Pantera, magia e rivoluzione nel vecchio west di Valerio Evangelisti /2

di Fabio Ciabatti

Avevamo lasciato, nella precedente puntata, Pantera che accettava, anche se dubbioso, l’aiuto dei poteri mesmerici Rosenthal e di quelli magici dell’indiano Vecchia Pipa. Proseguiamo il nostro percorso osservando che, nei due casi appena citati, Pantera sta utilizzando il Nganga, anche detto il Santo, strumento rituale composto da parti di corpo di una persona morta da poco, terra, sperma, sangue animale, erbe di varie specie, il tutto bollito in un pentolone. Si tratta di momenti decisivi nelle vicende narrate. Momenti in cui Pantera riesce ad accedere, con l’aiuto degli spiriti evocati  attraverso il Nganga, a una verità che prima gli risultava celata. In Metallo urlante scopre in questo modo una realtà che è l’opposto di quella che immediatamente appare. I dieci minacciosi e giganteschi cavalieri, che da subito Pantera ha identificato come kyumba, spiriti dei morti, in realtà “vogliono giustizia” perché sono stati uccisi orrendamente, attraverso la tortura che prevede il cospargimento del corpo con pece e piume.
In breve, tutto nasce da uno scontro tra Burton, padre padrone della città in quanto il più importante allevatore della zona, e suo figlio che aveva deciso di sposare la giovane Cindy, nonostante la sua dubbia reputazione. Il padre finisce per uccidere il figlio. Dieci cowboy amici di quest’ultimo cercano di ribellarsi a Burton ma vengono catturati. Furioso per l’accaduto lo stesso Burton ordina il loro supplizio e istiga tutti i bravi cittadini di Tucumcari a violentare a turno Cindy durante l’agonia dei dieci sfortunati. I veri mostri, dunque, non sono i dieci Cowboys from Hell! C’è una sorta di violenza originaria che cementa il patto sociale di Tucumcari e un’omertà collettiva che lo circonda. Una violenza che prosegue con i ripetuti abusi sessuali nei confronti di Cindy. La ragazza, apparentemente la più ingenua e indifesa delle creature, è colei che evoca gli spiriti dei dieci cowboy. Pantera era stato assoldato da Burt per “riportare la tranquillità” in un microcosmo messo in pericolo da una minaccia terrificante e apparentemente aliena. Ma, come già accennato, è il mondo ordinario a produrre mostri, perché intriso di violenza e sopraffazione. Il nostro eroe dunque non ristabilisce un ordine violato, ma strappa il velo di ipocrisia che nasconde l’ordinaria violazione di ogni umana giustizia. Per questo Pantera si troverà a combattere contro coloro che l’hanno assoldato nel mentre cerca di placare i dieci kyumba la cui sete di giustizia rischia di trasformarsi in  una indiscriminata furia di vendetta.   

Una simile dinamica la vediamo anche in Black flag. Pantera, sempre con l’aiuto del suo Nganga, riesce a comprendere  o, più precisamente, a vedere una realtà  su cui aveva avuto già numerosi indizi, senza riuscire a metterla definitivamente a fuoco. Ciò che riesce a vedere con chiarezza è la vera natura dei suoi nemici, quelli che l’avevano assoldato per uccidere l’uomo lupo, ma che poi avevano cercato di farlo fuori. 

Non erano esseri umani: erano lupi. Lupi diversi dalla sua guida però. Più famelici che affamati, più crudeli che selvaggi, più violenti che forti. Odiavano tutti, si odiavano tra loro, ma soprattutto odiavano lui, che pure apparteneva alla stessa specie, e la sua diversità […] pregustavano il momento in cui avrebbero soppresso l’anomalia, il lupo di branco. Feroce quanto loro, ma non sempre e non comunque.1

Dopo il combattimento finale Pantera decide di seguire nuovamente il suo vecchio comandante Juan Nepomuceno Cortina per andare in Messico e unirsi alla causa di Benito Juarez. Ha accettato finalmente la sua natura di lupo di branco e ha compreso che la battaglia appena affrontata è solo un episodio di una lunga guerra.

