Hysteria!

Di Alceste

Roma, 2 settembre 2023

In Niger scacciano i colonizzatori! L’India va sulla Luna! I BRICS non pagano il petrolio in dollari! Crolla il sistema che ha governato il mondo nell’ultimo secolo! Se non più! E tutti a ballare la polka … come se tali avvenimenti non favorissero sfacciati, invece di negarne l’inveramento storico, proprio ciò di cui si celebra l’apparente funerale: la globalizzazione terminale, la Monarchia Universalis.

Lacrime su Michela Murgia, altra inessenziale figurina della sedicente scena letteraria e intellettuale dell’ex Italia. Il funerale, né cattolico né pagano, celebrato nella chiesa di piazza del Popolo, una volta dedicata alla Vergine, e oramai mezza sconsacrata, ha rivelato l’essenza dei Nuovi Tempi … a riguardare certi spettacoli trascorro intermittente tra rictus spettrali e facies da umor nero … L’enormità delle eulogie, sproporzionate rispetto al reale peso della Defunta, l’indifferenza al luogo di culto, scambiato dal becerume per una fumosa sezione di partito, le allocuzioni strampalate … ove alcune citazioni da fumetto, commiste ai ricordi più goffi, si induriscono improvvisamente in sconclusionate quanto violente invettive alimentate da un odio incomprimibile, di cui gli autori stessi ignorano la scaturigine reale … tutto induce a uno sbalordimento che sconfina nel malessere. Una di tali Erinni postmoderne, che il Potere ama ingigantire sin al rilievo d’intellettuale, brutta e insecchita dal risentimento, vocia scomposta dal baldacchino della prosopopea: la concione rassomiglia alle registrazioni allucinate carpite da una cella imbottita, ma ognuno la prende sul serio, per carità, dal pretame agli stracciaroli della stampa lì convenuti … eppure indovino, negli interstizi di quei monologhi, a unico conforto, una segreta e divorante disperazione … si può volare assecondati dai venti del Conformismo dei Tempi Nuovi sin a credersi latori della Verità, ma è arduo ingannare la propria natura profonda: da tale duello interiore deriva l’isterismo.

Ormai nemmeno leggo più tanto. Mi hanno tolto questo piacere. Infatti, non esistono più libri. L’obiezione principale che mi si può muovere (“E le librerie, allora?“) non tiene conto del fatto che le librerie non vendono più libri. Pochi giorni fa sono entrato in una delle ultime operanti a Roma, di una nota catena. L’odore dei disinfettanti, esaltato dall’aria viziata dei condizionatori, quella miscela nichilista di falso pulito, mi ha subito aggredito alla gola. Ormai ogni lupanare delle multinazionali, o di bugigattoli nazionali a esse affini, dalle banche al vestiario, profuma allo stesso modo, di detergenti asettici, anonimi, seriali. Le luci al neon e l’ordinamento meticoloso dei prodotti delle scaffalature reca un senso di smarrimento; l’impressione è che tale ordine celi l’estrema povertà dell’offerta. Cinema e musica sono scomparsi; residua l’attualità di qualche titolo; e l’orrenda moltiplicazione di offerte di libri per bambini, uno peggiore dell’altro, di baedeker da cucina, vademecum new age, ricettari da svago. Come se l’ominicchio attuale dovesse ancora svagarsi … ma da cosa? Le copertine sono necessariamente sgargianti, con titoli vistosi, smerdate da foto o disegni di terrificante stupidità; l’impaginazione è grossolana, la carta mediocrissima, le cuciture inesistenti. Al di là del contenuto, il libro ha perduto del tutto il proprio valore di preziosità. Un libro si stampa e si getta via. Ciò ha praticamente distrutto il settore dell’antiquariato: i libri stampati negli ultimi trent’anni ci si vergogna persino a esporli accumulandoli come spazzatura fuori del negozio, in offerta a pochi euri; la maggior parte viene viene sversata nei bookcrossing o nelle carceri. Dopo pochi minuti ero già disgustato da tutto: difficile nascondere il ribrezzo al contatto di quelle levigature di straziante alienazione; la mancanza di materiali nobili liofilizza anche il pensiero … pure quegli allucinati omaggi alla cosiddetta cultura, le gigantografie di Garcia Marquez e Brecht, scoraggiano all’acquisto … persino di Garcia Marquez e Brecht … il povero Bertolt, poi, chi se lo compra più oramai? Quando il PCI e l’Einaudi spingevano per Mutter Courage, forse … ma oggi lo si riguarda come testimonial, al massimo …. a testimoniare l’engagement … ma di chi? Di Saviano, che quello ha da scalare le classifiche di vendita … Anche il settore dei classici rigurgita di orrori. Impossibile (dico: è impossibile) leggere Conrad o Catullo in tali edizioni brossurate … la forma, signori … stupra brutalmente il contenuto … il verso Ancor che l’aigua per lo foco lassi, di cui, in mancanza di maestri, s’ignora la natura e la segreta, intima, bellezza, non può fisicamente leggersi o apprezzarsi sfogliando quelle pagine puzzolenti di colla alla buona … l’utilitarismo straccione sbaglia ancora i calcoli, o meglio: gli Italiani, ancora una volta, si son lasciati infinocchiare da questi imbonitori taccagni, sacrificando ciò che furono … eppure si comprendeva, sino a pochi decenni or sono. 

