di Francisco Soriano
Fratello ateo nobilmente pensoso / alla ricerca di un Dio che io non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi, / liberi e nudi verso il nudo Essere e là, / dove la parola muore, / abbia fine il nostro cammino: accolgo come ateo l’esortazione di questo magnifico uomo e poeta, il mistico David Maria Turoldo, al quale sono grato soprattutto per questi suoi Canti ultimi. I suoi versi hanno sedimentato in me la convinzione che, per gli esseri umani, perché intraprendano un cammino esistenziale degno del proprio essere, è necessario dirigersi davvero liberi e nudi, là, dove la parola muore.
Padre David nacque in Friuli, a Coderno di Sedegliano, in provincia di Udine, nono figlio di una famiglia poverissima di contadini, il 22 novembre 1916. Frate e sacerdote nell’Ordine dei Servi di Maria, visse presso il Convento di San Carlo al Corso a Milano gli anni della Resistenza e della ricostruzione civile del Paese. In quel contesto diede vita alla Messa della Carità insieme al confratello Camillo de Piaz presso il centro culturale Corsia dei Servi. Allontanato da Milano per le sue posizioni, pagò con l’esilio. Quando riuscì a tornare in Italia visse in comunità nei conventi di varie città tra cui Firenze e Udine, presso la Madonna delle Grazie, dove scrisse, sceneggiò e produsse il film Gli ultimi, con la regia di Vito Pandolfi. Dal 1963 si trasferì a Fontanella, frazione di Sotto il Monte, ridando vita all’antica Abbazia di Sant’Egidio e al centro culturale ed ecumenico Casa di Emmaus. Oggi molti sono i visitatori che fanno riferimento alla sua eredità spirituale e culturale. Sulla sua scia una comunità di frati Servi di Maria mantiene viva la sua presenza e le sue intuizioni. Nel piccolo cimitero locale riposa sotto una croce lignea dopo la morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio 1992. Scrittore, poeta, saggista, conferenziere, intervenne nella vita culturale, sociale e religiosa del Paese con libri, articoli, interviste e famosi interventi in radio e televisione, coinvolgente per la sua irruenza profetica e la visione esigente e alta dell’uomo, della società e della chiesa.
E là dove la parola muore ci siamo ritrovati a riflettere e dirigerci verso le cose del mondo, spesso profondamente incomprensibili e dominate da un vuoto talvolta inquietante. La poesia è soprattutto vocazione alla parola e, nello stesso tempo, testimonianza: due dimensioni straordinariamente complesse nel labirintico cosmo dell’espressione verbale. Per Turoldo come ancora oggi per molti di noi, forte è la consapevolezza che, a differenza della maggior parte delle arti, la poesia ha un futuro radioso, mai adombrato dal già detto, già fatto, già pensato. Questa sorta di genetica e originaria natura della poesia, che sa di eterno e di inespugnabile, smaschera gli epigoni e i volgari propagatori di edulcorati sincronismi verbali che hanno solo il merito di modellarsi sul fatale mainstream del momento.
Ma è la storia e il tempo, questa volta benefico e riparatore, a compiere il gesto chiarificatore. David Maria Turoldo, uomo di vocazione e di testimonianza, rende eterna la parola, perché quest’ultima sopravvive alle intemperie essendo ora e sempre trasgressione, vortice e vuoto.
Come ben asserisce Giovanni Giudici nella sua prefazione a questa straordinaria opera, Canti ultimi, con l’inversione dell’aggettivo nel titolo del libro si ha una sorta di messaggio escatologico, l’attesa dei Novissimi, lo svelamento degli estremi misteri, dell’ignoto di un Dio qui colto nell’inedita rappresentazione della sua sofferenza per un Male scaturito, suo malgrado, dalla sua stessa Volontà che paradossalmente non può più scongiurarlo. Di questa affermazione-condizione, che serba una enorme consapevolezza, Turoldo diviene onestissimo narratore: come accettare che non sia più scongiurabile il male derivato dalla stessa volontà di chi, sorprendentemente, lo combatte? È questo uno dei punti topici del dramma umano che è reso misterico dalla impossibilità a una razionale spiegazione: ogni uomo si trova a vivere nei momenti di criticità fisica e morale, quella dimensione del dolore e del Male.
