Appunti su Impero e sulle trasformazioni globali: un omaggio a Toni Negri

Omaggiare Toni Negri, a poco più di 24 ore dalla sua morte, parlando di Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione è cosa assai ardua, forse per certi versi sbagliata. Per questo ci ho pensato tanto prima di riadattare e pubblicare questo testo, pensato e scritto per una scuola di autoformazione politica che avevamo organizzato a Trento nei primi mesi del 2016. A volte però bisogna farsi guidare dall’amore, che come lui stesso ha detto “è il cuore pulsante del programma che abbiamo sviluppato fino a questo punto”. Ed è in questo che anche le cose che si ritengono razionalmente sbagliate assumono senso, diventano appunto “cuore pulsante”.

Prima di procedere, quindi, una breve annotazione personale. “Impero” è il primo libro di Toni Negri che ho letto e il suo impatto è stato devastante. Non solo perché capovolgeva completamente le (poche) certezze teoriche di un me poco più che ventenne, da non molto entrato in contatto con il magico mondo dei “movimenti”. Ma perché aveva reso estremamente chiaro i motivi per cui mi definivo “comunista”: capire il mondo e provare a sovvertirlo erano due processi che non potevano mai essere scissi. E da lì è stata tutta una fame e sete di sapere e agire: i no global, i centri sociali, Genova, il movimento no war e quello contro la precarietà, le occupazioni in università, l’Onda, e così via. Scelte, personali e collettive, spesso sbagliate e pagate, ma sempre dettate da una spinta che aveva qualcosa a che vedere con una “scelta di vita”. E in tutto questo, quel libro dalla copertina gialla con la scritta “Impero” in più lingue è stato qualcosa di più di un faro, è stato un rito di iniziazione. Grazie Toni, per sempre.

Dall’Impero alla governance multipolare

Questo articolo prende in esame l’evoluzione del rapporto tra dominio e sviluppo della soggettività di classe a partire dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, concentrandosi in quello spazio temporale da molti definito “nuovo ordine mondiale neoliberale”. Il testo risale al 2016, in una fase in cui la crisi di questo “ordine” non era ancora manifesta come ai giorni nostri, ma già stava iniziando ad avere contorni nitidi.

Nell’inquadrare alcuni traccianti di un dibattito teorico che è stato negli anni assai ricco e articolato, sono state isolate e assemblate tre letture: la prefazione ed i primi due capitoli di “Impero” di Toni Negri e Micheal Hardt; “L’Impero dalle piume di cristallo”, intervista fatta da Giuliano Santoro ad Hardt nel 2006; “Globosclerosi”, un breve saggio di Christian Mazazzi del 29 aprile 2011.

Antonio Negri, uno dei “cattivi maestri” del post-operaismo, e in generale del pensiero critico contemporaneo, ha coniato la categoria di “Impero” negli anni Novanta, cogliendo a pieno le trasformazioni istituzionali, economiche e geopolitiche che attraversavano il mondo nella fase successiva alla fine della “guerra fredda”. L’Impero è lo spazio dove si coagulano le nuove forme dell’economia neoliberista, fondata sulla sussunzione delle risorse umane e materiali del pianeta e sulla espropriazione della ricchezza socialmente prodotta all’interno del sistema post-fordista, basato sulla messa a valore dell’intera vita ed egemonizzato dalla produzione immateriale

L’Impero

Il contesto da cui prende forma l’analisi negriana è quello successivo al crollo dell’Unione Sovietica, che segna la fine definitiva di un’epoca storica in cui gli equilibri tra le due superpotenze hanno condizionato lo sviluppo del capitalismo e dei rapporti di potere a esso connessi, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. La tensione globale si sposta dunque dall’allineamento a uno dei due blocchi contrapposti verso l’assorbimento all’interno delle maglie imperiali. Un assorbimento che non avviene in maniera codificata o attraverso modelli predefiniti di assoggettamento, ma si muove in forma rizomatica e fluida.

Dal punto di vista economico questa nuova fase coincide con l’affermazione di una tendenza che porterà in pochi anni la produzione immateriale a prendere il sopravvento su quella materiale e con una irresistibile e irreversibile globalizzazione degli scambi commerciali e culturali. All’interno del complesso rapporto tra capitale e dominio emerge una nuova sovranità, che ha nel declino dello Stato nazione la sua principale prerogativa. «La sovranità ha assunto una nuova forma, composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali che agiscono seguendo un’unica logica di potere»[1]. La sovranità diventa dunque globale e proprio nella forma “Impero” arriva a compimento quel passaggio dal governo alla governance, che è stato a lungo dibattuto dal pensiero operaista e post-operaista a partire dagli anni Sessanta e Settanta.