Dopo poco, stremato, sono vittima dei consueti miraggi. Nei pressi delle scaffalature di fondo, infatti, mi sembra di sorprendere due figure note, entrambe nell’atto, per me incomprensibile, di rimestare incuriosite nella turca delle offerte imperdibili … è Patrick Zaki quello che vedo? E, più in là, Michela Murgia? Poi mi accorgo, mettendo meglio a fuoco le silhouttes, con la mano che appoggiata al reparto olistica, come a sostenermi dopo un fuggevole e intenso attacco cardiaco, che, certo, sono persone comuni e solo rassomigliano alle celebrities di cui sopra … crespo e barbuto il primo, l’occhialuta faccia da bamboccio, pantoloni jeans al polpaccio, la maglietta ingrigita per i frequenti lavaggi: ghermisce tre o quattro libri … non oso immaginare quali, il bottino idiota che, immagino, dovrà pur leggere; grassoccia la seconda ipostasi, le gambe celate da una gonna a ombrellone, il top delirante appesantito da una mammellatura da frisona pezzata, i capelli unti e riccioluti inchiodati da un cerchietto che ne discopre la fronte picchiettata da un leggero sfogo eczematoso, sintomo, forse, di rari commerci carnali. Decenni di pace e fregnacce libertarie hanno rimodellato fisionomie, attitudini e voci; perduta l’antica varietà, l’Italiano s’incanala oramai in rari tipi antropologici regressivi di cui gli anzidetti modelli sono espressione.
Cerco di riguadagnare l’uscita davanti alle casse, cinque, ognuna ricca di un POS; i lacerti di un dialogo fra il commesso dalle spalle a bottiglia e un sinistrato (“Qui può beneficiare del bonus docenti! Davvero?“) quasi mi abbatte sulla soglia; resisto, la porta automatica infine si apre; fuori è la consueta plebaglia in ciabatte che, stavolta, accolgo quale salvatrice e amica; alto, caldo e munifico, il sole.

La geopolitica scruta, indaga, preconizza; alla fine, stremata, si rifugia, almeno in Italia, in alcuni luoghi comuni da bozzetto regionalista, degni dei film di Lino Banfi: Roma la puttana, il milanese traditore, il losco siculo … a qualcuno si deve dar la colpa, insomma … vero è che la scena attuale sembra tratta di peso da La dottoressa ci sta col colonnello … non manca, poi, il colonnello Buttiglione, diventato generale.

Essa deriva parte del fascino dalle puerili ansie di dominazione del Risiko, coi carri armati della Kamchatka e i soldatini a difesa di Madagascar e Sudafrica. Le capacità di predizione di tale sedicente scienza son quasi sempre fallaci poiché non tengono conto dell’implacabile linea di sviluppo dell’umanità diversificatasi, nei millenni, grazie al clima, alla conformazione del territorio e all’accidentale insorgenza di un linguaggio che ha permesso, nei casi più felici, la ricchezza del sentire metafisico e, quindi, lo splendore dell’arte, della religione e della sapienza. Ogni cultura vanta un proprio genio e, per questo, va considerata quale concrezione sacra su cui nessuno ha il diritto di emettere superficiali giudizi di valore. Anche la più ridicola o scostante usanza o consuetudine è sorta per conservare; negarla o sanzionarla equivale a un principio di genocidio.

Nella congerie d’innumerevoli permutazioni, distruzioni e arricchimenti che costituirono le singole culture umane solo alcune risultarono, però, decisive, tanto da costituire l’architrave del mondo a venire. La chiave di volta dell’architrave occidentale, per quanto possa sembrare incredibile, son i lembi di terra mediterranea legati all’Italia. È l’Italia, e nessun altra, forse con l’eccezione della Cina, ad aver prodotto inesauribilmente per tre millenni; questa considerazione, ovviamente, può muovere al sorriso, ma solo perché ci hanno lungamente abituati all’autodisprezzo. Per questo motivo, e nessun altro, ogni sforzo si dirige a disseccare la principale fonte della civiltà occidentale: dilapidare in pochi secoli un lascito incalcolabile per far posto al Nulla. Lavare via la civiltà, il magnificente smalto sul Nulla, recherà ognuno al suicidio.

Leggo dalla Treccani online, per comodità: “L’isteria è una forma di nevrosi caratterizzata da sintomi sensoriali e motori (accessi nervosi e convulsivi, delirio, amnesie, allucinazioni ecc.). Il termine deriva dal greco ὑστέρα, ‘utero’, e fu coniato da Ippocrate per indicare una serie di disturbi provocati appunto da quest’organo che rappresenta, secondo il modello della parte per il tutto, l’intero organismo femminile. Lo studio dell’isteria ha svolto un ruolo più o meno centrale in tutta la storia della medicina. È perciò significativo che solo recentemente (1987) questa sindrome sia stata eliminata dall’elenco delle malattie di origine psichiatrica redatto dall’American psychiatric association (DSM-III-R)”.
L’American Psychiatric Association agisce nel solco del “Fai quello che ti pare” e non deve stupire.
Gli accessi isterici sono preceduti da “palpitazioni e svenimenti” seguiti da una fase epilettoide in cui si susseguono “crisi di riso, pianto e tremori”; indi sovviene la sequenza detta del clownismo (ci si dimena distorcendo la fisionomia naturale come i pagliacci del circo) in cui abbondano urla e contorsioni; segue la trance catalettica ove la vittima “compie azioni inconsapevoli e involontarie, come fare capriole all’indietro e tante altre azioni che in stato di coscienza non sarebbe in grado di compiere”; finalmente si ha il riavere della quotidiana coscienza.
Interessanti sono anche le affezioni del tipo isterico: “suggestionabilità; psicoplasticità (tipico delle donne isteriche che attraggono gli uomini e diventano protettive), egocentrismo e tendenza a mettersi in mostra e al centro dell’attenzione con atteggiamenti tipicamente teatrali, con tratti istrionici; depersonalizzazione (distacco dalla propria persona); disturbi sessuali (impotenza, frigidità, dongiovannismo)”: pare di assistere a qualche sfilata universale del progressismo ecumenico.

