La seguente testimonianza è stata resa da Zakaria Baker l’11 novembre 2023. La testimonianza è stata raccolta da Amplify Gaza Stories, un’organizzazione che lavora sul campo per raccogliere e tradurre testimonianze degli abitanti di Gaza, per fare in modo che le loro storie di lotta, resilienza e sopravvivenza vengano conosciute al mondo.
Mi chiamo Zakaria Baker, sono una delle persone sfollate dalle proprie case quattro giorni fa, intorno al 7 novembre 2023.
L’inizio dello sfollamento avviene così: un ufficiale dell’intelligence israeliana ha chiamato uno dei miei cugini. Eravamo circa una ventina, seduti sulle sedie. Il bombardamento del campo profughi di Al-Shati non si è fermato un solo secondo. I missili lanciati contro il campo, non potevamo né vederli né sentirli. Erano bombe a botte [barrel bombs]. Quando furono sganciate su un blocco residenziale di sei o sette case, le distrussero completamente. La cosa più spaventosa e dolorosa è che questi missili vengono lanciati contro case piene di persone. I corpi nel campo di Al-Shifa sono ancora sotto le macerie. Potevamo sentire l’odore dei cadaveri.
L’ufficiale dell’intelligence israeliana ha chiamato uno dei miei cugini che era seduto con noi e ha detto: “Bakers, perché non ve ne siete andati? I vostri vicini sono stati evacuati. Avete 30 minuti per andarvene, per la vostra sicurezza. Se non ve ne andate, vi rovesceremo la morte addosso”.
Ok, mezz’ora… Cosa facciamo? Siamo famiglie con bambini, e dobbiamo prepararci a partire?
Dopo meno di mezz’ora, circa 20 minuti, forse meno, il bombardamento è iniziato a pochi metri da noi. Stavano prendendo di mira edifici che erano a sole due o tre case di distanza da noi. Non potevamo portare nulla con noi, solo alcuni farmaci, perché avevo appena subito un intervento a cuore aperto. Così ci siamo incamminati – donne, bambini e anziani – e mentre camminavamo i bombardamenti si avvicinavano alle nostre case. Ogni volta che passavamo davanti a una casa, dietro a noi veniva distrutta.
Il bombardamento è continuato fino alla moschea Rono, vicino all’ospedale Al-Shifa. Quando eravamo sotto la moschea, una bomba ha colpito il minareto. C’erano in strada migliaia di persone. Alcuni di loro provenivano anche dall’ospedale. Con noi c’erano molti anziani. C’erano 160 persone della nostra famiglia in strada, e della nostra famiglia allargata erano circa 4 o 5mila.
Abbiamo iniziato tutti a camminare. Quando abbiamo raggiunto Al-Shifa c’erano migliaia di persone. La maggior parte di loro erano residenti dai dintorni dell’ospedale Al-Shifa, o persone che cercavano rifugio all’interno dell’ospedale e sono fuggite perché l’ospedale è stato colpito.
Raggiungemmo lo svincolo di Dola, avevamo già percorso circa cinque o sei chilometri. Abbiamo visto un autobus dall’aspetto trasandato, ma funzionava, e abbiamo chiesto all’autista di portarci allo svincolo di Dola. Ha chiesto 80 shekel, eravamo circa 40 persone. Ci siamo accordati per 80 shekel per portarci alla rotonda di Dola, vicino a Salah al-Din.
Una volta raggiunto lo svincolo di Dola, siamo scesi dall’autobus, e abbiamo camminato per circa un chilometro dopo la rotatoria Kuwait, e abbiamo visto enormi folle, non dico centinaia o migliaia o decine di migliaia, ma centinaia di migliaia di persone e scene orribili: donne di 80 e 90 anni, uomini anziani di 70 e 80 anni, alcuni di loro feriti, altri con bambini in braccio.
Abbiamo continuato a camminare finché non abbiamo incontrato un asino e un carro. Il proprietario ci ha chiesto 20 shekel, e abbiamo caricato tutto su questo carro: donne, bambini, tutti i nostri bagagli, tutto ciò che potevamo mettere sul carro. A metà salita l’asino faticava, quindi il padrone ci ha chiesto di spingere. Lo abbiamo spinto, per il bene degli anziani e dei bambini. Abbiamo spinto finché non siamo stati a 100 metri di distanza dall’IDF israeliano. Siamo scesi, e ci hanno chiesto di mostrare i nostri documenti d’identità. Ho preso in braccio mio nipote e ho giocato con lui, per rassicurarlo. Abbiamo camminato fino a 10 metri dai soldati, poi ci hanno detto: “Stop”. Ci siamo fermati. Abbiamo visto tre carri armati passare davanti a noi. Una volta passati, ci è stato detto di proseguire.