Per capire meglio l’opera di questo poeta, figura unica e ingombrante per molti, è bene rappresentare la struttura ideologica e spirituale dell’uomo e del sacerdote che si definiva come un pellegrino, un vagabondo. Negli anni Cinquanta fu costretto a lasciare l’Italia: dal 1953, da Milano in un monastero tedesco tornando a Firenze e poi di nuovo a Londra; poi negli USA, in Canada, in Messico e in Sud Africa. In ogni contesto egli confermò questa sua disponibilità al viaggio, ma sempre serbando nel cuore la sua terra natale, il Friuli.
I confratelli dicevano di lui che aveva una vita da rivoluzionario tradizionalista. Infatti, oggi più di ieri, l’opera di Turoldo va assolutamente riproposta e analizzata: rappresenta il piano mai obliquo di una conquista straordinariamente attuale. La scoperta è conoscere il volto dell’altro, del nemico, dello sconosciuto. Certo, la ricerca non poteva che essere condotta sui medesimi paralleli binari del volto del Cristo, interpretato comunque e sempre come un uomo non esente dal dubbio, soprattutto, e dalle fragilità di chi osserva con la Grazia del divino.
Gli amici definivano la sua voce come baritonale, da cattedrale e da deserto, e questo appare anche dal tono delle parole scritte e tributate alla poesia in questa mirabile raccolta, Canti ultimi. Turoldo era un vero visionario, l’esempio di un uomo quasi impossibile da incontrare nel quotidiano, nel nostro abitare i luoghi del mondo. Fu sempre dalla parte dei poveri e degli oppressi nella comprensione di ciò che è alla base della loro condizione. Tutto questo attanagliava la mente raziocinante di un uomo di fede, che ben conosceva l’emarginazione degli ultimi e dei dimenticati da parte di un mondo consapevole di questa ingiustizia. Egli affermava, infatti, in merito alla vocazione religiosa e alla sua lotta nel sociale: se ha un senso, è nella misura in cui ci si dona all’uomo per liberarlo. Un sentimento che lo ha spinto e reso partecipe alla Resistenza contro il fascismo. Negli anni Ottanta, prima di essere stroncato da un tumore al pancreas, si distinse (anche in questo precursore) nelle lotte ecologiste per una umanità che doveva diventare espressione consapevole del disagio prodotto dalla devastazione della natura per mano dell’uomo. In un creato benedetto e illuminato dall’incarnazione del Cristo-logos, Turoldo richiamava all’amore e alla bontà del creato, non distaccandosi mai e poi mai dalle cose terrestri. Il disturbatore delle coscienze, come amava definirlo il cardinal Martini, trovava la Bibbia un testo-codice culturale con una irrinunciabile valenza universalistica, utile alla liberazione di questa umanità così pervasa e caratterizzata da limiti, che siano personali o collettivi. Per la biografia di Turoldo si ricordano la celebrazione del suo funerale da parte del cardinal Martini nel febbraio del 1992 e la sua presenza al funerale di Pier Paolo Pasolini a Casarsa, nella “loro” Friuli, nel novembre del 1975, non senza uno strascico di polemiche. Importante ricordare che Turoldo scrisse e declamò una lettera di solidarietà e pietà umanissima alla madre del poeta assassinato, così prossimo in molte idee e battaglie a quest’ultimo, contro il capitalismo aggressivo e vorace e la disumanità che ne derivava. Il gesto del cardinal Martini, d’altra parte, fu importante perché proprio nel momento della scomparsa del poeta si volle riconoscere e legittimare la sua voce asimmetrica alle logiche del potere, come manifestazione eclatante della ingiustizia e della sopraffazione, mettendo fine alla emarginazione e all’ostracismo subìto soprattutto dalle autorità ecclesiastiche. Ad ogni modo, a conferma della personalità complessa e multiforme nel senso del pensiero divergente su questioni che penetravano aspetti sociali abbastanza praticati nelle polemiche politiche di quei tempi, egli ebbe amicizie con figure importanti del secolo scorso come Primo Mazzolari, Alda Merini e Andrea Zanzotto, Giorgio la Pira, Ernesto Balducci, Ernesto Cardenal.