Il frenologo Jean-Martin Charcot associa gli attacchi isterici alle estasi dei santi, ma soprattutto alle possessioni diaboliche. “Tremate, tremate, le streghe son tornate!”, antico adagio del Sessantotto che rivive nelle vaginoforie attuali, potrebbe essere più accurato del previsto. Nelle ossesse postmoderne, però, si annida un demonio differente, apparentemente presentabile, ma non meno devastatore: quello delle false libertà. Le possedute sentono al vivo, nelle loro carni, l’insorgenza di tale Nuovo Ordine. Lo sperma ghiacciato della propaganda totalitaria ha ingravidato i milioni … e non è una novità, anzi: Giorgio Galli nel suo Occidente misterioso pone in corrispondenza l’evoluzione della democrazia e i fenomeni isterico-controculturali: baccanti, gnostici, streghe, hippies.

Anche le menadi d’Euripide che, in nome del nuovo dio, Dioniso, profeta dell’invasamento e della follia (mantisdaimon), sbranano a mani nude il re Penteo, sono agite da isterismo compulsivo e allucinatorio. Persino Agave, madre di Penteo, partecipa al massacro “colla bava alla bocca, roteando le pupille stravolte, incapace di recuperare la ragione – il dio la possedeva”. D’altra parte le giugulari gonfie nell’odio, il fanatismo, le rivendicazioni scomposte, il vociare senza freni e pudicizia alcuna non rientrano nelle manifestazioni epilettiche e alogiche dei nuovi tempi progressisti? “Sarebbe un grande rimedio, finalmente, evirare il maschio portatore di fallo fallace a scopo sanitario e ascetico.  Allora, questo genere di maschi, ripuliti da superflui pezzi di carne, canterebbero al cielo melodie soavi con le loro voci bianche …“, cicalava qualche giorno or sono una di tali Cibeli del Nulla … Ma non vorrei passare per misogino … in tempi di pace, infatti, come ricorda quel dottore a Mishima, il polso maschile e quello femminile battono con lo stesso ritmo. E di pace ne godiamo da quasi un secolo. Di maschi isterici se ne trovano, perciò, a bizzeffe. E cosa c’è di peggio di una femmina isterica? Un maschio isterico; o quel che ne resta.

La manifestazione più clamorosa nella fase del clownismo è l’arco isterico, per cui la vittima, puntati i piedi e arrovesciato il capo, s’inarca tendendo spasmodicamente la schiena. La resa più celebre dell’arco isterico può rinvenirsi ne L’esorcista dell’ebreo-americano William Friedkin (The exorcist, 1973). La giovane Regan, posseduta dal demone assiro Pazuzu, è scossa dalle più atroci convulsioni accompagnate da grida, oscenità e bestemmie. Nella celeberrima sequenza nota come “spider scene”, che infonde un immediato e istintivo ribrezzo, Regan cala lungo le scale di casa, silenziosa come un ragno, a testa in su: movendosi, quindi, su mani e piedi, nella sardonica posa dell’arco isterico. La scena è ispirata palesemente dal film di Brunello Rondi, Il demonio (1963): qui è Purificata, sorta di strega di campagna, a inarcarsi durante un esorcismo in chiesa, per poi muoversi innaturalmente sotto lo sguardo agghiacciato d’ognuno. Rondi inserisce opportunamente una soggettiva della posseduta per cui l’altare è osservato al contrario, a sottintendere l’estremo oltraggio anticristiano: il crocefisso rovesciato.
Se Friedkin gioca esclusivamente sul versante spettacolare, sommovendo, tuttavia, corde ancestrali, l’Italiano si sostanzia di velleità politico-sociali, fra Carlo Levi ed Ernesto De Martino (il bigottismo della comunità lucana, i praticoni della magia): in entrambi i casi, tuttavia, il Cristianesimo o risalta negativamente o rimane sconfitto.
Rondi delega i ruoli dei protagonisti a due eccellenti attori ebrei: la bellissima Daliah Lavi, israeliana, e Frank Wolff, americano, ma di ascendenza tedesca, assiduo sulle nostre scene degli anni Sessanta. Le platee ricordano Wolff nella parte del rude irlandese che aspetta la Cardinale nell’incipit di C’era una volta in America, sebbene egli risalti più in altre pellicole di genere: Gli occhi freddi della pauraLa morte risale a ieri sera e Milano calibro 9.
Wolff si suiciderà nel dicembre 1971, a Roma, nei pressi di un residence a Monte Mario, tagliandosi la gola con una lametta, forse per una delusione d’amore. Altri uomini e attori, diverse tempre, altri rasoi.

Anche in The mouth of madness (Il seme della follia, John Carpenter, 1994) una donna subisce una contorsione isterica dovuta a possessione: lovecraftiana, stavolta. Qui è lo scrittore-demiurgo Sutter Cane ad aprire un pertugio (mundus) tra le regioni della follia e il reale che, poco alla volta, gli cede e si dissolve. Quando il protagonista si renderà conto dell’ineluttabilità della sostituzione sarà troppo tardi: sarà allora che la rivelazione lo scuoterà tra scoppi di risa e un pianto disperato: una crisi irrefrenabile, isterica.

Rimedio di Ippocrate per l’isteria femminile: il matrimonio.

