia di Marx è la classe, non per sé ma contro di sé. Poteva una classe operaia simile rimanere immune dalle suggestioni libertarie del ’68 delle quali il movimento studentesco era stato l’alfiere? Poteva questa classe operaia tutta protesa a liberare il tempo dal lavoro per vivere, non venire in qualche modo attratta dagli stili di vita che il ’68 aveva inaugurato? Questa classe operaia ha rotto con la tradizione comunista a trecentosessanta gradi e non diversamente dagli studenti è alla ricerca di qualcosa d’altro.
Liberare il tempo dal lavoro significa sperimentare possibili rotture con l’alienazione della condizione operaia, rompere con gli schemi esistenziali entro i quali il rapporto sociale capitalista ha confinato gli operai. Si tratta, allora, di coniugare la lotta in fabbrica con l’avventura della vita; da lì, quindi, anche uno strappo generazionale con la famiglia e gli orizzonti quanto mai ristretti che le fanno da sfondo. Questo sarà ancora più vero per le donne, quelle operaie in particolare, le quali dentro quella stagione possono porre in atto una duplice liberazione: la lotta contro la schiavitù del lavoro salariato, ma anche la lotta contro il loro ruolo sociale. Per le donne, ancora più che per gli operai maschi, liberare il tempo dal lavoro significa rompere tutte le gabbie in cui non solo il lavoro salariato e il comando le ha imprigionate ma fare i conti con il patriarcato e tutte le sue derive. Per le donne la lotta significa iniziare a riappropriarsi di sé stesse, a esistere come soggetto autonomo, a parlare in prima persona a non essere più appendici di qualcosa, tutti temi, questi, che erano stati propri del ’68 che trovano non pochi consensi tra le donne in fabbrica6.
Sulle donne “La classe”, in realtà, si mostra ben poco attenta e se sulla razza e il colonialismo anticipa temi la cui attualità oggi è a dir poco dirompente, sul genere si mostra ben poco innovativa anche se non del tutto ignara e questo, a conti fatti, è forse il vero e proprio rimprovero che le può essere fatto. Con ciò chiudiamo la parentesi sull’astratto per tornare a calarci nella concretezza delle lotte e del dibattito che intorno a queste si va sviluppando. Arriviamo così a Corso Traiano e all’epilogo de “La classe” provando, al contempo, a gettare un corposo sguardo sul presente.
Il 3 luglio 19697 segna un passaggio decisivo per il movimento dell’autonomia operaia, quella che è stata chiamata la battaglia di Torino anticipa ciò che, di lì a poco, diventerà la normalità del conflitto operaio e studentesco e dà obiettivamente il la, alla anomalia italiana degli anni settanta. Corso Traiano è una svolta dalla quale non è possibile tornare indietro, una accelerazione che finirà con lo scompaginare la stessa “La classe” a riprova di come non si possano separare le questioni organizzative da quelle politiche e come le strutture formali possano vivere ed esistere solo se in grado di stare sul filo del tempo del partito storico. Corso Traiano conferma, ancora una volta, come la dialettica marxiana prassi/teoria/prassi sia la sola e unica stella polare alla quale affidarsi e come, fuori da ciò, vi sia solo sclerotizzazione burocratica, in altre parole corso Traiano mostra come Lenin avesse ancora una volta ragione. I fatti sono abbastanza noti, pertanto ci si limiterà a riportarli in maniera estremamente sintetica.
Il 3 luglio il sindacato ha indetto uno sciopero e una manifestazione contro il caro affitti e la questione abitativa mentre, da parte sua, “La classe” ha indetto una manifestazione per il pomeriggio indicando la porta 2 di Mirafiori come luogo del concentramento. Si tratta di una decisione che ha suscitato non poche perplessità anche all’interno dell’assemblea operai–studenti poiché, non pochi, considerano l’iniziativa prona all’avventurismo con possibili ricadute nefaste per il livello repressivo che sicuramente comporterà, con la conseguenza di un vero e proprio azzeramento di tutto il lavoro politico svolto dall’assemblea e dal giornale negli ultimi mesi. Una parte dell’assemblea obietta che un conto è la forza che si è in grado di esercitare dentro la e le fabbriche, ma ben altra cosa è riversare questa forza fuori dalla fabbrica; lì la partita cessa di essere focalizzata sul padrone e si sposta immediatamente sullo stato, lì il terreno in parte consolidato della violenza operaia in fabbrica va a misurarsi su un terreno in gran parte sconosciuto, il che potrebbe comportare una disfatta con conseguente annichilimento di tutto quel tessuto di avanguardie di fabbriche che un lavoro certosino aveva costruito nei mesi precedenti.
