“Siamo marea” si diceva dalle prime piazze di Non Una di Meno nel 2016, a distanza 7 anni si può parlare di moltitudine: mezzo milione di corpi hanno invaso le strade di Roma, intasato le metropolitane, riempito pullman e occupato vagoni dei treni per raggiungere la mobilitazione nazionale del 25 novembre più numerosa di sempre.
Moltitude
C’è disponibilità, c’è voglia, c’è desiderio, ce lo ha raccontato la piazza di Roma, ma anche quelle di Messina, Milano, Bologna, Padova e decine durante tutta la settimana precedente. Cortei, fiaccolate, passeggiate, flash mob, sit in, ma soprattutto tanto rumore: è un nuovo panorama per certi aspetti inedito che anima la Penisola. Non solo le grandi città, non solo le metropolitane, ma ovunque, è endemica la spontaneità con cui si sono lanciate le piazze anche nei piccoli centri e nelle periferie.
Il Colosseo annebbiato dai fumogeni fucsia, Piazza del Popolo al tramonto tra le bandiere, San Giovanni gremita come non si vedeva da anni, Trastevere che guarda dall’alto, non è solo una proiezione romantica di una giornata, ma a partire dal Circo Massimo così colmo da versarsi poderoso nelle strade, tutti quei corpi in cammino hanno dimostrato che è tanto lo spazio che si vuole riempire. Tanto più se la moltitudine di corpi, quando riesce a organizzarsi e compattarsi, si rappresenta non solo nello spazio fisico-estetico di una manifestazione immensa, ma irrompe nella scena pubblica e politica, con un chiaro obiettivo: lottare contro la violenza maschile sulle donne e di genere.
Il femminicidio di Giulia Cecchettin, è stato un detonatore per riaccendere una fiamma di movimento che già si poteva respirare nelle settimane precedenti. Le parole d’ordine non ammiccavano al perdono e non concentravano la loro essenza nel dolore, ma indicavano inequivocabilmente – ancora una volta – che il nemico è il patriarcato. Ma lo è anche il governo.
Contro Meloni, contro il Governo
Forse quella del 25 è stata la prima piazza nazionale in netta opposizione al governo Meloni, dalla finanziaria, al reddito di cittadinanza, ai tagli per i percorsi di fuoriuscita dalla violenza, alla militarizzazione e il disinvestimento verso il mondo della formazione, alle proposte indicibili sull’educazione alle relazioni, alla stretta punitiva e l’inasprimento delle pene, all’attacco sempre più violento verso le persone migranti e razzializzate, alla decennale alleanza con l’associazionismo antiabortista, all’aumento delle spese militari. Questo ciclo di mobilitazioni è strettamente legato anche a quanto accaduto nelle settimane precedenti sulla Palestina. Se inizialmente si può leggere quanto successo sotto una prima spinta emotiva, tra assemblee, piazze e occupazioni, è presumibile che forse qualcosa stia cambiando, che si stia esprimendo una necessità. Forse quel che era assopito, a seguito di due scossoni così importanti, si è risvegliato dal torpore e non vuole più rimanere con le mani in mano.
In risposta ai continui attacchi dell’associazionismo antiabortista a Roma si è dato un altro elemento di rottura. La sede di Provita e Famiglia era fortemente militarizzata, a dimostrazione di dove si colloca questo governo rispetto all’autodeterminazione dei corpi delle donne*, e il desiderio di portare a termine un’iniziativa nella saracinesca della sede ha portato chi si trovava in quel momento di fronte allo schieramento di celere a sfondare per allontanare la polizia antisommossa.
Questo è un punto di non ritorno rispetto alle pratiche per il movimento transfemminista, perché è il riconoscimento che cura vuol dire anche assunzione di responsabilità nei confronti di chi desidera esprimere la propria rabbia al di fuori del perimetro della compatibilità sancito dalle leggi. La questione non è ascrivibile alle sole “pratiche” e a una presunta radicalità che prenda forma solo nello scontro fisico. Il tema, qui e ora, è ragionare in prospettiva, guardare al potenziale espresso in questa piazza come una strategia di lungo periodo.