Sul piano delle categorie storiche ed interpretative Negri ed Hardt segnano un solco netto con il passato, quando introducono la differenza tra Impero ed imperialismo, considerato quest’ultimo come la proiezione della sovranità dello stato-nazione oltre i propri confini.  L’Impero poggia su un apparato di potere decentrato e deterritorializzante, prodotto da un passaggio, avvenuto all’interno del sistema capitalistico mondiale, in cui le differenze spaziali tra i tre “Mondi” (Primo Mondo, Secondo Mondo, Terzo Mondo) si vanno a confondere.

Un altro passaggio che segna la nascita dell’Impero è la riduzione tendenziale del ruolo del lavoro industriale, su scala mondiale, e l’affermazione della produzione biopolitica come egemone all’interno del tessuto economico e sociale post-moderno. L’elemento economico, politico e culturale si sovrappongono e si alimentano reciprocamente: il potere dell’Impero agisce su tutti i livelli della vita sociale, forgiandosi nel rapporto tra capitale e bios e governando le forme di vita, più che le popolazioni o i territori.

Moltitudine

Il passaggio all’impero e alla globalizzazione offrono nuove possibilità alle forze di liberazione. Negri ed Hardt definiscono “contro-Impero” l’insieme generato dalle forze creative della moltitudine. Il concetto di moltitudine, che viene trattato specificamente nella parte quarta del libro e sarà il tema centrale di un’ulteriore opera dei due filosofi (Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli 2004), è stato uno dei più dibattuti negli ultimi decenni.

L’idea negriana di moltitudine, e in generale di tutto l’asse di pensiero post-operaista, viene in gran parte mutuata da Spinoza. La “libera moltitudine” del filosofo olandese consiste in una pluralità che perdura come tale sulla scena pubblica, nell’azione collettiva, nella cura degli affari comuni, senza convergere in un Uno, senza innescare su di sè un moto centripeto. Si contrappone in questo al concetto “hobbesiano” di popolo[2]. La consistenza ontologica del soggetto, singolo e collettivo, si fonda così nella rete immanente delle relazioni individuali, che si trasformano in rapporti di forza. La moltitudine, oltre a diventare il principio di una nuova forma di vita politica, è anche un’inedita possibilità di pensare il soggetto e l’individuo[3].

Per Negri e Hardt, queste forze devono avere l’ambizione e la capacità di organizzarsi politicamente e di organizzare in maniera alternativa i flussi e gli scambi globali. Sono queste le premesse per la costruzione di nuove forme di democrazia, in sottrazione al dominio imperiale, e per la nascita di nuovo potere costituente. All’interno della produzione biopolitica contemporanea la potenza rivoluzionaria della moltitudine è proporzionale alla propria abilità di auto-valorizzare le proprie eccedenze, ossia quella parte di bios, misurata in termini di soggettività e di cooperazione indipendente, che il capitale non riesce ad inserire pienamente all’interno del proprio ciclo produttivo e riproduttivo. Nella concezione del libro Negri e Hardt si attengono infatti a quello che diceva Marx nel Capitale, ossia traslare l’analisi dai meccanismi che regolano “lo scambio” agli «antri nascosti della produzione».

Nuovo ordine mondiale

Il primo capitolo di Impero si interroga su come l’ordine mondiale abbia trovato espressione in una forma giuridica, a partire dai cambiamenti di paradigma descritti. Negri e Hard colgono la costituzione dell’ordine mondiale partendo dalla genealogia delle forme giuridiche che conducono al ruolo sovranazionale delle Nazioni Unite (e sue affiliazioni) e al suo superamento. Storicamente le Nazioni Unite hanno funzionato come cerniera di transizione tra il vecchio quadro di diritto internazionale (basato sulla centralità dello Stato Nazione e definito da contratti e trattati) e il nuovo (basato sul superamento dello stesso)

Negri ed Hardt mettono a confronto le due principali concezioni della sovranità sovranazionale all’interno della filosofia politica moderna. Quella hobbesiana, basata sull’accordo contrattuale di singole entità statuali preesistenti verso un nuovo potere trascendente, e quella lockiana, in cui il medesimo processo avviene in termini decentrati e pluralisti e in un contesto nel quale i contropoteri locali risultano costituzionalmente efficaci. Entrambe le concezioni non colgono, secondo gli autori, il fatto che la sovranità imperiale segni un mutamento di paradigma, che trae principalmente origine dall’egemonia della costituzione materiale rispetto a quella formale.