Durante le epoche celesti, l’uomo non è mai ciò che è, ma ciò che fu. In tempi catastrofici, invece, è ciò che mangia: per guardarsi allo specchio deve indagare il bugliolo.

Una volta i ragazzini volevano fare l’astronauta, il calciatore e il cantante. Ora non vogliono fare più nulla. Forse lo sentono a pelle che sono destinati al cubicolo.

La sinistra non esiste. Qualche giornalista, sedicente di destra, si premura di individuarla ancora nei pressi della sinistra borghese, salottiera edonista e post-socialista (in modo da estendere pezzi fatui e fintamente sarcastici onde vellicare gl’impulsi dei residui lettori conservatori), ma in realtà permea ogni evento e individuo. Bergoglio, Biden, Meloni … tutto è liberale, liberante, progressista. È lo spirito dei tempi, il marchio della Bestia.

Vladimir Luxuria, al secolo Vladimiro Guadagno (1965-vivente), “attivista, scrittrice … opinionista, direttrice artistica, attrice, cantante drammaturga ed ex-politica”, oltre che personaggia televisiva, reca, su di sé, incolpevolmente, uno stigma terribile: quello di riassumere onomasticamente il tipo antropologico del sinistrato da salotto. Vladimiro, ovvero la colatura di un’ideologia non più viva sebbene operante come parodia, e la pagnotta (Guadagno), cui il sinistro accede o pretende di accedere parassitariamente: per cooptazione dall’alto o perché dovutagli in virtù della propria superiorità morale e intellettuale. Ideologia e pagnotta entrano in muta e diuturna corrispondenza fra di loro tanto che il latore a volte reclama la pagnotta in nome dell’ideologia, altre l’ideologia sfruttando le prebende della pagnotta. Difficile, quindi, discernere ove inizi la cooperativa e finisca la migrante maltrattata; e viceversa. Engagement e IBAN: entità fluide e osmotiche.

I nuovi tempi, ovvero l’estrema e forsennata accelerazione dell’Illuminismo Nero, inizia in Italia con una schermaglia ridicola, quella tra il leader della destra post-fascista, Gianfranco Fini, e l’illuminato (di luce riflessa, però) Francesco Rutelli: radicale, ecologista, liberale: di sinistra, quindi, almeno nell’accezione che delineo. L’elezione a sindaco di Roma (si era nel 1993) servì a raggrumare attorno a tali individui gli schieramenti psicologici che avrebbero dominato le menti degli Italiani per trent’anni. Trent’anni di speranze, quindi politicamente buttati, e regalati all’Avversario che, al coperto da inessenziali baruffe, ha potuto agire indisturbato. Tutti a darsela di santa ragione coi bastoni di sughero: Berlusconi e il conflitto d’interessi, D’Alema e i capitani coraggiosi, il fascismo eterno, la devoluzione, le liberalizzazioni, i femminicidi … guerricciole finte e spendibili al mercatino del prendingiro. Trent’anni. Lo scontro simulato tra Gianfranco Fini (che sapeva di dover perdere) e Francesco Rutelli (che sapeva di aver già vinto) tornò utile per scongelare l’intero arco costituzionale dai rigori della Guerra Fredda e degli anni di piombo; per le dinamiche da innescare nei tempi a venire, infatti, ogni più riposto gaglioffo sarebbe servito, quale servitore. E così fu.

Perché l’Europa del Nord, altrimenti detta Europa Fredda dal politologo Gianfranco Miglio, pare un manicomio a cielo aperto? Perché la civiltà, ovvero lo smalto sul Nulla, fu, presso d’essa, una patina assai leggera. Un paio di lavaggi ed è tornata la Bestia. Ma, caro Alceste, cosa vuole dirci, stavolta? Che i Finlandesi sono selvaggi? Ma no, solo in-civili. L’irradiazione mediterranea l’hanno vissuta di riflesso per cui, privi di anticorpi, hanno ceduto di schianto rivestendosi di un’apparente civiltà totalmente devota a un ossequio specioso ai diritti civili, dal femminismo al garantismo processuale e carcerario. Questi popolicchi ora possono gonfiare il petto di fronte a Italiani e Greci, creduti inferiori e brutali, pari a colerosi dell’egalitarismo, e addirittura insegnargli a vivere; il loro femminismo e garantismo non è, tuttavia, che la parodia insinuante e deformatrice di nostre conquiste giuridiche antiche di due millenni: e però, forti dello Spirito dei Tempi, danno sulla voce; e i quisling zitti, per carità. Chi vanta Marco Aurelio, Giustiniano, Seneca e Plutarco deve sorbirsi ramanzine sulla giustizia-giusta o tirate ecologiche da animalisti mentecatti che, per rispettare i cavalli, si lanciano in gare ippiche senza cavalli: scalpitando essi stessi come cavalli, dopo aver inforcato un bastone da scopa munito di testa da cavallo: al modo dei bimbi di mezzo secolo fa. Diritti-parodia, reclamati sul filo dell’isteria alogica, non possono che cadere nell’inghiottitoio della regressione. Dilavati della civiltà, e confortati dall’alibi del falso Spirito dei Tempi, mimano azioni infantili senza essere infanti, reclamando arroganti la giustezza dei propri comportamenti, come gl’incurabili della Salpêtrière.