Al di là di Roma serve soffermarsi in generale sul ciclo politico reazionario che si è aperto da diversi anni in Europa, e che in Italia si è espresso con un costante spostamento a destra tanto delle forze politiche quanto del corpo sociale. Il governo Meloni è senza dubbio il culmine di questo processo, ma sta avendo un ruolo di acceleratore nella compressione di diritti e welfare e si è fatto portatore di un’idea di cittadinanza che esclude sempre più alcuni soggetti, in particolare migranti e donne.
Formazione in movimento
La spinta mobilitativa che ha attraversato trasversalmente la società, sta investendo anche il mondo della formazione dagli istituti superiori all’università, creando un fermento che non si vedeva da tempo. Una disponibilità non solo del corpo studentesco ma anche in alcuni casi dal personale docente e non docente.
Questo dato si è inoltre acutizzato non solo a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin ma anche dopo la votazione del progetto di Valditara sull’educazione affettiva dentro al ddl contro la violenza di genere.
Non minuti di silenzio, ma minuti di rumore: assemblee autogestite, creazione di spazi di discussione, confronto e approfondimento al di fuori dalle logiche che le istituzioni del sapere impongono. L’obiettivo è chiaramente quello di decostruire l’impianto patriarcale, coloniale e capitalista del sapere, ma soprattutto dare vita ad una processualità che dia strumenti e letture alternative che colmino il vuoto creato da un sapere in generale nozionistico e acritico, che spesso crea terreno fertile per la perpetuazione di una cultura patriarcale, pregna di violenza di genere e discriminazioni sociali.
La lente transfemminista e la complessità
Essere all’altezza di dare una risposta nazionale, essere organizzazioni di movimento e mettersi al servizio del movimento, riconoscendo gli unici spazi di discussione nazionali come spazi del movimento.
Il movimento transfemminista si è guardato intorno, discute e agisce per leggere, comprendere e indicare le direzioni dei cambiamenti in atto: è necessario continuare a farlo, osservare le strutture di comando politico, le loro mutazioni, il loro adattarsi alle esigenze di un capitalismo che globalmente sta ridefinendo il suo modo di produrre e riprodursi. Ma soprattutto è necessario porsi il problema del rovesciamento dei rapporti di potere, potenziando i percorsi già in atto e che stanno nascendo per superare quel solco profondo che negli ultimi anni ha rischiato di arrestare il processo di cambiamento dal basso e che è stato acutizzato dall’ascesa del governo Meloni.
Ma quando si lotta bisogna portare a casa qualcosa, imparando dalle relazioni transnazionali. In Argentina, i movimenti femministi sul piano del diritto all’aborto hanno avuto una potenza di mobilitazioni incredibile che ha determinato a un piano di contrattazione volto all’ottenimento di un avanzamento nell’ottenere maggiori diritti. Le battaglie transfemministe devono essere capaci sempre di più di includere quei pezzi della società che forse non conoscono il piano di liberazione soggettivo e collettivo di chi attraversa e ascolta determinate istanze, ma che di fatto è direttamente colpito dall’organizzazione patriarcale della nostra società: chi fa lavoro di cura, retribuito e non, chi è madre ed è ancora costretta a dover scegliere tra maternità e lavoro (che significa reddito), le centinaia di migliaia di donne in pensione che si ritrovano con un reddito inferiore a quello maschile, le condizioni salariali delle lavoratrici. Sono questi terreni su cui è necessario ampliare e organizzare le rivendicazioni, costruendo alleanze con i sindacati di base, le realtà di movimento.
