Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando uno sparuto drappello di giovani del Movimento Sociale Italiano organizzò i famosi Campi Hobbit. Era la fine degli anni Settanta e il panorama politico-culturale italiano era completamente diverso da oggi. Il paese era saldamente governato dalla Democrazia Cristiana, e all’opposizione c’era il partito comunista più grande dell’Europa occidentale, a sua volta incalzato dalla generazione della Nuova Sinistra nata dal Sessantotto.
In quello scenario qualche giovane neofascista intraprendente tentò di importare dalla Francia le posizioni della cosiddetta Nouvelle Droite, e di tradurle nel tentativo di superare il vecchio «Dio, patria, famiglia» dei nostalgici, accettando la sfida dell’odiata modernità.
Quei giovani neofascisti cercavano il confronto con la Nuova Sinistra sul piano culturale, prefigurando improbabili “nuove sintesi” e il reciproco riconoscimento tra opposte fazioni, contro le vecchie guardie di entrambi i fronti.
Sul piano culturale si trattava di mantenere un’approccio terzista rispetto ai blocchi contrapposti della guerra fredda, andando a ricercare le radici della tradizione europea bianca, per rigiocarle appunto sul terreno culturale, sia contro il capitalismo statunitense sia contro il socialismo sovietico come elementi allogeni.
In quest’ottica la Nuova Destra si interessò a neopaganesimo, ecologismo, comunitarismo, localismo, e in qualche modo li ritrovò nel Signore degli Anelli. L’opera di Tolkien venne quindi scoperta e letta da quella frangia minoritaria dell’MSI in questa chiave e non è un caso che quei giovani scegliessero la Contea e gli Hobbit per dare il nome alla loro esperienza collettiva, proiettando sui protagonisti dei romanzi di Tolkien il proprio voler essere piccoli ma determinanti.
La stagione dei Campi Hobbit e della Nuova Destra sul piano politico fu breve. Presto il partito normalizzò l’eresia, dopo aver già messo d’imperio al vertice del comparto giovanile Gianfranco Fini, delfino di Almirante. Fu lui che nella prima metà degli anni Novanta cambiò pelle e nome al partito, ma per accettare l’alleanza con Silvio Berlusconi, abbracciando posizioni atlantiste e liberal-conservatrici. Quella trasformazione diede inizio alla storia che – con alterne vicende e ribaltamenti – porta fino a oggi.
I protagonisti delle puntate più recenti della saga della destra italiana fanno parte di una nuova generazione, cresciuta politicamente durante il ventennio berlusconiano, ma che ha saputo sopravvivere alla crisi di quell’esperienza politica, e diventare maggioritaria all’interno della destra, fino a guadagnare la leadership del governo.
Oggi la Nuova Destra è solo il ricordo di un fallimento, per ammissione del suo teorico più genuino, Marco Tarchi, ma le passioni letterarie sopravvivono alle svolte politiche e Tolkien è rimasto nel cuore degli ex-neofascisti riconvertitisi neo-con.
Ai tempi dei Campi Hobbit l’attuale ministro della cultura Gennaro Sangiuliano era adolescente e la premier Giorgia Meloni neonata, nondimeno hanno Tolkien tra i loro numi tutelari. È celebre un’intervista a una giovanissima Meloni che indicava nel Signore degli Anelli il suo testo «politico» di riferimento. Al comizio conclusivo della vittoriosa campagna elettorale meloniana, il doppiatore italiano di Aragorn – nonché voce di svariati spot del Mulino Bianco – ha declamato il celebre discorso agli «uomini dell’Ovest» prima dell’ultima battaglia, tratto dal film di Peter Jackson.
Non stupisce quindi che questo governo abbia deciso di celebrare i 50 anni dalla morte di J.R.R. Tolkien con una mostra promossa dal ministero della cultura, dal titolo «Tolkien: uomo, professore, autore», che si terrà a Roma a partire dal 15 novembre, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, e che verrà inaugurata dalla premier in persona.
Fin dal titolo e dal taglio scelti, la cornice discorsiva imposta alla mostra è parecchio appiattita sull’uomo, il quale, nelle parole del ministro Sangiuliano, «fu un cattolico convinto che esaltò il valore della tradizione, della comunità e della storia cui si appartiene, un vero conservatore, verrebbe da dire». Definizione scarna ma relativamente corretta, che però si ferma appunto al dato biografico, senza tenere conto di quello che l’opera di Tolkien è diventata a cavallo di due secoli come fenomeno letterario e culturale. Conservatorismo, tradizionalismo e cattolicesimo sono gli aspetti che il ministro tiene a esaltare, e questo fa il paio con la sua scelta di dare il primo annuncio della mostra in un contesto politico, cioè alla festa dei giovani di Fratelli d’Italia, nel luglio scorso.
Nessuna delle grandi mostre finora dedicate a Tolkien in Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia si è mai sognata di avere una cornice e un “cappello” di questo tipo. Non è certo un caso che gli stessi curatori della mostra romana abbiano sentito di avanzare una excusatio non petita, specificando che la mostra «non sarà una celebrazione politica e chi spera in questo rimarrà fortemente deluso. Non ci si vuole appropriare di Tolkien». E dunque perché evocare questo rischio, reale o immaginario che sia? La lingua batte dove il dente duole.