La lotta, in questo Paese, continuerà anche senza di noi. Lupi di branco contro lupi solitari. Se avranno la meglio i secondi, l’America sarà l’inferno, e prima o poi il mondo intero. La loro frontiera si sposta -. Ghigno tra sé – Bellegarrigue lo avrebbe però chiamato paradiso. Anzi paradice -. Imitò l’accento del francese.2

E in effetti quella frontiera nel 1989 si è spostata fino a Panama, bombardata dagli Stati Uniti che, nel paese centroamericano, stanno portando avanti un esperimento finalizzato alla creazione di un gruppo di soldati-mostro, utilizzando persone affette da una rara malattia genetica, la porfiria, e trattate con sali d’oro, come faceva Bellegarrigue con Kroger: il commando Gray Wolves. Lupi grigi come quelli solitari che il bianco lupo di branco Pantera aveva combattuto. Siamo nel mezzo di una guerra spietata che fa strage dei civili conferendo tono profetico alle parole di uno dei bushwackers:

noi portiamo la guerra dove gli eserciti non arrivano. Nei villaggi, nelle fattorie, nelle case, tra i civili codardi. Siamo noi il sale di questa lotta. Ho idea che tutte le guerre future somiglieranno alla nostra.3

La “loro frontiera”, nell’anno 3000, ha inglobato l’intero mondo, piagato da una sovrappopolazione di 300 miliardi di persone. In questo lontano futuro sorge un’unica megalopoli che unisce le vecchie città di New York, Los Angeles, Washington. Un mostruoso agglomerato urbano chiamato, appunto, Paradice (alla francese). Siamo in un un futuro distopico caratterizzato da una sorta di anomia ferocemente carnevalesca, in cui vige il più classico homo homini lupus, la guerra di tutti contro tutti. Un mondo in cui l’unica cosa che distingue le persone è la diversa psicosi da cui sono affette: esistono solo i Fobici, gli Isterici, gli Ossesso, gli Autistici, gli Schizo. Tra questi ultimi c’è la protagonista della storia ambientata nel futuro, Lilith (che, a proposito di One big novel, ritroveremo insieme a Eymerich in Rex tremendae maiestatis). Si tratta di una giovane donna astuta e forte come nessun altro, una belva piena di rabbia di cui non riesce a comprendere il motivo, una persona incapace di concepire alcun contatto umano diverso dalla violenza, dal dolore e dalla morte. Il perfetto prototipo della nuova umanità vagheggiata da Bellegarrigue.
Da questi brevi accenni capiamo che l’happy end delle avventure di Pantera in Black flag è solo apparente. Si tratta semmai di una narrazione implicitamente ucronica perché racconta una possibile biforcazione del tempo, quella che si sarebbe verificata qualora i lupi di branco avessero proseguito vittoriosamente la loro guerra contro i lupi solitari. Ma la storia, quella vera, ha imboccato un’altra via. Il bombardamento di Panama ci mostra che la guerra la stanno vincendo i lupi solitari e Paradice ci porta fino all’estrema catastrofe cui è destinato il mondo in assenza di uno scarto epocale nelle vicende umane.4

Torniamo ora a Pantera per notare un’interessante caratteristica della sua “visione” ottenuta con l’aiuto del Nganga. Il messicano, quando si rende conto che sta iniziando a percepire una realtà differente da quella ordinaria, teme di perdere la coscienza, ma la sua paura si rivela infondata.