Globalizzazione

L’importanza di cogliere gli assetti del nuovo ordine mondiale, nei termini della costituzione materiale e dei nuovi ordinamenti giuridici, è soprattutto legata alla conoscenza dei nuovi dispositivi del capitalismo globalizzato. Per fare questo è necessario mettere in rilievo le differenze tra la globalizzazione contemporanea e le forme di “economia-mondo” che storicamente si sono definite in epoche precedenti.

Sul carattere internazionale degli scambi e dell’accumulazione capitalista già Sismondi era intervenuto agli inizi dell’Ottocento, teorizzando il “mercato dell’universo”[4]. Ma è con Braudel che l’economia-mondo assume una definizione precisa e si differenzia dall’economia mondiale, in quanto occupa uno spazio determinato, con limiti che variano lentamente. Si tratta di una sezione economicamente autosufficiente del pianeta, che presuppone sempre un polo, intorno al quale si collocano delle aree intermedie e poi delle zone periferiche che, nella mappa della divisione del lavoro, si trovano in una posizione subordinata e dipendente, proprio a causa della loro posizione geografica[5]

Anche per Wallerstein il concetto di economia-mondo si definisce sulla base della divisione del lavoro tra le tre aree (centro, semi-periferia e periferia) che vanno a comporre l’insieme, nonostante l’alto livello di interdipendenza e stratificazione esistente al proprio interno. Per il sociologo statunitense l’unica forma di economia-mondo possibile è quella del capitalismo, che si basa proprio su un doppio meccanismo di sfruttamento: l’appropriazione del plusvalore del lavoratore da parte del proprietario e quella del surplus dell’intera economia-mondo da parte delle aree centrali[6].

Se è vero che è sempre esistita una relazione fondativa tra capitalismo, mercato mondiale e i suoi cicli di sviluppo, è anche vero che la globalizzazione si afferma come processo storicamente determinato nell’evoluzione del capitalismo, che lo differenzia notevolmente dai concetti di economia-mondo precedentemente descritti. In questo nuovo rapporto tra spazio e capitale, basato sulle reti più che sulla dimensione concentrica, nuove figure giuridiche transnazionali servono a garantire una regolazione unitaria del mercato mondiale e delle relazioni globali di potere.

Diritto imperiale

Nel definire il nuovo ordine mondiale sul piano giuridico si fondono le due principali ideologie che definiscono il diritto nella modernità: quella liberale (concerto delle forze giuridiche e sublimazione nel mercato) e quella socialista (dimensione internazionale attraverso l’organizzazione delle lotte e sublimazione del diritto).

La globalizzazione rappresenta il terreno dove il capitale ridefinisce i propri criteri di accumulazione, di scambio e di dominio. Ma è anche quello nel quale, attraverso la circolazione delle idee, delle relazioni e della cooperazione tra soggetti, si alimentano maggiormente le possibilità di liberazione dell’umanità. Proprio per impedire questo, l’ordine imperiale si fonda sullo stato di guerra, permanente e globale, che viene utilizzata come forma di dominio costituente. Il concetto di bellum justum, tipico degli ordinamenti imperiali tradizionali, rinasce con l’Impero e la guerra viene valorizzata come strumento etico. L’ordine imperiale non è, però, basato solo sulla forza, ma sulla capacità di rappresentare la stessa come se fosse al servizio del diritto e della pace.