Si tratta di dubbi più che legittimi e sensati ma che, per altro verso, mostrano come, anche inconsciamente, in non pochi casi la struttura organizzata tenda a privilegiare la conservazione di sé stessa piuttosto che arrischiare l’incognita del salto politico. Se pensiamo, infatti, a come, in un contesto ben più drammatico, a ridosso dell’insurrezione sovietica, Lenin si trovò contro una buona fetta del partito bolscevico, diventa abbastanza evidente come la decisione sia sempre un momento drammatico, ben poco lineare e come, in aggiunta, sia sempre un grano di azzardo quello che finisce con l’accompagnarla. Siamo al momento dell’audacia, dell’audacia e ancora dell’audacia, il che, per forza di cose, non può fare affidamento su troppe certezze. Alla fine, soprattutto per la spinta proveniente dalla componente operaia che evidentemente aveva maggiormente il polso degli umori interni alle fabbriche, la decisione per la manifestazione autonoma è presa, davanti alla porta 2 di Mirafiori si deciderà il destino delle lotte operaie.
Il corteo non riuscirà mai a partire perché immediatamente caricato da polizia e carabinieri, ma la sorpresa arriva esattamente in quel momento poiché dopo un attimo di sbandamento il corteo si ricompatta e inizia a reagire, mentre pressoché in contemporanea, dal Lingotto e da altre fabbriche, approdano altri cortei operai verso la porta 2 di Mirafiori e stessa cosa fanno gli studenti. In brevissimo tempo gli scontri si allargano a macchia d’olio finendo con il coinvolgere non pochi quartieri operai tanto che la battaglia di Torino si protrarrà sino a notte inoltrata e troverà nel quartiere operaio di Nichelino il suo epicentro. Polizia e carabinieri sono in rotta, la classe operaia ha vinto, questo ridefinisce per intero i rapporti di forza tra le classi in città ma non solo, poiché quanto accade alla Fiat è qualcosa che ha ripercussioni immediate sui rapporti di forza generali finendo con il porre in crisi gli stessi assetti governativi. Tutto ciò obbliga anche a un ragionamento ex novo per quanto riguarda il terreno dell’organizzazione politica e la messa in campo di adeguate strutture militari in grado di farsi carico del livello di scontro che spontaneamente la lotta operaia ha posto all’ordine del giorno e, come la dinamica stessa della battaglia di Torino ha evidenziato, si pone il problema, non più rimandabile, del rapporto tra lotta di fabbrica e lotta dentro la metropoli. Una quantità di questioni che investono direttamente tutta l’esperienza portata avanti da “La classe”, una accelerazione che va ben oltre gli orizzonti che, prima di corso Traiano, questa aveva ipotizzato.
Ben prima di corso Traiano “La classe” si era attivata per cercare di far compiere un salto all’organizzazione autonoma operaia e per fine luglio aveva convocato a Torino un convegno dei comitati e delle avanguardie operaie, una operazione che aveva il duplice scopo di iniziare a tirare le somme di ciò che si era andato sedimentando in termini di lotte, esperienze, progettualità e dibattito dentro la sempre più diffusa area dell’autonomia operaia e, a partire da ciò, delineare i necessari passaggi politici organizzativi in grado di aggredire e affrontare le nuove scadenze a partire da quella decisiva dei contratti dell’imminente autunno. “La classe”, quindi, è pienamente cosciente che la sua funzione, almeno in quella forma, è giunta al termine e che occorre andare oltre quella pur fondamentale esperienza, in tutto questo, comunque, immagina di attivare questo passaggio in continuità con quanto posto a regime sino a quel momento, il convegno dovrebbe mirare esattamente a ciò ovvero chiudere l’esperienza de “La classe” e dalle sue ceneri far sorgere un soggetto politico capace di farsi carico complessivamente dell’organizzazione operaia. Le cose, però, andranno diversamente.
