di Sandro Moiso
Rafia Zakaria, Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale, add editore, Torino 2023, pp. 240, 18 euro
Rafia Zakaria è nata a Karachi in Pakistan ed è stata costretta a un matrimonio combinato a 17 anni con un uomo pakistano-americano, da cui è fuggita nel 2002, quando aveva 25 anni a causa delle violenze domestiche perpetrate dallo stesso. Dopo essersi iscritta alla facoltà di legge e aver conseguto una laurea specialistica in filosofia politica, è diventata avvocato, femminista, giornalista e scrittrice. Ha scritto per The «Nation», «Guardian Books», «The New Republic», «Boston Review», «Al Jazeera» ed è editorialista di « Dawn» (il più importante giornale di linguaa inglese del Pakistan). Oltre che di “Against White Feminism: Notes on Disruption” (W. W. Norton & Company. New York 2021), è anche autrice di “The Upstairs Wife: An Intimate History of Pakistan” (Beacon Press. Boston 2016) e “Veil (Object Lessons)” (Bloomsbury Academic. London 2017). E’ musulmana, si identifica come una femminista musulmana e ha lavorato a favore delle vittime di abusi domestici.
Il libro appena tradotto in italiano dalle edizioni add, critica l’enfasi che il pensiero femminista convenzionale pone sulle esperienze delle donne bianche escludendo quella delle donne di colore, motivo per cui, fin dalla sua uscita in lingua inglese nel 2021, molti commentatori hanno accusato Zakaria di minare il movimento femminista e di fare il gioco del patriarcato attraverso i suoi attacchi al femminismo bianco.
Partiamo da quest’ultimo punto per comprendere invece l’importanza di un testo che esce mentre tutto il furibondo odio razziale, per anni appena mascherato dietro una facciata liberal e perbenista, sta esplodendo in Europa a causa della situazione venutasi a creare in Palestina a seguito degli attacchi subiti da Israele il 7 ottobre. Un testo che, fin dalle prime pagine, affonda il bisturi dell’analisi nelle radici ottocentesche del “femminismo bianco”. Prima di fare ciò, però, l’autrice chiarisce, fin dalle prime pagine, che:
Una femminista bianca è una persona che rifiuta di riconoscere il ruolo che la bianchezza, con il conseguente privilegio razziale, ha avuto e continua ad avere nell’universalizzare le preoccupazioni, l’agenda le convinzioni delle emministe bianche, spacciandosi per quelle di tutti i femminismi e di tutte le femministe. Non bisogna essere bianche per essere femministe bianche. […] Il termine descrive una serie di presupposti e comportamenti integrati nel femminismo occidentale mainstream, anziché l’identità razziale dei suoi soggetti. E’ pur vero, tuttavia, che la maggior parte delle femministe bianche sono in effetti bianche e che la bianchezza è al centro del femminismo bianco.[…] Più in generale per essere femministe bianche è sufficiente essere persone che accettano i benefici confriti dalla supremazia bianca a spese delle persone non bianche, pur affermando di sostenere la parità di genere e la solidarietà con ttte le donne. [quindi] questo libro è una critica della bianchezza all’interno del femminismo: vuole indicare cosa va reciso e cosa distrutto, affinché possa essere sostituito da qualcosa di nuovo e di migliore. Spiega perché gli interventi che si sono limitati ad aggiungere donne nere, brown e asiatiche alle strutture di potere esistenti si sono rivelati un fallimento1.
Diciamolo pure, sono affermazioni forti che sembrano essere una semplificazione delle profonde contraddizioni sociali che ruotano intorno alle questioni di parità di genere e di differenza di classe e di linea del “colore”, ma hanno un pregio evidente poiché non temono di sbattere in faccia al lettore quella crisi dell’universalizzazione dei valori occidentali e bianchi attraverso cui viene letta ancora troppo spesso la complessità di un mondo che si è fatto sempre più grande, per tramite della globalizzazione non tanto economica quanto delle contraddizioni che lo animano anche fuori dell’ormai ristretto perimetro del mondo bianco o occidentale qual dir si voglia.
Una visione colonialista, dal punto di vista culturale ma non solo, che ha sempre ritenuto di poter affermare che ciò che entro i propri confini era dato, anche troppo facilmente, per scontato doveva essere tale e valido in ogni altra parte del globo, in ogni altra società e per ogni altra cultura. Compresi i valori di una Sinistra, talvolta anche radicale, che per certi versi, fin dalle origini era stata segnata da un severo stigma colonialista, legato ad una pretesa superiorità del mondo che l’aveva prodotta. Sostituendo troppo spesso il compito imperialista kiplinghiano dovuto al white man burden (fardello dell’uomo bianco) con una sorta di proletarian or social democratic burden originato da certe riflessioni risalenti a Engels e, soprattutto, a Karl Kautsky2.