Il ragionamento poetico di Turoldo è chiaramente improntato al dubbio, nella forma di un dialogo con il lettore, con l’altro, lo sconosciuto, con il volto altrui. Forma dialogica, dialettica e dubitativa sono l’esempio manifesto che la poesia è sintesi di tantissime attività, dinamiche e dimensioni del pensiero umano. Turoldo inoltre compie un’operazione verbale e di ricerca davvero originale, non molto praticata dai suoi posteri, che si dirige principalmente verso la scoperta dei misteri, degli inappellabili vortici del nulla e del vuoto, del piano inclinato di un disfare quotidiano della pace e della pietas, quest’ultima alla base di ogni umanesimo e di ogni pratica che riconduca all’amore, alla pace e all’amicizia. Che il volto del Cristo sia stato, soprattutto nei suoi ultimi anni di vita, la condivisione di una sofferenza e di un dolore cosmici, segno della fragilità di una umanità che appare talvolta insanabile nelle sue logiche fondate sulla ingiustizia, appare chiaro e incontestabile. Con questa ultima ricerca-esperienza ha voluto dare l’unica soluzione-risposta al quesito di una intera esistenza. La poesia è tragitto-modalità-domanda-risposta-dialogo che Turoldo ha interpretato con lo spirito di un mistico e il cuore di un povero. Chi è il poeta, si chiede Turoldo, se non colui il quale è in grado di captare con le antenne dei sensi suoni e silenzi delle cose.
Esagono è una composizione dei Canti ultimi che racchiude, appunto, sei frammenti poetici di rara imperscrutabile armonia. Proprio gli ultimi due parlano di perdono, delle parole impossibilitate a compiere il loro atto poetico, e poi di ricerca dell’occulto e dell’invisibile che eterna. La forma prismatica della visione rende chiara l’idea poetica di Turoldo, con le sue sfaccettature, gli incastri, le scomposizioni, le variazioni, i misteri, il non visibile. Già per aver osato dire / perdono ti chiedo: / anche se sarò recidivo / e vedrò le parole cadere / come foglie: è la prima parte del quinto frammento e Turoldo con una aposiopesi ci lascia in un vuoto, sospesi e in attesa di un nuovo verso, che ci conduca fuori dal labirinto delle parole, già riverse sul selciato del nostro cammino. Reticenza, in questo caso e per paradosso, come forma di dialogo con il lettore. L’aver osato esige un perdono, al costo della sofferenza più estrema: le parole-foglie volteggiano sospinte nell’immane nulla. Rabbrividite parole / ancor prima di raggiungere un suono: è verso dirompente, straordinaria tragedia che neppure i greci hanno saputo sublimare nel dolore più estremo. Prima del loro compimento, le parole, che siano canto o voce o poesia, suono, verseranno presto in frantumi, / sul pavimento del tempio. Sconvolge e mai riappacifica questo trafiggere, senza speranza, mai riconcilia, e nel buio sembra tutto soffocare: e non un frammento / almeno di vetro / che riluca. Le parole ora foglie cadenti, ancora vetri oscuri in mille pezzi, senza alcuna possibilità di una luce che per un attimo si rifletta, sono la fine della fine.
Nel sesto e ultimo frammento Turoldo manifesta la necessità di una ricerca esistenziale spasmodica, laddove al cospetto dell’immanenza ci informa di una esistenza-entità che al suo interno vivifica, nidifica e ci rende eterni: tu non sei fiume / ma ti nascondi nel fiume, / non sei la foresta / ma sei nascosto nella foresta, / non sei il vento / sei il vento del vento: e senza, non c’è tempo, / perciò viviamo / e saremo eterni. Apparenti sono le anafore che tentano di definire per via negativa, ultimo appello della parola, secondo il modello appunto della teologia negativa: altro non sono quindi che svelamenti, smascheramenti, manifestazioni di un contenuto che è all’origine di tutto e, senza il quale, non esisteremmo e neppure saremmo eterni.
Osip Mandel’štam in uno dei suoi mirabili saggi sosteneva che una poesia non tollera parafrasi. Questa ne è la prova:
di te nulla mi importa,
so di cosa ti fai
ragione e segno:
o miseria
fiordo della mia speranza
sola moneta di scambio!
Quando al mio quotidiano
franare corre
a fare argine
Amore.