D’estate, non più bambini, ma non ancora adolescenti, quando i primi friccichi pungevano la carne nei lunghi pomeriggi d’estate, si era dolcemente inquieti. Sotto gli occhi vigili del Super-io genitoriale e pretesco gli sfoghi erano tanto vaghi quanto impossibili. Si organizzavano, perciò, per sfuggire l’afa di quel primissimo celibato, delle inusitate quanto promiscue sessioni di nascondino. A turno, uno contava nascondendosi il volto; il resto si celava agli occhi degli adulti, inconsapevoli. Al riparo di fratte, automobili e steccati si potevano finalmente ammirare anse, smanacciare popliti, e annusare nuche, per qualche attimo, subendo reazioni e rimostranze non si sa quanto sincere. L’istantanea di una caviglia, svelata alla fine d’una gonnellina di leggero e modesto panno bianco, e di un calcagno liscio e levigato sollevato sopra la ciabattina, è ancora presente alla memoria. Il mistero della femminilità si compiace di abbandoni, finte ritenutezze, ansie d’assalto e astutissimi assedii, residuo di comportamenti pleistocenici lentamente addolciti, e poi formalizzati, come mores inderogabili, dal tempo e dal desiderio. Basta studiare il mondo stilnovista europeo per rinvenire tale mirabile congerie di correlativi, scrupoli e minuetti a regolare ciò che nacque come semplice unione carnale; voler oggi sbriciolare questa ragnatela di simboli in nome di una maggiore e falsa libertà equivale al ritorno ad bestias … che nelle attuali stupidaggini cinematografiche ci si accoppi come cani sbraitando insensatezze è inevitabile. Lo scatenamento, però, serve paradossalmente la repressione e il tentativo, in atto, di fugare del tutto l’amore … Le grandi scene isteriche delle menadi PolCor rientrano in tale quadro psicologico equivocato come “liberante”. I liberti dei diritti civili finiscono sempre per comportarsi come gli schiavi più meschini. L’amore è assicurato dai tabù. Solo all’interno del recinto sacro del divieto il volgare accoppiamento sublima in ierogamia.

Una volta Gad Lerner, sensuale e prosaico come la maggior parte dei correligionari, grandi organizzatori di pornografia, affermò che la donna, in fondo, ama essere un po’ sbattuta. Ah, che uomo di mondo!

La pornografia, come esibizionismo delle perversione multiforme, ha sfiancato già i lombi di tre generazioni producendo esseri impotenti e frigidi. La pornografia è come Ubik, la si ritrova in ogni cosa … l’importante è sopprimere le forme che ci hanno consentito di vivere, dalla tradizione interpersonale all’istituzione matrimoniale. Vi è una pornografia legalizzata e una pornografia di contrabbando. L’una sono lo specchio dell’altra, ed entrambe fanno capo a una ristretta oligarchia del vizio. A volte credo che sia un monopolio, tanto il materiale esibito si rassomiglia. Anche le piattaforme abusive che rilasciano materiale coperto da copyright (americane, russe, indiane) sono l’una la copia dell’altra; stessa organizzazione interna, eguale mascheratura web; persino alcuni file sono gli stessi, coi medesimi difetti e manchevolezze. Tutti si ricorderanno le stecche di contrabbando in concorrenza con le sigarette del monopolio, anch’esse provvedute, giù per li rami delle violazioni doganali, dalle multinazionali del tabacco; l’importante era tenere vivo il consumo, col facile allettamento del risparmio; lo Stato, grattandosi le trippe, tollerava; e incassava; fingendo di reprimere spalloni e ricettatori col mostrare, ogni tanto, le schiumose scie delle gendarmerie marittime in azione.

Friedrich Nietzsche parla dell’Ultimo Uomo immaginando il Super Uomo. Un secolo dopo il Super Uomo tanto agognato si rivela quale caricatura dell’Ultimo Uomo. Storto, credulone, s-passionato, ridicolo. Oltre la linea non c’è nulla.

Tutti sono ormai persuasi che categorie come Bellezza e Spiritualità non siano che vaghi concetti inafferrabili. E invece sono simboli prodotti dal precipitato dei millenni. L’Uomo si stacca infine dalla Natura, per sopravvivere; crea leggi, comunità, etiche; questo di più lo chiama essenza spirituale, Apollo. Ora l’Uomo è altro dalla Natura di cui, però, rimpiange l’Unità del volversi eterno di cui prima faceva parte. Un tramonto caldo su un cielo di lapislazzuli, una cascata vorticosa, l’accumularsi rapidissimo delle nubi e la pioggia … tutto questo spettacolo sovrastante e mirabile, di cui ora può dirsi spettatore e, a volte, dominatore, strazia il suo cuore con nostalgia indefinibile. Al rimpianto della perduta unità egli dà il nome di Dioniso. Tali polarità, rettamente e sacralmente configurate, costituiscono la sua essenza. L’istituzione apollinea, qualunque istituzione, è in continua tensione con il proprio specchio dissolvitore; Apollo e Dioniso armano il duello, nel tempo; civiltà ed epoche si susseguono, vittime o scampate a tale scontro ineliminabile. Apollo subisce la tentazione dell’Indifferenziato dionisiaco, ma deve vincere. Un suo tentennamento significa rovina così come rovinò il regno di Penteo. Al contempo, nello scontro, Egli si arricchisce, diventa Altro, supera il rischio della Forma fine a sé stessa; le cicatrici più profonde, se sanate, sono le maggiori conquiste.

Appare altrettanto inevitabile che ad Apollo e Dioniso si leghino il tragico e il comico. Tre tragedie e una commedia satiresca, questa la combinazione fatale nel teatro greco. Dioniso mostra la finitezza dell’Uomo, ora consapevole e cosciente, perduto nell’immane spettacolo della Natura; al contempo ride di tale suo smarrimento in un empito selvaggio di redenzione. Apollo offre la salvezza nelle forme della civiltà: la città, la guerra, la legge.