E che un problema odontoiatrico ci sia lo dimostra anche la reazione stizzita di Sangiuliano a Lucca Comics & Games, quando un giornalista gli ha chiesto a bruciapelo se Tolkien fosse un riferimento culturale del governo. Una domanda che – per quanto visto fin qui – poteva meritare una semplice risposta affermativa, ha invece provocato una mezza invettiva:
«Guardi, questo è un modo di fare giornalismo, mi consenta… Tolkien ha una sua grandezza. Infatti il partner della mostra che faremo a Roma è l’università di Oxford. Non lo ridurrei a un canovaccio politico. Tolkien… Tolkien… Lei lo ha letto Tolkien?».
Il ministro deve averlo indubbiamente letto, al punto da potersi esprimere sulla portata della sua opera in questi termini:
«Penso che la sua opera apra il cuore alla visione di qualcosa che va oltre la prosaicità del quotidiano. Simboli universali e senza tempo, valori che ci sussurrano dentro. Tolkien riassume tutto con una celebre frase nel Signore degli Anelli: “Le radici profonde non gelano”».
Simboli universali ed eterni, valori innati… e la celebre citazione tanto cara alla destra di mezzo secolo fa, che campeggiava perfino sui muri di alcune sedi dell’MSI. Quali siano questi valori poi Sangiuliano lo rivela in una videointervista rilasciata ancora durante Lucca Comics & Games (non prima di avere criticato la disdetta di Zerocalcare per via del patrocinio dell’ambasciata israeliana, mentre era in corso una rappresaglia a Gaza da cinquemila morti, in gran parte bambini). Ipse dixit:
«Sono valori universali e sono valori potenti: amicizia, comunità, coraggio e solidarietà».
Per Sangiuliano l’importanza e l’universalità di questo autore dipenderebbero dalla presenza nella sua opera di virtù riscontrabili in un qualunque film Disney (segue rumore di braccia che cadono). E pensare che ci sono studiosi che hanno versato fiumi d’inchiostro sulle tematiche affrontate nell’opera tolkieniana, come il problema del desiderio d’immortalità, di potere e di potenziamento di sé attraverso la Macchina; la critica allo sviluppo industriale e quella all’eroismo marziale; la perniciosità dell’ossessione conservatrice (stigmatizzata da un autore conservatore, sì, in letteratura capita anche questo); il rifiuto della disperazione anche nei momenti più bui della storia; l’accettazione della separazione da ciò che si ama; il rapporto tra storia e mito; l’importanza strategica dei piccoli attori nei grandi scenari geopolitici. Si potrebbe continuare a lungo, ma sarà meglio limitarsi a sperare che i contenuti della mostra non siano “poveri” come le parole di chi la promuove e la finanzia, per poi chiedere provocatoriamente agli altri se abbiano letto Tolkien.
In generale l’impressione è che la lettura di Tolkien una volta cara alla Nuova Destra e oggi alla destra neoliberale del XXI secolo risulti ormai demodée, per non dire vagamente grottesca e caricaturale. La cornice monocolore, per così dire, stona rispetto alla percezione affermatasi nel frattempo.
Infatti da un lato opere come Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit oggi sono universalmente conosciute grazie alle trasposizioni cinematografiche, la Terra di Mezzo è entrata nell’immaginario collettivo, esiste un fandom variegatissimo e comunità che vivono quell’universo come passione al di là di qualsivoglia lettura orientata dell’opera letteraria. Dall’altro lato, sono nati e fioriti anche da noi gli studi tolkieniani, con un proliferare di associazioni, pubblicazioni, convegni accademici, riviste, ecc., che hanno messo l’Italia al passo con i vari filoni di pensiero critico internazionali sulla materia.
Oggi è perfettamente comprensibile dal pubblico televisivo un pezzo satirico come quello di Andrea Pennacchi, che prende in giro proprio l’uso politico della narrazione tolkieniana fatto dal governo. Mentre, al netto della partnership della mostra romana con l’università di Oxford, il britannico Guardian si chiede: «Cosa sta cercando di ottenere questo governo imprimendo il proprio marchio in modo così aggressivo su una delle saghe fantasy più amate al mondo?».
In definitiva, se la qualità della mostra si scoprirà soltanto visitandola, com’è ovvio, almeno una cosa si può dire fin d’ora. Diventare un autore “governativo” non è un destino auspicabile per nessuno scrittore (a prescindere dal colore del governo). Di certo i giovani camerati degli anni Settanta non lo avrebbero auspicato per Tolkien, loro che si pretendevano hobbit rivoluzionari. La letteratura rimane in salute finché sfugge all’istituzionalizzazione, all’etichetta, e non si fa sussumere dal potere costituito, che è sempre arrogante e ridicolo nelle sue manifestazioni.
Per fortuna ci sono ottime ragioni di credere che la narrativa tolkieniana saprà liberarsi dall’abbraccio dei politici, rimanendo salubremente ineffabile, complessa, problematica.