La giornata di lotta contro la guerra del prossimo 21 ottobre, nella quale sono previste le manifestazioni a Pisa e in Sicilia inserite all’interno del percorso “Fermare l’escalation”, presenta notevoli elementi di interesse. Ritrovare le fila di un sentire comune contro la guerra a partire dall’impatto che questa ha nei nostri territori, in particolare in quelli che si stanno trasformando in veri e propri hub militari, è un’intuizione corretta, che parte da necessità materiali. Ed è proprio questo tipo di concretezza che ha permesso di sviluppare un discorso in grado di coniugare il tema della guerra con il tessuto vivo di rivendicazioni e contraddizioni che riguardano la giustizia sociale, ambientale, di genere, razziale, sui luoghi di lavoro e nei contesti formativi.
In secondo luogo intravediamo in questa data delle potenzialità che rispondono a un’altra esigenza materiale: quella di mettere a disposizione percorsi di lotta all’interno di una cornice che dia continuità a un’iniziativa politica autonoma complessiva. Un’esigenza che veniva messa in chiaro già durante l’assemblea verso le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 dello scorso Venice Climate Camp, che ha bisogno di sostanziarsi tanto nella discussione quanto nella mobilitazione. Nella fase che stiamo vivendo, qualsiasi percorso di movimento che ambisce a creare spazi politici di possibilità credibili e duraturi non può prescindere da una visione di mondo che non solo si opponga alla guerra, ma ne decostruisca la funzione nell’attuale riassetto del capitalismo.
Per questa ragione, e per meglio definire gli aspetti che a nostro avviso devono essere alla base di un percorso che non si fermi solo alle manifestazioni del 21 ottobre, riteniamo utile soffermarci su alcune questioni.
Che la guerra sia condizione permanente della costituzione – incompiuta – di un nuovo ordine mondiale post Guerra Fredda è ormai cosa nota. Sono centinaia i conflitti armati che hanno costellato il globo dopo il 1989, e continuano a farlo, la maggior parte dei quali collegati all’estrattivismo, all’aumento dei nazionalismi e dei fondamentalismi, alla crisi di sovranità degli Stati nazione.
Sarebbe però riduttivo leggere la guerra in Ucraina come “una tra le tante”, e non solo perché è la prima guerra che si affaccia nel cuore dell’Europa dopo molti anni. Ciò che sta accadendo in Ucraina non è un affare regionale, e probabilmente non è neppure una guerra dove si scontrano solo gli interessi russi con quelli occidentali, l’autocrazia putiniana con le democrazie liberali.
Questo conflitto rappresenta probabilmente il punto di rottura di un processo di medio e lungo periodo nel quale si sta ridefinendo completamente il rapporto tra capitale, lavoro e natura e in cui la guerra gioca appunto un ruolo fondativo. Ed è per questo che rappresenta uno spartiacque verso un nuovo capitolo della storia, in cui crisi climatica, recessione, pandemia si combinano con il crollo definitivo delle categorie politiche che ereditiamo dai due secoli precedenti.
In quest’ottica lo slogan “contro Putin, contro la Nato”, che ha da sempre accompagnato le nostre iniziative in questo anno e mezzo, va interpretato non in termini di equidistanza dalle parti in causa, ma come la condizione necessaria per poter anche solo immaginare una società che si liberi dalla guerra e dai processi che la determinano. Compito dei movimenti non è eludere le parti in causa, ma osteggiarle e combatterle apertamente, e con esse la visione imperiale di cui sono portatrici, che sia unilaterale o multipolare poco importa.
Abbiamo visto come la guerra in corso ha polarizzato anche il dibattito all’interno dei movimenti e in generale in tutto il confuso mondo della cosiddetta “sinistra”, depotenziando non solo la capacità di mobilitazione, ma anche l’approccio culturale in questa fase storica così complessa. Se non rompiamo questa inerzia il rischio concreto è quello di rimanere impantanati nell’inconsistenza e – ancora peggio – nella rassegnazione stagnante.