Avevamo solo una valigia a testa. C’erano corpi ovunque. Alcuni in decomposizione, altri erano carbonizzati. Abbiamo visto un’auto con una persona morta dentro. La sua metà inferiore era intatta, la metà superiore era decomposta. Scene orribili, abbastanza da far piangere una pietra. Abbastanza da far piangere una pietra. Abbiamo lasciato l’area con i carri armati e ci siamo spostati al ponte Wadi Gaza, e lì ci hanno detto che eravamo in una zona sicura.
Dalla zona dei carri armati fino a Wadi Gaza mio nipotino ha pianto, aveva fame. C’era un muretto e abbiamo lasciato che sua madre lo usasse per nascondersi dietro, così da poterlo allattare e farlo smettere di piangere per qualche minuto, circa cinque minuti. In generale, ci siamo sentiti più tranquilli dopo che mio nipote aveva mangiato. Abbiamo continuato a camminare in un enorme flusso di umani incolonnati.
Sul ponte non ci era permesso fermarci. Era vietato fermarsi. Una delle donne più anziane che erano con noi aveva 86 anni, e si chiamava Kefah Bakr. È crollata per la stanchezza ed è morta, non è riuscita a sopravvivere al viaggio, alla camminata. È stata anche fortunata, perché è morta 10 metri dopo aver attraversato l’area controllata dall’IDF israeliano, e così è stata portata via, all’ospedale.
Tornando alla zona dei carri armati, non ci era permesso di guardare a sinistra o a destra. Dovevamo continuare a guardare dritto.
(Domanda di Mohammed Ghalayini, un volontario di Amplify Gaza Stories: le istruzioni dei soldati venivano date dagli altoparlanti?)
Risposta: No, le istruzioni venivano passate da una persona all’altra. Le persone davanti ricevevano gli ordini, e li passavano a quelli dietro. In questo modo gli ordini arrivavano a tutti gli altri.
Molti anziani cadevano e venivano abbandonati sul posto. La gente passava oltre. Una persona ha lasciato cadere la valigia, si chiamava Alaa Abu-Stata. Si è chinato per prendere la valigia e lo hanno ammazzato con un colpo di pistola. Molte delle donne anziane non riuscivano a reggere la fatica e cadevano a terra. Nessuno osava fermarsi per aiutarle, perchè avrebbero sparato a chiunque le avesse aiutate. E così abbiamo dovuto sacrificare una persona anziana per salvare altre 10 o 20 persone dalla fucilazione o dall’umiliazione. Una persona è stata chiamata per nome dagli altoparlanti. Lo hanno spogliato nudo, lo hanno arrestato e nessuno sa dove lo abbiano portato. Nessuno sa più niente di lui. Questo è quello che ho visto da una distanza di 100 metri, altri hanno visto casi simili di arresti.
Abbiamo continuato a camminare fino a Burej. Immaginatevi! Da Al-Shati’ al ponte sono qualcosa come 15 chilometri. A Burej non c’erano automobili, solo camion. È arrivato un camionista e gli ho detto che volevamo andare a Khan Younis o nella zona di Hamad. Ci ha chiesto 300 shekel. Ho detto va bene, portaci via da qui. Abbiamo raggiunto Hamad dopo un viaggio molto tormentato.
(Domanda: hai trovato alloggio a Hamad?)
No, non siamo riusciti a trovare nessuna stanza. Abbiamo trascorso tre notti dormendo sul pavimento, senza copertura, a cielo aperto: notti fredde. La terza notte, solo la terza notte, abbiamo acceso le lucine per allontanare insetti e mosche dai bambini di otto e nove mesi. Il 4° giorno siamo riusciti a raddrizzare la situazione. Abbiamo rotto un tramezzo che appartiene al comune, circa 4 metri quadrati, e ci abbiamo messo 40 persone. E’ stata una mia idea. Ne ho ricavato una tenda improvvisata con teli di plastica usati, e lì hanno potuto ripararsi sei famiglie.
Dalle 12 di ieri non siamo più riusciti a trovare un pezzo di pane. Facciamo un pasto al giorno, per due motivi: per evitare di andare al bagno, e perché non riusciamo a trovare cibo. È una guerra della fame. Non c’è cibo in scatola. Abbiamo girato tutti i supermercati ma non abbiamo trovato niente. Le donne dormono con gli stessi vestiti con cui erano uscite di casa. Quest’acqua mi è stata data da Abu Mohammed. Siamo stati sottoposti al dolore, alla sofferenza, alla rabbia, all’umiliazione. Non ce la faccio più a parlare di questo.
Da quando questa testimonianza è stata raccolta, Baker, la sua famiglia e migliaia di altre persone in cerca di rifugio sono stati nuovamente costretti a lasciare il loro riparo nella città di Hamad a Khan Younis, il 2 dicembre, dopo aver ricevuto un nuovo ordine di evacuazione dall’esercito israeliano.
Traduzione di Massimo Mazzucco per luogocomune.net