Un primo esempio di una concezione di tale natura viene alla luce nel racconto che la narratrice fa di una nota e acclamata drammaturga femminista che in un articolo pubblicato su «Glamour» nel 2007, a proposito delle violenze , degli stupri e delle mutilazioni genitali subiti dalle donne della Repubblica Democratica del Congo, però, più che dar voce alle donne congolesi, sottolinea con enfasi ripetuta «ciò che lei fa e sente, anziché su ciò che vede e ascolta, dimostra che il suo obiettivo è evidenziare il ruolo cruciale che lei, donna bianca, riveste nella vita di queste donne».
L’articolo di Eve Ensler su «Glamour» dimostra in che modo il complesso del salvatore bianco si interseca al femminismo nel XXI secolo. Una donna bianca si arroga il compito di parlare a nome di altre donne stuprate e brutalizzate, collocandosi nel ruolo di salvatrice, veicolo attraverso cui giungerà l’emancipazione. E’ anche un esempio di come il dramma “laggiù” sia usato come trmine di paragone per giudicare i successi delle donne in Occidente. ”Come siamo fortunate”, sono indotte le lettrici a concludere le lettrici dell’articolo, scuotendo tristemente la testa per le circostanze in cui vivono le donne in parti del mondo meno civilizzate3.
Ma questa attitudine a fornire un’immagine salvatrice della donna bianca ha, come si diceva all’inizio, radici lontane, guarda caso risalenti all’epoca coloniale, quando
I ruoli di genere ottocenteschi e il privilegio maschile limitavano notevolmente la libertà delle donne bianche nei loro paesi d’origine. Partire per le colonie era un’occasione di fuga eccezionale. In India o in Nigeria le donne avevano un vantaggio notevole, il privilegio bianco. Seppur subordinate agli uomini, in virtù del colore della pelle erano comunque considerate superiori rispetto ai soggetti colonizzati, superiorità che garantiva loro automaticamente un maggior potere e una maggiore libertà.
«In questo paese sono una persona! Sono una persona» esclamava un’affettuosa Gertrude Bell ai genitorin el marzo 1902. Scriveva dal monte Carmelo, a Haifa, dove si era recata pe rimparare l’arabo e sfuggire alle risatine sgarbate della società londinese. […] L’esotico Oriente offriva spazio a volontà per le signore londinesi fuori tempo massimo per il mercato matrimoniale e, come scoprì ben presto Gertrude, i privilegi dell’Impero compensavano gli svantaggi del genere. Davvero lei era una “persona” lì a Gerusalemme perché, a differenza di casa, la bianchezza la collocava sopra gran parte dell’umanità. […] L’esempio di Bell mostra che per alcune donne bianche inglesi le primissime esperienze di libertà al di fuori della casa e del focolare coincidevano con le esperienze di superiorità imperiale oltre i confini della Gran Bretagna e dell’Europa4.
Fermiamoci ancora una volta a riflettere e cerchiamo di cogliere come l’osservazione dell’autrice travalichi la condizione femminile per farci comprendere come tale “privilegio imperiale” potesse essere condiviso e motivo d’orgoglio anche per coloro che, maschi o femmine, pur appartenendo agli strati sociali inferiori della società classista bianca, potevano usufruire di maggiori vantaggi nelle colonie, naturalmente ancora a discapito dei colonizzati.
Miserabile privilegio che riempiva e riempie ancora d’orgoglio i pieds-noir francesi in Algeria oppure i coloni, violenti e altezzosi, dei nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania. O che nutriva i sogni “popolari” in stile Faccetta nera delle avventure coloniali italiane in Libia e in Etiopia. Celebre canzonetta che riuniva in sé sia la pretesa coloniale dell’italico Homo expugnator che la condizione di sottomissione della donna colonizzata, e che sta alla base ancora oggi di un immaginario e di uno sguardo sull’”altro” e l’”altra” in cui il razzismo si mescola al desiderio di dominare chi sta più in basso, un tempo manifesto nelle colonie e oggi lungo le arterie periferiche delle grandi città percorse di notte da cacciatori di squallide e miserabili avventure erotiche a poco prezzo.
Retaggio di una mentalità coloniale che, spesso inconsapevolmente, si esplicita nell’attitudine liberale a rimuovere qualsiasi simbolo identitario delle culture altre, come nel caso del velo per le donne o della proibizione di indossare la kefia in Francia e in Germania. Quel velo diventato nell’Algeria coloniale, come ci ricordava Frantz Fanon, in uno scritto del 1959:
la posta di una battaglia grandiosa per cui le forze di occupazione mobiliteranno i loro mezzi più svariati e potenti e il colonizzato svilupperà una stupefacente forza di inerzia. […] Prima del 1954, più esattamente dagli anni 1930-35, ha inizio la battaglia decisiva. I responsabili dell’amministrazione francese in Algeria, preposti alla distruzione della peculiarità del popolo, incaricati dalle autorità di procedere ad ogni costo alla disgregazione delle forme di esistenza suscettibili di evocare d vicino o da lontano una realtà nazionale, concentrano il loro massimo sforzo sull’uso del velo, concepito in questo caso come simbolo della condizione della donna algerina. Un simile atteggiamento non è la conseguenza di un’intuizione fortuita5.