La de-istituzione, intesa come rinuncia all’istituzione ormai avvertita come repressiva, a ogni livello, è l’ideologia unica dell’ultimo mezzo secolo. Prigione, manicomio, caserma, matrimonio, chiesa: ogni parvenza istituzionale è sotto attacco. La libertà da tutto è, però, la schiavitù senza ritorno.

Due delle maggiori colonne dell’Illuminismo Nero mostrano crepe vistosissime dacché prossime al crollo: la longevità e l’assalto al cielo. Sorella Morte è sempre lì, invitta, e, anzi, passa al contrattacco; i vecchi muoiono, e muoiono male, senza conforti, prosciugati da morbi fulminei o da strazianti infezioni; assillati dalla demenza e dalla solitudine, presso corridoi e stanzette d’ospedale in cui consumano il finis vitae privi di coscienza. Le generazioni più giovani, falcidiate da cibo spazzatura e intrugli farmaceutici, creperanno peggio, sprovviste pure del welfare minimo per garantirsi la decenza. E poi le colonie su Marte, su Giove, su Saturno, il balzo nell’iperspazio, l’incontro coi Klingon e i Romulani … sembrava a portata di mano il collegamento Roma-Mare della Tranquillità … entro il 2000, numero fatidico … e invece l’Uomo Liberato e Scientifico batte la testa sul soffitto della propria stanzetta, sempre più angusta. Di tante magnifiche sorti, e progressive, residua l’immagine del premier indiano che agita stancamente una bandierina mentre Chandrayan-3 molesta la regolite del nostro satellite. Un mese e mezzo per far atterrare un modellino da Godzilla a scattare immagini da Polaroid in gita. Il proietto di Jules Verne del 1865 (De la Terre à la Lune, trajet direct en 97 heures 20 minutes) ci illuse diversamente.

Al TG3 delle 19.00 la giornalista donna rimanda la linea a una collega giornalista che intervista una docente donna sul femminicidio; la palla torna, quindi, alla conduttrice che, stoppatala elegantemente, crossa per un’inviata, abile a snidare una docente che ci intrattiene sulla tossica e meschina mascolinità degli stupratori maschi; ritorno alla base e reportage d’una giornalista con intervista alla comandante dei CC di Pizzighettone di Sotto ove è avvenuto, l’altrieri, l’ennesimo stupro o femminicidio. Dal fondo dello studio, intanto, occhieggiano gli occhi a palla della Meloni e la dentatura della Schlein; servizio sull’Ucraina ove una ragazza c’intrattiene sulla follia della guerra patriarcale; segue un servizio servizievole, poi interviene una prefetta, indi la signorina che tiene il banco – timbro monotono-squillante capace di far cedere il grugno più duro di Guantanamo – ritiene indispensabile deviare il fil rouge verso le ciance di Nadia Urbinati (Rimini, 1955-vivente), “politologa e giornalista italiana naturalizzata statunitense”: della quale nulla ho inteso se non che l’ha detto con labbra di disprezzo; seguono la direttrice artistico-museale di non so cosa e il nuovo disco di non so chi. Sermoncino finale che rimanda a una coinvolgente rubrica interna contro la discriminazione femminile nel mondo del lavoro.

Una magistrata di Rovereto, di cui un’intervista a Radio Radicale ci rammenta la tenace difesa delle api, parla di un omicida descrivendone il fisico statuario e la passata attività criminale, poco rilevante; il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida (1972-vivente), cicala, invece, attorno alla superiorità delle libagioni dei poveri italiani rispetto a quelle dei ricchi. Ritualizzazione del disprezzo.

La propaganda è tale perché non impone. Essa crea esclusivamente le condizioni; per tale motivo spesso non la si avverte. Come per il tempo meteorologico. Si crede che piova perché le nubi si spostano da Salisburgo a Rovereto sin a Guastalla; e invece a mutare sono le condizioni fisiche dei luoghi, che, perciò, creano le nubi temporalesche. Se creo una Stimmung precisa, una sensazione diffusa che, pian piano, si fa merce comune, ecco che ognuno, contro ogni tradizione e uso, persino contro la propria volontà, accetterà quasi naturalmente ciò che poco tempo prima era inaccettabile. Da qualche tempo, a esempio, i siti pornografici sono allagati da atti sessuali tra fratellastri e sorellatre, patrigni e matrigne: al limite dell’incesto, ovvio. Intanto, però, il veleno dilaga, soprattutto fra i fruitori giovani. Quando si oserà proporre l’improponibile questo sembrerà quasi naturale al micco: in fondo che male c’è?

Anche il turismo di massa opera in tal modo. Se fai arrivare milioni di grassi cialtroni con ansie da fast food, è inevitabile che le tue città d’arte si affollino di fast food e bisunte creperie. Napoli, Roma, Palermo si muteranno, quindi, in struscio per sfaccendati coglioni globalisti che, ovviamente, mai comprenderanno Verona e il balcone di Giulietta, affrettandosi, invece, presso i rivenduglioli internazionalisti come Zara et affini. Che Roma rassomigli sempre più a Dubai è un preciso compito luciferino; di questo passo il Colosseo e San Pietro diverranno impacci per il footing.