Rimase lucido, ma tutto si colorò di bianco, salvo le sfumature di grigio e di nero che disegnavano ambienti, oggetti e persone. Era una candore che non aveva nulla di naturale […] Accecava, ma dava rilievo alle cose, incluse quelle che prima non riusciva a percepire.5

Cosa potrà mai essere una luce che acceca ma al contempo dà rilievo alle cose? Sembra una contraddizione in termini simile a quella che caratterizza un’espressione, “veglia sognante”, utilizzata da Evangelisti per spiegare il grande potere seduttivo esercitato dai maestri della narrativa popolare, capaci di far acquistare l’evidenza di cose reali a figure immaginarie.6 Assomiglia al paradosso espresso dall’alchimista Rupescissa, il nemico di turno di Eymerich in Cherudek, quando sostiene che si può, anche se con difficoltà, guidare “l’anima, la psyche, in un viaggio lucido nel mondo spirituale con cui siamo a contatto, osservando con consapevolezza ciò che di solito percepiamo solo confusamente in sogno.”7

Quest’ultima osservazione ci introduce a un altro ordine di questioni. Che rapporto c’è tra il più famoso personaggio di Evangelisti, l’inquisitore-condottiero Eymerich, e lo stregone-pistolero Pantera? In primo luogo c’è un rapporto di opposizione: quello tra il cosmo ordinato, secondo le leggi stabilite da Dio, difeso dall’inquisitore, e la visione del mondo sostenuta dal messicano “fatta di caos e di scontri”. Gli stregoni, come nota Franco Pezzini, sono i nemici per eccellenza di Eymerich, in quanto evocano poteri oscuri, demoniaci, cercando di introdurre il disordine estremo nel mondo. Il compito dell’inquisitore non è soltanto quello di riportare un ordine pratico, ma anche quello di ristabilire un assetto metafisico. Gli stregoni, dal canto loro, sono espressione di mondi sconfitti che i subalterni chiamano in loro aiuto per opporsi ai poteri dominanti. Sarebbe però errato, sostiene Pezzini, considerare questi nemici dell’oscurantista Eymerich come portatori tout court di istanze libertarie, sia perché i loro profili sono estremamente differenziati sia perché l’eruzione del caos (che l’inquisitore combatte) è talora funzionale all’affermarsi di idee francamente reazionarie.8
I nemici di Eymerich, come già scritto altrove, sono spesso personaggi intriganti, nel duplice senso di affascinanti e dediti a intrighi che si svolgono al di sopra degli inconsapevoli oppressi. Anche per questo l’immaginario alternativo che nasce delle eresie è popolato da innumerevoli creature inquietanti e, in fin dei conti, ha alcuni tratti tutt’altro che rassicuranti benché in esso si trovino sogni e pulsioni di libertà, frammenti preziosi e magmatici di possibili mondi alternativi potenzialmente in grado di creare un tessuto comune per le soggettività oppresse e sfruttate. L’immaginario alternativo rimane sospeso tra sogno e incubo.

Come stanno le cose nel caso dello stregone Pantera? C’è senz’altro un aspetto demoniaco nella sua religione. Quando gli chiedono in che dio crede, egli risponde: “Io in Sambia, e più ancora in Kadiempembe, che voi chiamate il diavolo”.9 Il suo mondo spirituale non rifiuta la violenza ed è questa caratteristica che, tra l’altro, consente a Pantera la doppia vita di uomo di religione e di pistolero. Il suo è inoltre un credo che oppone all’astrattezza dei principi cristiani la concretezza della natura.

Quando era stato iniziato al Palo Mayombe, la religione cristiana in cui era stato sommariamente educato dai parenti era svanita in un attimo. D’improvviso tante cose gli erano apparse più chiare. Perché la pioggia, perché la sete, perché la luce. Perché tutte le cose hanno un’anima. Risposte molto più concrete di quelle fornite dalla religione dei bianchi, che non rispondeva a nulla. Non c’era palero che, venerando san Pietro, non rendesse in realtà omaggio al grande Zarabanda, nume ben più visibile e potente. Perché mai gli uomini avrebbero dovuto piegarsi a principi astratti, incapaci di dominare la natura? Cos’altro esisteva, se non la natura? Pian piano, aveva compreso la vacuità della sua vita di pistolero. Per i cristiani, uccidere poteva essere un peccato orrendo o una dura necessità; ma c’era sempre una qualche necessità ineludibile da invocare. Per un palero, invece, solo certi uomini potevano essere uccisi. Quelli che stonavano con l’armonia dei cicli naturali, che impedivano al prossimo di abbandonarvisi. Non era peccato liberare l’esistente da un intralcio. Era peccato turbarne la regolarità.10