Le caratteristiche sistemiche e gerarchiche che individuano l’Impero come paradigma, fanno capo a un insieme di norme e di legittimità a lungo termine che ricoprono l’intero spazio mondiale. Emerge una nuova relazione tra crisi e norma, come anche tra diritto interno e diritto sovranazionale. Esiste inoltre un uso sistemico della funzione d’eccezione, che definisce un vero e proprio diritto di polizia. «Come possiamo chiamare diritto (e in particolare diritto imperiale, una serie di tecniche fondate su uno stato d’eccezione permanente e sul potere di polizia?»[7].Il diritto imperiale tende a penetrare nel diritto interno degli stati-nazione e a modificarlo, modellando un diritto d’intervento, «il diritto o dovere,  da parte dei soggetti che dominano l’ordine mondiale, di intervenire nei territori di altri soggetti nell’interesse della prevenzione e risoluzione di problemi umanitari, garantendo il rispetto degli accordi ed imponendo la pace»[8].

Nell’Impero si configura uno stato permanete di emergenza ed eccezionalità in cui il diritto di polizia è giustificato dalla “difesa di valori universali”. Il potere imperiale diventa scienza della polizia fondata sulla guerra giusta, all’interno di uno scenario caratterizzato dall’intreccio di lungo periodo tra crisi e guerra. «L’Impero sta emergendo come un centro che sostiene la globalizzazione delle reti produttive e tesse una rete ampia e comprensiva per includervi tutte le relazioni di potere all’interno del nuovo ordine mondiale; nello stesso tempo, però, dispiega un enorme apparato di polizia contro i nuovi barbari e gli schiavi che si ribellano e minacciano il suo ordine»[9].

La produzione biopolitica

Nel secondo capitolo, intitolato “La produzione biopolitica”, Negri e Hardt conducono l’analisi con l’obiettivo di «discernere al livello di questa materialità e decifrarvi la trasformazione del paradigma del potere»[10]. Gli autori riprendono le tesi di Foucault, concentrandosi in particolare sul passaggio dalla società disciplinare (fitta rete di dispositivi che producono e regolano usi, costumi e pratiche produttive) alla società del controllo (meccanismi di comando immanenti al sociale). Viene così svelata la natura biopolitica del nuovo paradigma di potere. «Il biopotere è una forma di potere che regola il sociale dal suo interno, inseguendolo, interpretandolo, assorbendolo e riarticolandolo»[11]. Nel passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo si realizza pienamente la relazione di mutua implicazione tra le forze sociali che il capitalismo ha sempre cercato.

Partendo da queste riflessioni viene evidenziata la differenza dell’ordine imperiale rispetto ai regimi totalitari. In questi ultimi si assiste a una sospensione del diritto ed a un dimensionamento autocefalo dell’autorità e della sovranità. Nell’impero il diritto è centrale e le forme di dominio si producono e riproducono all’interno del contesto biopolitico.

Lo scarto interpretativo fatto da Negri e Hardt rispetto all’analisi foucaultiana, e anche a quella successiva di Deleuze e Guattari, sta nell’aver analizzato a fondo la dimensione produttiva del biopotere e la produttività della riproduzione sociale. A questo proposito gli autori introducono alcune categorie che negli anni successivi hanno fortemente indirizzato lo studio del cosiddetto capitalismo cognitivo: l’intellettualità di massa, il lavoro immateriale, il general intellect. Partendo da queste categorie, già individuate da altri studiosi neo-marxisti, ed integrandole con l’elemento della produttività dei corpi, viene formulata una nuova teoria del valore. Teoria che vede il lavoro non più come fattore immobile nel rapporto con il capitale, ma come elemento immerso in tutti i fattori relazionali che innervano il sociale. Allo stesso tempo il lavoro, che si allarga all’intera dimensione della vita, aumenta a dismisura la propria capacità di insubordinazione e di rivolta.

Il golpe nell’Impero e la crisi globale

Nonostante venga pubblicato per la prima volta nel 2000, il corpo principale di Impero si immerge nella situazione internazionale degli anni Novanta, e principalmente nel contesto in cui matura la guerra in Kosovo e l’intervento militare della Nato in Serbia. Le nuove categorie interpretative suggerite dall’opera vengono utilizzate anche per spiegare quanto accade nel mondo a partire dall’11 settembre 2001, ossia dalla serie di attentati compiuti da Al Qaida negli Stati Uniti. In “Movimenti nell’Impero”, pubblicato nel 2006, che raccoglie una serie di conferenze tenute dal filosofo padovano tra il 2002 ed il 2004, viene affrontato apertamente il tema del fallito golpe nell’Impero, tentato dall’Amministrazione Bush in quel contesto. Gli Stati Uniti, agli inizi del nuovo millennio ed in particolare in seguito agli attentati dell’11 settembre, tentano di risolvere unilateralmente i conflitti che la globalizzazione ha aperto e di assestare le crepe apertesi nell’ordine imperiale.