Il fruttarolo tunisino sotto casa compie 39 anni: stasera festeggio, mi dice, samba! O divengono edonisti o impazziscono. I loro figli già tradiscono, rincoglioniti come tutti i coetanei. Ricordo distintamente i desideri dei primissimi migranti polacchi e russi post-89: la televisione e la macchina, la macchina e la televisione. Le prime le sognavano rombanti e kitsch, come le BMW degli usurai della Magliana. E la televisione? Rumorosa, rutilante, a cento pollici: non vedo l’ora di comprarmela … nei monolocali che affittavano si rinvenivano spesso questi aggeggi abnormi, mostruosi, che, poi, nei traslochi, si trascinavano faticosamente dietro. Solo qualche Romeno, forse per retaggio dell’antica Dacia, sembrava avvertire qualcosa di sbagliato nell’aria post ’89: l’ululo di corni, lo sfacelo.

Una volta mio padre invitò a pranzo un suo collega di lavoro. Si era nei Settanta, ero un bimbetto. Questo signore, celibe, solido e rotondo, aveva fama di buongustaio. Ne ricordo la capigliatura scura, folta e ordinata, coi capelli ravviati meticolosamente a mo’ di lorica catafratta; e i baffi, altrettanto inoppugnabili. Mi fecero una grande impressione. A tavola, mentre la moglie dell’autore dei miei giorni spignattava apprensiva, egli prese a esaminare tovaglia e tovagliolo, il piatto e anche il bicchiere, cui lisciò l’orlo con le dita. Con garbo e quasi distrattamente, mentre conversava del più e del meno, ma, in realtà, lo scoprimmo dopo, valutando ogni oggetto in relazione alle portate incipienti. Quando soppesò la forchetta facendola ballare leggermente nella mano carnosa fu tradito da una breve smorfia. Mio padre gli chiese cosa non andava; egli rispose: “È troppo leggera. Con le posate leggere si mangia male”. Negli scomparti del saloncino si rinvenne finalmente un servizio d’argento mezzo spaiato, ma bastevole alla bisogna: il Nostro apprezzò l’upgrade. In famiglia l’aneddoto divenne proverbiale; questi immigrati della Tuscia, però, ombrosi, tirati e faciloni, mai colsero la profonda verità di quella richiesta. Con le posate leggere, ovvero: da poco, si mangia male; con quelle di plastica malissimo, con quelle riciclate ancor peggio, pastone da somari al più: la poca cura negli utensili quotidiani è riflesso non solo dello scadere di qualità del cibo, ma di tutta la felicità che, attorno ai riti del mangiare, gli Italiani organizzavano per tradizione: convivialità, certo, ma anche forza e compostezza dell’unione familiare. La merda attrae la merda, anzi: la evoca. La noncuranza per la forma, anche qui spacciata per efficienza casual (“Ci mangiamo una cosa al volo!”), ha via via annientato ogni gioia e sapore aprendo la via alla colonizzazione nichilista anche in questo campo; la progressiva scomparsa di alcuni tipi di frutta, a esempio (ciliegie e fichi), una volta abbondanti, apparecchia inevitabile l’insapore omogeneità delle future razioni da cubicolo.

In tale minuscolo episodio è contenuto il segreto che gli uomini sempre attribuirono ai materiali nobili, amorevolmente lavorati: ferro, oro, argento, marmi e legni odorosi. La preziosità si tramuta in durata, mimesi dell’eternità; e la durata simbolizza l’importanza che si dà al rito. Il nitore di una tovaglia esalta il pasto, una cucitura ben eseguita ci fa apprezzare meglio Joseph Conrad, una pisside d’oro la rivelazione del corpo del dio cristiano.

Sarà Jean Raspail ne Il Campo dei santi, a illustrare vividamente questa attitudine occidentale. Il professore Calgués, che simbolizza l’Antico Ordine vicino a esser travolto da una migrazione di massa, si dispone al pasto, ricordando un vecchio amore: “Pane di segale a fette larghe e sottili, prosciutto affumicato della vicina montagna, formaggio stagionato fatto con il latte di capre del villaggio, olive di coltivazioni a terrazza, albicocche dell’orto disseccate al sole e vino leggermente asprigno, prodotto con le uve dei pendii rocciosi. C’era ancora tutto nella casa, a portata di mano: il pane della madia sul cui coperchio era incisa una croce, le olive in un grande vaso di terracotta, il prosciutto appeso alle travi della cucina, i vini e i formaggi al fresco, sotto la scala esterna, sistemati come libri su oscuri scaffali … Il tappo della bottiglia resistette un attimo, ma lo scoppio familiare che fece cedendo all’improvviso riempì tutta la stanza di un’allegria sensuale … Si versò un bel bicchiere per dissetarsi e un altro per il piacere di gustarlo, cosciente del superfluo e leccandosi i baffi con un po’ di ostentazione. Tagliò il prosciutto a fette sottili, che dispose accuratamente su di un piatto di peltro, sistemò qualche oliva, pose il formaggio su una foglia di vite e la frutta in un ampio canestro piatto, poi si sedette davanti alla sua cena e sorrise, contento … Il professore dispose sul tavolo quattro bicchieri e spostò la lampada per illuminarli meglio: scintillavano. Più discosto, una cassapanca contadina enorme, massiccia, inamovibile: quattro secoli di certezza ereditaria … Quella cassapanca conteneva una gran quantità di biancheria ripiegata, tovaglioli, asciugamani, lenzuola, federe, strofinacci, lino inutilizzabile, filati di altri tempi, tutto così spesso e ben pressato per occultare altri tesori domestici profumati di lavanda, tanto che il professore non ricordava di aver mai toccato gli strati di biancheria più interni. Ve li avevano disposti sua madre o sua nonna, tanto tanto tempo addietro. Esse ne avevano prelevato, per donarla ai poveri, solo la biancheria consunta che, accuratamente rattoppata, poteva ancora servire. Care donne dal buon cuore così prudente!”.