Come già accennato, il politeismo del Palo Mayombe lo rende estraneo alla potenziale intolleranza insita nel monoteismo. Per Pantera la differenza tra le diverse religioni è di natura essenzialmente pratica: “Non c’è una religione vera e una falsa. Tutte sono vere. Però non tutte aiutano quando se ne ha bisogno”.11 Ciò non toglie che il messicano sia consapevole dell’ipocrisia che accompagna spesso la religione dominante. Di fronte alla prostituta Molly che si lamenta di essere rifiutata dai preti perché vive nel peccato, Pantera osserva: “Sono loro che vivono nel peccato. Odiano le cose naturali, e passano il tempo a sporcarle per poterle poi condannare. Il palo non è così”.12
La religione di Pantera, sebbene attinga a credenze ancestrali africane, nasce nella seconda metà dell’Ottocento a Cuba e ha natura sincretica. Il fatto che venga continuamente assimilata a stregoneria e magia è un destino comune alle religioni precolombiane, soppiantate dal cristianesimo dei conquistatori europei ma mai sradicate dalle credenze dei colonizzati. Queste rimanenze, in realtà molto diffuse, vengono spesso assimilate al culto di demoni e forze oscure presenti nel pantheon cristiano. Una simile dinamica avviene anche in Europa e nelle avventure di Eymerich ne abbiamo una trasposizione narrativa. L’inquisitore è spesso impegnato nella feroce repressione di eresie che attingono a credenze precristiane: “quelle che finora abbiamo chiamato divinità  – viene affermato in Cherudek – sono in verità demoni, impegnati a predicare una liberazione immediata, lontana da quella spirituale voluta dalle Scritture”.13 E per approfondire la contrapposizione tra l’inquisitore e lo stregone Pantera possiamo anche aggiungere che nell’universo spirituale di Eymerich la natura “è intimamente malvagia, perché è la negazione della ragione. E solo la ragione conduce a Dio”.14 Non deve dunque sorprendere l’atteggiamento di Pantera nei confronti di chi assimila le sue credenze alla pratica di arti occulte:  “Non è una magia. È una religione. E merita rispetto come tutte le altre religioni”.15  Il messicano non è interessato a fare proselitismo, ma vuole riconosciuta la dignità delle sue credenze.
Per comprendere meglio la relazione tra Eymerich e Pantera, citiamo un’osservazione di Evangelisti sul rapporto tra i due personaggi: “Sarebbero certamente nemici, però non mortali. Eymerich tenta di disciplinare il mondo a sua immagine, Pantera vorrebbe farsi gli affari suoi e odia avere seguaci. Però non si odierebbero, dato che li accomuna l’asocialità naturale”.16 Pantera, nonostante la sua asocialità, aggiunge Evangelisti in un’altra intervista, “poi si ritrova a dover fare il difensore dei perdenti”.17

Credo che una parte significativa del fascino del personaggio Pantera stia proprio in questa sua riluttanza che viene alla fine vinta. Si tratta, come già detto, di un cavaliere oscuro, da cui si sprigionano improvvisamente, direi quasi gratuitamente, lampi di umanità e senso di giustizia. Proprio perché queste luci non sono mai scontate, il lettore rimane sempre in sospeso: farà la cosa giusta o continuerà a farsi gli affari propri? Fino a quando il nostro eroe si decide a schierarsi a difesa dei più deboli e la tensione si scioglie. Finalmente! Però quasi mai Pantera dà una giustificazione agli altri e a sé stesso di questi gesti, tanto che poi può tornare immediatamente alla sua oscura asocialità. Si potrebbe dire che queste azioni sono mosse da un inestricabile impasto fatto di “primordiale diritto alla vendetta”18 e elementare senso di giustizia.  Il primo lo possiamo vedere, per esempio, quando a sangue freddo decide di uccidere Wishburn, il vicesceriffo di Tucumcari.