Come sia andata poi a finire lo sappiamo dai libri di storia, così come in Afghanistan, dove l’uso del burqa, conseguenza di tradizioni locali indipendenti dalle prescrizioni religiose dell’Islam, fu usato come pretesto per giustificare una presunta “guerra per le donne” in quell’area. Anche quella andata a finire senza liberazione delle stesse, ma con un’ennesima catastrofe militare. Per finire, per amore della Storia, andrebbe poi ancora qui ricordato che i Vespri siciliani, che nel 1282 diedero vita alla cacciata della presenza angioina in Sicilia con una ribellione a furor di popolo, scoppiarono proprio a causa del tentativo di un soldato francese di strappare il velo dal volto di una donna di Palermo, in occasione del Lunedì dell’Angelo di quell’anno.
E’ uno sguardo a 360 gradi quello che il testo ci invita a sviluppare, in un conteso in cui l’intrecciarsi della questione coloniale con quella di genere può dar vita ad una miscela esplosiva, molto pericolosa per l’ordine costituito sia ad Ovest che a Est, a Nord come a Sud. Motivo per cui è preferibile lasciare alle lettrici e ai lettori più attente/i e più interessate/i scoprire, pagina dopo pagina, tutti gli esempi, i casi, le storie e le ipotesi di lavoro e di lotta proposti da Rafia Zakaria, riportando qui, però, le considerazioni svolte dalla stessa proprio nelle pagine finali del libro.
Mentre stavo finendo di scrivere il libro, mi ha sopraffatto un senso di inquietudine. Separando le donne in bianche e non bianche, molte donne che amavo e rispettavo avrebbero potuto leggere le mie parole come un’accusa nei loro confronti […] E’ un riflesso della nostra società dilaniata e dei vividi contorni emotivi che la discussione sul razzismo suscita in noi. […] A questo scopo ho provato a costruire una tesi che favorisca la possibilità di vedere il mondo attraverso gli occhi di altre donne. E’ una sfida individuale e collettiva e dobbiamo partire dalla consapevolezza che le donne non bianche l’affrontano da secoli, mosse non da chissà quale empatia o interesse razziale, ma dal bisogno di sopravvivere in un mondo governato dai bianchi. E’arrivato il momneto che le donne bianche si uniscano al lavoro e condividano il fardello.
[…] Questo libro è una tesi a favore di un femminismo posizionato ontro una frontiera molto specifica, quella della bianchezza – in cui la bianchezza non è intesa come una categoria biologica, ma come l’insieme di pratiche e idee emerse dal sostrato della supremazia bianca, eredità dell’impero e della schiavitù. Al momento il femminismo è spaccato rispetto a quella frontiera, rendendo impossibile un “noi” donne davvero unito, in parte perché non siamo disposte a discutere e affrontare ciò che la bianchezza ha fatto al femminismo, ciò che gli ha rubato. Ma la bianchezza può essere recisa attraverso uno stravolgimento dichiarato e visibile delle strutture di potere. Dobbiamo abbandonare l’appendice dell’inclusione […] Dobbiamo denunciare chi continua ad aggrapparsi alle storie , ai racconti e alle forme di esclusione, anche aggrappandosi alla tradizione. E le femministe che hanno sfruttato troppo a lungo il privilegio della bianchezza per impostare un femminismo a cascata devono lasciare spazio a un femminismo disposto a battersi per smantellare l’establishment6.
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R. Zakaria, Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale, add editore, Torino 2023, pp. 9-10. ↩
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Sulle differenze tra il pensiero di Friedrich Engels e quello di Karl Marx si vedano: H. Jaffe, Marx e il colonialismo, Jaca book, Milano 1977 e il più recente K. Saito, L’ecosocialismo di Karl Marx, Lit Edizioni, Roma 2023. ↩
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R. Zakaria, op.cit., p. 26. ↩
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Ivi, pp. 28-29. ↩
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F. Fanon, L’Algeria si toglie il velo (1959) in Fanon 1 – Opere scelte di Frantz Fanon, volume primo (a cura di G. Pirelli), Giulio Einaudi Editore, Torino 1971, pp. 150-151. ↩
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R. Zakaria, op.cit., pp. 231-234. ↩