A partire dal 2001 si assiste a una crisi irreversibile della potenza americana che, proprio con la guerra in Afghanistan ed in Iraq, mostra la propria vulnerabilità. La crisi ha determinato nuovi scenari politici per la moltitudine, amplificandone la propria capacità di resistenza e di rivolta, che può essere ben esemplificata nel ciclo globale di movimentazione sociale apertosi con le lotte “no-global” proprio negli Stati Uniti e culminato nel movimento “no-war”, da molti definito “la terza potenza mondiale”.

Nell’intervista “L’Impero dalle piume di cristallo”, Micheal Hardt dimostra come il fallimento politico e militare da parte dell’amministrazione Bush a partire dal 2001 altro non sia che l’impossibilità di ristabilire l’ordine precedente, basato su un’economia ed una politica estera che fossero espressione della potenza di uno Stato-nazione. Il fallimento dell’opzione unilateralista statunitense è stato il fallimento stesso di un ritorno all’imperialismo.

La sconfitta dei neoconservatori alle elezioni presidenziali del 2008, con l’ascesa di Obama alla casa Bianca, le lotte globali e territoriali contro la guerra e le servitù militari, come quella contro la base Dal Molin a Vicenza, le forme di resistenza militare che si sono rafforzate nei luoghi in cui la guerra permanente esprimeva il suo maggior peso, hanno dimostrato che la resistenza alla guerra è stata in grado di produrre soggettività, mentre la dimensione tecnologica della stessa non è in grado di farlo, dal punto di vista di chi la combatte. «Il patriottismo, una volta, funzionava come produttore di soggettività. Adesso sono solo un’armata di mercenari[12]».

Gli avvenimenti e i processi che segnano il primo decennio del XXI secolo incidono profondamente sugli equilibri/squilibri mondiali e pongono diversi interrogativi sui mutati scenari all’interno dell’ordine imperiale. Se è vero, infatti, che non viene intaccata la lettura che le forme della sovranità siano immanenti alla produzione capitalista ed alla sua riproduzione sociale globalizzata, è vero anche che si sono affermate nuove potenze in grado di esercitare nuovi poli d’influenza, che talvolta frammentano l’unicità dello spazio globale, su scala continentale e regionale. Gli ambiti di influenza sono di carattere geopolitico, strategico-militare, ma soprattutto si indirizzano verso l’approvvigionamento delle risorse naturali a scopi energetici, nel quadro di una crisi climatica sempre più pressante.

Gli anni della crisi sistemica globale sono stati caratterizzati da una duplice tensione: da un lato la gestione capitalista della crisi ha fatto emergere la necessità, per il capitale, di mettere in atto forme di gestione e comando unilaterali; dall’altro, soprattutto in coincidenza con l’emergere della potenza economica dei BRICS, si è riattivato uno scontro multipolare per l’egemonia. Siamo in un quadro completamente diverso da quello imperialista, perché le politiche di potenza contemporanee, se pure hanno trovato espressione su scala regionale, non sono perimetrabili all’interno del rapporto classico tra Stato-nazione, capitalismo ed ambito d’azione economico. La crisi globale, e le misure attuate in funzione della sua gestione/superamento, hanno infatti aumentato l’interdipendenza del capitale e la velocità dei flussi. Quello che si è modificato è stato il rapporto tra capitale finanziario e capitale produttivo, con un’inedita egemonia esercitata dal primo nei confronti del secondo, che ha qualificato la rendita come terreno principale di accumulazione e produzione di valore.

Tra i tanti scritti che hanno analizzato il capitalismo finanziario e la crisi sistemica, è stato scelto “Globosclerosi” di Christian Marazzi per due ragioni. In primo luogo l’articolo viene scritto nell’aprile del 2011, uno dei periodi più acuti della crisi, in cui la gestione del debito privato e quella del debito pubblico incrociano in maniera organica i propri effetti ed emerge, a livello globale, tutto il peso della socializzazione delle perdite, messa in atto dai governi negli anni precedenti. In secondo luogo, l’articolo sintetizza al meglio il ruolo delle agenzie di rating all’interno della governance finanziaria globale ed il loro peso nell’azione di supplenza che gli istituti interni alla finanza mondiale hanno esercitato nei confronti delle istituzioni sovranazionali imperiali, a partire dall’inizio conclamato della crisi.