“Era proprio necessario?” chiese Rosenthal, con voce incrinata. Era palese che si riferiva all’assassinio di Wishburn. “No, non lo era” rispose Pantera, serafico. “Ma la mia religione non proibisce l’uccisione di uno stronzo. Né il piacere che questo procura.”19

Insomma, a Pantera, come al famoso cavaliere nero di Gigi Proietti, “nun je devi caca’ er cazzo”! Il tono faceto di questa osservazione non deve oscurare il punto in questione: Evangelisti non si fa problema a utilizzare un registro popolare, con tanto di effetti speciali, per catturare il suo lettore e trasportarlo in un universo narrativo di grande complessità e impegno. In fin dei conti è questo uno dei più importanti motivi per cui utilizza, in modo del tutto originale, la letteratura di genere. Chiusa questa breve digressione, torniamo al senso di giustizia del nostro Pantera cui avevamo accennato. Ne abbiamo un assaggio, sempre in Metallo urlante, quando il messicano schiaffeggia “con ponderata violenza” e subito dopo rimprovera duramente Gloria, una prostituta che si rifiuta di accogliere Cindy perché la considera una svergognata.

Ascoltami bene. Per il paese intero le svergognate siete tu e le tue amiche. In realtà siete ragazze a posto. Ma anche Cindy lo è, solo che è più debole di voi. Guai a chi se la prende coi più deboli, per assomigliare a chi lo umilia. Troverà sempre qualcuno più forte di tutti. In questo caso, io.20

Corso accelerato di etica per oppressi in salsa western: lesson number one! Ci sono poi fugaci momenti di profonda sensibilità umana. Per esempio quando chiede a Cindy, la fanciulla che viene continuamente abusata da tutto il paese, perché non se ne va e lei gli risponde “Dove dovrei andare? Qui mi vogliono tutti bene”. 

Le parole di Cindy colpirono Pantera come un pugno doloroso, togliendogli il fiato. Sopportava tutto, ma non l’indicibile squallore che intuiva dietro quelle frasi […] Si rimproverò le proprie sensazioni. Nel suo mestiere non si potevano avere sentimenti, pena la morte. Ma il viso da bambina di Cindy gli era troppo vicino. Non potè impedirsi di sfiorarle i capelli con le dita.21

Un altro fugace momento di introspezione lo vediamo quando Pantera chiede a Gloria, la stessa donna che aveva poco prima schiaffeggiato, di condurre via Cindy senza spaventarla perché si stanno avvicinando i cowboy dell’inferno.

“Lascia fare a me.” Il timbro della prostituta, benché velato di raucedine, era caldo e profondo. Il messicano provò per un attimo il rimpianto per qualcosa che non conosceva, ma che sapeva esistere da qualche parte. Però preferì non indagare sui propri sentimenti.22

In questi atteggiamenti Pantera ha qualcosa in comune con Eymerich. Anche quest’ultimo ha brevissimi momenti  di pietà nei confronti del prossimo e finanche delle proprie vittime, che reprime  immediatamente con rabbia. Eymerich, però, si richiude all’interno della sua armatura caratteriale, costruita nel tentativo di fronteggiare le sue fobie, per tener fede al suo ruolo di inquisitore e cioè disciplinare il mondo, compito che gli impone di avere, come sintetizza Evangelisti, “né eccessiva pietà verso i perdenti né eccessiva devozione verso i vincenti”.23 Il personaggio di Eymerich è costruito sapientemente da Evangelisti come un eroe sui generis, dalla doppia natura: coraggioso, intelligente, scaltro, dedito alla causa, incurante del proprio tornaconto personale, ma al tempo stesso spietato, iracondo, vendicativo, orgoglioso. Molte di queste caratteristiche contraddittorie potrebbero essere attribuite anche a Pantera. Tutto sommato anche al messicano potrebbe calzare il nomignolo che è stato affibbiato a Eymerich dai suoi nemici catari, San Malvagio. O forse sarebbe meglio invertire i termini: Pantera è un malvagio santo. È il seguace di una religione con alcuni tratti demoniaci ma che, volente o nolente, resiste alla distruzione dell’immaginario dei popoli colonizzati. Appartiene indissolubilmente al mondo dei vinti e degli oppressi. In fin dei conti, il primordiale diritto alla vendetta che rivendica è una forma, forse non completamente chiara a sé stessa, di odio per i vincitori e gli oppressori. Anche per questo Pantera finisce sempre per difendere una variegata congerie di reietti e per combattere insieme a loro. Da qui ripartiremo nella prossima puntata.