La più memorabile coppia di mignotte del cinema italiano: Elsa Martinelli (1935-2017) e Antonella Lualdi (1931-2023) ne La notte brava di Mauro Bolognini (1959). Anna e Supplizia. Antonella Lualdi, un’Artemide scesa dal plinto d’un tempio agrigentino; Elsa Martinelli, che il regista acconcia col casco alla maschietta (the bob), memore di Louise Brooks nei film di Georg Wilhelm Pabst, Lulu (Die Büchse der Pandora, 1928) e Diario di una donna perduta (Das Tagebuch einer Verlorenen, 1929): entrambi duramente censurati: dai democratici crucchi e dai fascisti nostri, prima; dai nazionalsocialisti, poi. Bolognini, che ripeterà figurativamente il tipo brooksiano in Senilità (1963), adattandolo a Claudia Cardinale, fu sempre spregiativamente considerato dalla critica di sinistra ai limiti del vacuo formalismo. Ovviamente i compagni sbagliavano. Ne La notte brava il regista riesce a trasfigurare il racconto di Pasolini in qualcosa d’altro, una sorta di realismo magico in cui l’afflato proletario, quasi sempre immaginario nello scrittore bolognese, si risolve in una presenza attoriale forte, ma non divistica, oggi nemmeno lontanamente realizzabile. I personaggi vanno movendosi su una scena che non lascia scampo, entro la città sbrecciata e magnifica: l’orchestra registica ne ordina implacabilmente gli andirivieni. L’eccezionale cast femminile annovera anche Anna Maria Ferrero, Mylène Demongeot, Rosanna Schiaffino; le controparti: Brialy, Terzieff, Interlenghi, uno straordinario Milian, vischioso tentatore.

Le pietre di viale di Porta Ardeatina, dove Scintillone e Ruggeretto rimorchiano Anna e Supplizia, per recarle controvoglia lungo un prato stecchito del suburbio, assumono, a distanza di più di sessant’anni, un’aura sacrale. Qui tutto irradia ancora bellezza, dalle erbacce alle rovine, si respira ancora l’Italia.
Il denaro è il sangue del povero, dirà Léon Bloy; e il povero qui lo spreca in una notte brava; le ultime mille lire Ruggeretto, infatti, le lascerà cadere da un ponte, con noncuranza, a frullare lente nell’aria del mattino come una farfalla ferita. Giusto: solo a tal prezzo egli sa di poter conservare l’anima.

In Lulu a Hollywood (Lulu in Hollywood, 1982), Louise Brooks ricorda le perversioni a cielo aperto di Berlino, nel 1928, in cui dilagava la pornografia. Persino il suo mentore Pabst, innamorato di lei, ne era ghiotto collezionista. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Adolf Hitler riassume nella sua vittoria politica e metafisica non solo il revanscismo per le umiliazioni del 1918, ma lo spirito germanico stesso, l’ansia per Pallida Madre che i Tedeschi sentono in disfacimento. Eppure sarà lo stesso Hitler a recarla a una sconfitta rovinosa nei riguardi di quel Nemico cui ancora soggiace. Qui è l’enigma del nazionalsocialismo, agente inconsapevole della Dissoluzione.

Una gazzetta qualunque: “Salario minimo, perché la Meloni dà la regia a Brunetta. Il CNEL contrario e la pensa come lei. Al via la raccolta firme delle opposizioni”. A onta dell’Italiano pericolante, è facile la traduzione: “Meloni, Brunetta, CNEL e opposizioni tutte parteciperanno al convegno ‘Spritz’ sabato pv alle ore 18.00 presso la buvette del Senato. Presiede i lavori il professor Canuto Ottimo Massimo, ordinario di Cannoleria Costituzionale e Aria Condizionata presso la Weight Watcher’s University di Armentario di Sopra”.

I turisti trovano la Gioconda troppo piccola, il balcone di Giulietta deludente, il Foro un mucchio di sassi. I turisti sono, appunto, turisti. Se ne stiano a casa. L’Italia è l’unico paese ad aver prodotto cultura ininterrottamente per tre millenni. Depredata, saccheggiata, invasa, bombardata. La grandezza, a volte, risiede integralmente nell’assenza, che solo chi è qui nato, e vanta una particolare sensibilità, potrà ancora avvertire.
Anche nel film di Rondi possiamo ammirare la bellezza inesauribile dell’Italia. La chiesa di Matera; le mura scialbate, un dirupo, i cespugli, il torrentello, una grotta, i volti bruniti, gl’interni delle casipole in pietra: gli individui e le cose emanano una propria nobiltà d’essere. E ciò non accade a caso: ci vollero migliaia d’anni di combinazioni, carestie, amore e morte per distillarne l’essenza. Eccola sotto i nostri occhi. E nessuno può ragionevolmente pensare di giudicare questa configurazione sacra o di ricercarvi il giusto o l’errore: “Il suo sguardo si posava su ogni oggetto – e ogni incontro era un nuovo atto d’amore. Talvolta, lacrime gli sgorgavano dagli occhi: lacrime di gioia. Tutto, in quella casa, rivelava la dignità di coloro che l’avevano abitata, la misura, la saggezza prudente, la modestia discreta, il gusto delle tradizioni consolidate che gli uomini sanno trasmettersi, se non hanno smesso di rispettarsi”.

Di Alceste

Fonte: https://alcesteilblog.blogspot.com/2023/09/hysteria.html#more

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