«Che un’agenzia di rating, per quanto americana (come tutte le altre, peraltro), cerchi di condizionare “tecnicamente” il dibattito politico interno agli Stati Uniti con minacce di declassamento costituisce un precedente non di poco conto. Come minimo ci troviamo di fronte alla fine definitiva dell’autonomia del politico e al trionfo della governance, della governamentalità, secondo la logica astringente dei mercati finanziari. E questo su scala globale, ossia non solo nel caso di paesi economicamente deboli. Parliamo di governance postdemocratica, di meccanismi di regolazione parziali (tecnici) in cui non è l’entità del debito pubblico in sé che è presa di mira, quanto piuttosto l’individuazione di interi settori della spesa pubblica da privatizzare»[13]. Quello che emerge nell’analisi di Marazzi è l’ingovernabilità (appunto, la globosclerosi) che emerge nell’ordine imperiale negli anni della crisi, dovuta in particolare al suo carattere intrinsecamente multilaterale.

Il ruolo di supplenza giocato dagli istituti della finanza globale si è intrecciato anche con l’aumento dell’interdipendenza tra gli Stati nella gestione economica della crisi. E’ in quest’ottica che dobbiamo leggere il proliferare di accordi, di trattati economici internazionali, di patti di stabilità sui conti pubblici, di piani sovra-nazionali di rientro dall’indebitamento sovrano. La gestione della crisi sistemica pone in essere un’altra questione, ossia quella del superamento della democrazia, come già scritto da Marazzi. Il tema della democrazia non va trattato nel suo senso etico e morale, ma inteso come quella forma storicamente evoluta dello Stato di diritto in cui in cui i principi del costituzionalismo liberale si sono fusi con quello della “sovranità popolare”.

È lo stesso Negri ad intendere i concetti di sovranità e di crisi, non nel suo significato contingente bensì sistemico, come inscindibili. «Ogni forma di comando sarà dunque riconosciuta come gestione di crisi – e la sovranità non potrà essere definita, ab origine, che come superamento (determinato) di una crisi[14]». Se da un lato la crisi dello Stato di diritto determina il passaggio delle forme del comando dagli strumenti delle leggi e delle regole a quelli delle norme e dei dispositivi, con l’effettività della norma che diventa egemone rispetto al quadro giuridico costituito[15], dall’altro lato la crisi della sovranità si riempie di nuova forza costituente, che scaturisce dal conflitto intrinseco alla stessa relazione tra le due categorie.

Guerra permanente e forme di dominio nel presente

Nel leggere le forme biopolitiche del presente emergono alcuni interrogativi rispetto alle categorie di pensiero descritte in precedenza, sia sul piano epistemologico sia rispetto alla loro efficacia interpretativa del quadro sistemico attuale. La rinazionalizzazione della retorica politica, il ritorno delle frontiere come elemento di regolazione del mercato internazionale della forza-lavoro, l’attitudine sovranista che ha interrogato il campo delle forze politiche, da destra a sinistra, ci interroga su un possibile ritorno dello Stato-nazione come attore protagonista dello scenario globale contemporaneo.

Dall’altro lato, la crisi pandemica, i conflitti in Ucraina, in Palestina e non solo ci fanno capire che la dimensione deterritorializzata all’interno della quale la guerra si colloca oggi è proprio il prodotto del definitivo superamento della dimensione statuale post-assolutista, sia nella forma dello Stato di diritto sia in quella dello Stato-nazione. Questo non comporta la dissoluzione spaziale del potere come organizzazione del dominio di classe, ma una sua riterritorializzazione sulla base dei processi di ristrutturazione che hanno investito il capitale in questa fase e che fanno emergere la guerra come elemento endemico nel lungo periodo della stagnazione.

Se è impossibile tracciare sintesi teoriche in merito, le indicazioni politiche sono chiare: in questo contesto lo spazio del conflitto e di un’alternativa sistemica, che parte dal presupposto della giustizia sociale e ambientale, rischiano di rimanere schiacciati se non si pongono il problema di contrastare sul campo, e nello spazio globale, il capitale nel cuore del suo processo di ristrutturazione, produttivo e riproduttivo.


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