2- continua. Precedente puntata qui. Prossima puntata martedì 24 ottobre


  1. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 2002, p. 180. 

  2. Ivi, p. 207. 

  3. Ivi, p. 38. 

  4. Per il concetto di opera implicitamente ucronica Cfr. Wu Ming, New italian epic, Einaudi, Torino 2009. A proposito dell’appartenenza di Evangelisti a questa corrente letteraria va però menzionato una valutazione dello stesso scrittore: “ognuno è libero di in qualche modo interpretare l’opera narrativa di qualcuno secondo certi criteri. Il limite dell’operazione in quel caso è stato che appariva tanto come un manifesto di una generazione, io non mi ritrovavo tanto in questa cosa qua, non sono un teorico cioè se un teorico mi interpreta gli sono grato. Io però non ho seguito linee programmatiche per scrivere qualcosa, ho seguito i miei istinti personali”. Vedi intervista a V. Evangelisti, di E. Carraro, 5 dicembre 2012, in E. Carraro, Valerio Evangelisti, il ciclo di Eymerich e il romanzo dell’inconscio, tesi di laurea in Filologia e letteratura italiana, Università Ca’ Foscari, Venezia, relatore prof. Alessandro Cinquegrani, a.a. 2013/2014, p. 108. 

  5. Valerio Evangelisti, Black flag, cit. p. 197. 

  6. Cfr. V. Evangelisti, Perché Mompracem resiste ancora, in Id., Le strade di Alphaville, a cura di Alberto Sebastiani, Odoya, Città di Castello 2022, p. 183. 

  7. V. Evangelisti, Cherudek, Mondadori, Milano 1997, pp. 448-449. 

  8. Cfr. Franco Pezzini, L’inquisitore e gli stregoni, in Sandro Moiso e Alberto Sebastiani, a cura di, L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis, Milano 2023. 

  9. V. Evangelisti, Black flag, cit., 65. 

  10. Valerio Evangelisti, Metallo urlante, Einaudi, Torino 1998, p. 97. 

  11. Ivi, p. 92. 

  12. V. Evangelisti, Black flag, cit., p. 65. 

  13. V. Evangelisti, Cherudek, Mondadori, Milano 1997, p. 301. 

  14. Ivi, p. 272. 

  15. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit.,p. 85. 

  16. Intervista a Valerio Evangelisti, di Cristina Donati, in “fantasy magazine”. 7 gennaio 2010, https://www.fantasymagazine.it/11552/intervista-a-valerio-evangelisti

  17. Intervista a V. Evangelisti, di E. Carraro, in E. Carraro, Valerio Evangelisti, il ciclo di Eymerich e il romanzo dell’inconscio, cit. p. 106. 

  18. V. Evangelisti, Black flag, cit., p. 197. 

  19. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit., p. 126. 

  20. Ivi, p. 116. 

  21. Ivi, p. 98. 

  22. Ivi, p. 127. 

  23. Intervista a Elisabetta Carraro, in Valerio Evangelisti, il ciclo di Eymerich e il romanzo dell’inconscio, cit. p. 106. 

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