La posta in gioco per riprendere una battaglia complessiva contro la guerra è innanzitutto quella di superare il dibattito che si è dato in questo anno e mezzo. Da un lato l’atteggiamento, figlio di una logica antimperialista d’antan, per il quale qualsiasi cosa venga visto in qualche modo in contrapposizione all’egemonia statunitense va sempre e comunque bene. Atteggiamento che, oltre ad essere foriero di una visione del mondo intrinsecamente reazionaria, rischia di capovolgere completamente il senso di una lotta anti-capitalista trasformandola nel tifo sfrenato verso un mondo trainato dai BRICS o da improbabili outsider come Turchia o addirittura Arabia Saudita. Il problema consiste nel come attrezzarsi per combattere il “multilateralismo centrifugo” e la nuova distribuzione di potere che questo comporta, all’interno di una tendenza che vede profilarsi una nuova Guerra Fredda i cui poli sono gli Stati Uniti e la Cina.
E lo stesso discorso vale per l’altro tipo di narrazione, solo all’apparenza diametralmente opposta, per la quale in Ucraina si gioca lo scontro tra difesa di una tradizione democratica “occidentale”, per quanto compromessa, e i regimi autocratici; e sulla base di questo scontro costruire le premesse di una “Europa che verrà”. Narrazione che non tiene conto di almeno due fattori: il primo è che da tempo lo stesso Zelensky non parla più di “resistenza”, ma di “riconquista” con il chiaro obiettivo di tornare ai confini precedenti alla crisi di Crimea del 2014; il secondo è il ruolo che sta assumendo l’Ucraina nella configurazione globale, tassello fondamentale di nuovo espansionismo atlantico che guarda con sempre più convinzione all’Asia (non a caso la “Nato asiatica” è stato la discussione sottotraccia dell’ultimo vertice dell’Alleanza Atlantica tenutosi a Vilnius).
E se oggi la geopolitica costituisce come non mai l’architrave di una ricollocazione dell’azione capitalista nello spazio globale, abbiamo il dovere di sottrarci da questo risiko d’accatto e riconfigurare la lotta contro la guerra in termini realmente intersezionali. Siamo consci che lo spazio in cui questo conflitto può determinarsi non può che essere quello globale, ma avere chiari questi aspetti è necessario anche per impostare una battaglia contro le strategie dei singoli governi che sono attori diretti di una guerra che – come dicevamo – va ben oltre lo spazio geografico nel quale ad ora viene combattuta.
Il caso italiano è emblematico, perché non solo il governo Meloni ha aumentato a dismisura le spese militari e l’invio di armi all’Ucraina, ma sta normalizzando la stessa cultura della guerra nel dibattito pubblico. Una guerra ad alta e bassa intensità, che si esplicita nel costante aumento della pressione militare e poliziesca negli spazi urbani, nella gestione criminale delle frontiere, nella scelta di campo fatta nei confronti del capitalismo fossile, che proprio grazie alla continua escalation bellica riesce a rafforzarsi.
Con questo spirito e con queste premesse saremo a Pisa il 21 ottobre, consapevoli che giornate come questa possano essere un tassello importante per riaprire percorsi che ci proiettino oltre le tifoserie e oltre un’idea di pacifismo intesa come assenza assoluta di conflitti. Questo è ancora più necessario dopo che il tavolo ministeriale ha dato l’approvazione al progetto di caserma diffusa a Coltano, che svela in modo palese quanto gli interessi economici e politici che ruotano attorno alla guerra sovrastino qualsiasi volontà collettiva espressa da un territorio.
Il tema della democrazia, del “chi decide” sulle scelte che determinano talvolta per sempre il destino dei territori è comune a molte lotte. In tal senso il caso di Coltano è simile a quello delle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 e a molte altre battaglie che costellano il panorama nazionale, e non solo. Essere contro la guerra significa quindi anche ritessere i legami tra queste battaglie, tornando realmente a immaginare insieme un altro mondo possibile.
Per maggiori informazioni sulla manifestazione e sul percorso visita il sito fermarelescalation.org.