Le due anime che avevano convissuto dentro il giornale, adesso più di prima, acutizzano le loro differenze e in ciò la battaglia di Torino ha sicuramente giocato un ruolo non secondario. Come si è detto non vi era stata unanimità dentro al giornale sull’indire una manifestazione autonoma, una diversità che rimandava, per lo più, alle due posizioni presenti nel giornale. L’ala prettamente operaista, che di lì a poco darà vita a Potere Operaio, aveva mostrato le maggiori perplessità sulla manifestazione mentre l’ala che si costituirà in Lotta Continua era stata quella che maggiormente aveva spinto perché la manifestazione si facesse. In ciò emergono e in maniera neppure troppo sottile le differenze sul modello di organizzazione che le due componenti de “La classe” hanno a mente. Per i futuri militanti di Potere Operaio l’organizzazione è organizzazione di quadri operai con funzione di avanguardia e direzione delle lotte e, in piena coerenza con ciò, il problema dell’organizzazione operaia è strutturarsi in maniera tale da prendere la testa del movimento inoltre, per questi militanti, la centralità della fabbrica rimane pressoché assoluta, è lì, senza farsi distogliere da alcuna sirena di lotta metropolitana che va concentrato e focalizzato tutto il lavoro delle avanguardie operaie. In questo senso, pur con tutte le tare del caso, coloro che daranno vita a Potere Operaio si mostrano in più di un tratto, interni alla tradizione comunista.
Molto diversa l’impostazione che fa da sfondo ai militanti che daranno vita a Lotta Continua. Anche per loro il nodo dell’organizzazione è centrale ma tendono ad affrontarlo in maniera assai diversa dai primi. Per chi andrà a formare Lotta Continua, è la lotta e le sue forme che costruiscono l’organizzazione e proprio per questo l’organizzazione non deve porsi il problema di prendere la testa del movimento ma deve, invece, essere la testa del movimento. Due ipotesi che rimandano a idee e concezioni abbastanza diverse sul senso che assume l’autonomia operaia. Ciò che diventerà Lotta Continua avrà un ampio seguito operaio e alla FIAT potrà vantare a lungo una egemonia incontrastata, cosa che obiettivamente non si può dire di coloro che perseguono l’ipotesi di Potere Operaio nonostante l’area che si coagula intorno a Lotta Continua non sia per nulla fabbrichista ma, al contrario, fautrice di una socializzazione della lotta operaia nella la metropoli il che diventerà quanto mai esplicito poco tempo dopo, quando lancerà il programma “Prendiamoci la città”8.
Questa area non rinuncerà certo alla centralità operaia, anzi, e questo era già evidente all’interno dell’esperienza de “La classe”, ma allarga il suo raggio d’azione verso la complessità delle figure proletarie che animano la metropoli. Era stata quella a rompere con gli schemi rigidi del vecchio operaismo, in parte presenti anche nel nuovo, in merito agli studenti e al ruolo giocato da questi nei nuovi scenari del neocapitalismo; non per caso proprio questa area politica fu in grado di farsi egemone soprattutto tra gli studenti medi dei tecnici e dei professionali e in più, sempre quest’area, iniziò a lavorare, frutto di un non secondario radicamento all’interno dei quartieri operai e proletari, con il proletariato extra legale e prigioniero del resto, ancor prima che lo scontro in fabbrica si radicalizzi e vada in scena la battaglia di Torino, l’11 aprile proprio Torino aveva visto la battaglia delle Nuove, quando i detenuti si erano ribellati e avevano distrutto la prigione. Ben difficilmente, a partire da queste non secondarie differenze, le due ipotesi possono convivere e pensare, per di più, di compiere insieme quel salto qualitativo politico–organizzativo che corso Traiano ha reso quanto mai urgente.
Il Convegno, di fatto, non approda a nulla. Le due principali anime che stavano dentro a “La classe” tendono a polarizzare le loro differenze ma, con ogni probabilità, non si tratta solo e semplicemente di questo, bensì del fatto che tutto quello che “La classe” poteva dare, aveva dato e questo non è stato certo poco. Corso Traiano non era stato, come gli avvenimenti dell’autunno saranno lì a dimostrare, un fulmine al ciel sereno e neppure un falò tanto intenso quanto effimero, ma il corposo incipit di una nuova e durissima stagione di lotta. L’offensiva operaia non lascia spazi a interpretazioni di altro tipo, è il salto alla guerra. Dentro tale scenario “La classe” non poteva più svolgere il ruolo che, con non poco merito, aveva svolto nei pochi mesi della sua attività, un passaggio politico si mostrava tanto urgente quanto necessario e, con ogni probabilità e proprio in virtù di ciò, più che la nascita di una organizzazione monolitica a dover sbocciare erano cento fiori. Siamo di fronte a un passaggio sicuramente complessivo ma anche complesso, passaggio che ben difficilmente può essere perimetrato in un unico contenitore. Le due aree de “La classe” rimandano a questioni reali e per nulla effimere, l’aver ipotizzato e tentato strade affini ma diverse sembra essere stato qualcosa di obbligato e imposto da una situazione materialisticamente determinatasi, più che il frutto di cattivi ideologismi.
( 7 – continua)