La femminilizzazione del lavoro è un fatto: il sorriso, l’amore, la gratuità sono condizioni ormai profonde di tutti i settori produttivi, non più propri del lavoro riproduttivo. Come detto nell’assemblea nazionale di Non Una di Meno del 26 novembre c’è probabilmente bisogno di aprire spazi di vertenzialità e far sì che tutte le persone che si stanno mobilitando in queste settimane possano tornare a casa con qualcosa, questo è il terreno di riflessione necessario per rendere i numeri romani permanenti e determinanti. Il movimento transfemminista in questa fase rappresenta forse la parte più avanzata dei movimenti che ambiscono alla trasformazione del presente: per questo ha il compito di guardarsi e guardare il mondo in un’ottica di complessità, che sia capace di tenere insieme riconquista dei diritti e fine della divisione del lavoro, redistribuzione della ricchezza e giustizia ambientale.
Rivoluzione culturale
Dall’altra parte è necessario adottare una prospettiva differente che indichi i nemici che ogni giorno opprimono tutte le soggettività femminili e non conformi, è necessario guardare a questo come una lunga corsa ad ostacoli, ma di cui bisogna avere consapevoleza di dover e voler essere protagonisti e miccia innescante del cambiamento, con la volontà di costruire dentro e fuori i “nostri confini” quella processualità che porti ad un cambiamento reale in netta contrapposizione e incompatibilità col sistema attuale.
La meta deve essere quella di costruire un’alternativa e un’opposizione reale, concreta e incisiva.
Dall’esplosione di Non Una Di Meno nel nostro paese molto si è trasformato, a partire dalla composizione delle piazze, dal lessico politico alle forme di soggettivazione, attivazione e organizzazione. Se le prime piazze femministe avevano una composizione a maggioranza femminile ora anche grazie al ruolo politico di Elena Cecchettin – catalizzatore di un movimento capace di recepire il suo linguaggio anche grazie alle sedimentazioni precedenti dei femminismi – nel dibattito politico sta trovando centralità il tema della responsabilità maschile. Le quindicimila persone nella piazza padovana o il 25 novembre stesso a Roma ci hanno mostrato una composizione mista nelle piazze con una postura di ascolto e di almeno abbozzato riconoscimento del ruolo maschile.
Quello che stiamo respirando nelle piazze, nelle assemblee in università e altrove su questo tema è su grande scala quello che da un po’ di anni si può osservare dentro le organizzazioni di movimento, i collettivi politici e tutte le realtà organizzate, in modo diverso in ciascuna. In un paese in cui i movimenti sociali sono stati storicamente quasi sempre a traino maschile e/o machista, la rottura che l’irrompere di Non Una Di Meno ha determinato dal 2016 in poi ha inciso profondamente sul corredo genetico di questa eredità.
Ha fatto capire l’urgenza del metodo femminista e transfemminsta nell’organizzazione dal basso. Lungi dal dire che le organizzazioni di questo paese hanno colto in pieno e trasformato radicalmente il proprio agire politico, ma sicuramente c’è stata un’inversione di tendenza sia nella lettura della realtà ma anche, con più fatica, nel partire da sé.
Ha reso più visibili le contraddizioni tra i ruoli di genere e i ruoli di potere, e alla luce di questo, bisogna ammettere però che la strada da fare è ancora lunga e questo periodo storico, questo movimento, ci impone che sia una strada più collettiva possibile. Per questo il ruolo delle organizzazioni di movimento in questa fase, oltre a continuare a mettere in profonda critica le dinamiche patriarcali dentro e fuori e immaginare delle strategie di liberazione, non può che essere quello di mettersi a disposizione del movimento, di Non Una Di Meno e di ogni altro spazio largo, attraversabile e scevro da identitarismi che permetta di far fiorire i germogli che vediamo nascere ovunque.
Il 16 dicembre – domani – si scende di nuovo in piazza. Le assemblee di queste settimane dimostrano un fermento importante a partire dalla riflessione sulle responsabilità da cogliere, sulla necessità di farsi carico della rabbia espressa da centinaia di migliaia di persone, sull’importanza di sfondare i limiti voluti dal governo. L’obiettivo è andare oltre l’evocazione, mettere in pratica quelle parole di rabbia e desiderio che, grazie al movimento transfemminista, hanno cambiato il lessico e la sintassi del discorso politico di questa nazione.