Dal 30 novembre al 12 dicembre si è svolta a Dubai la ventottesima Conferenza delle Parti, detta COP, che è quel momento dell’anno in cui il mondo, i politici, i filantropi, le organizzazioni della società civile e gli attivisti, si riuniscono per discutere sulle future politiche, azioni e misure da intraprendere per far fronte ai cambiamenti climatici. È noto che si tratta di una delle principali problematiche con cui l’umanità, al giorno d’oggi, deve confrontarsi e che forse risulta essere l’urgenza prioritaria per la salvaguardia degli ecosistemi naturali e sociali nel prossimo decennio e di cui si conosce bene il principale responsabile, il settore fossile.
È bene ricordare che l’anno che sta volgendo al termine, il 2023, verrà ricordato in termini climatici non solo per essere stato definito dal World Meteorological Organization (WMO) come l’anno più caldo mai registrato dall’epoca preindustriale, ma anche per gli eventi climatici estremi e i relativi impatti manifestatisi in diverse regioni del Pianeta. Per questa ragione la COP di Dubai aveva il compito etico e politico di fare dei passi in avanti netti e drastici, data l’emergenza da bollino rosso sancita dalle analisi e dagli studi di svariati report internazionali ed articoli scientifici, uno su tutti, il sesto rapporto pubblicato dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Anzitutto perché durante questa COP, per la prima volta dall’accordo di Parigi, è stato svolto il primo bilancio sui progressi svolti dalle parti per raggiungere l’obiettivo di rimanere all’interno dei famosi 1.5°C di riscaldamento globale, il così detto Global Stocktake.
Invece, ancora una volta, il risultato è stata una conferenza con molte ombre più che luci, che ha dimostrato la lentezza da parte della governance climatica nel prendere decisioni che definiscano un percorso reale in grado di allinearsi con l’obiettivo di Parigi. Una COP che da subito ha suscitato numerose critiche sia per la collocazione geografica che per il presidente scelto. Infatti, Dubai è la capitale degli Emirati Arabi Uniti, paese che non vanta certo una buona fama per l’adozione di impegni climatici all’avanguardia o politiche di transizione energetica innovative. Infatti, secondo la piattaforma Climate TRACE, le emissioni degli Emirati Arabi Uniti (UAE) sono aumentate del 7.5% solamente nel 2022, comparato con un aumento mondiale del 1.5%, quindi circa 5 volte tanto.
Inoltre, è stato nominato presidente della COP il sultano Al Jaber, presidente della compagnia petrolifera statale UAE ADNOC, dodicesima a livello mondiale per produzione di idrocarburi. Una scelta molto discussa e criticata, per certi versi assurda rispetto agli obiettivi climatici da intraprendere: sarebbe come dire ad un fabbricante di armi di promuovere trattati di pace.
Infatti, fin da prima dell’inizio dei negoziati, sono trapelati documenti ufficiali che attestavano incontri tra membri per decretare accordi riguardo possibili concessioni ed esplorazioni nel campo delle risorse fossili in diversi paesi in via di sviluppo. Come se non bastasse, durante la prima settimana sono riemerse alcune dichiarazioni del presidente Al Jaber, fatte lo scorso novembre, in cui affermava che non c’era alcuna evidenza scientifica che per rimanere all’interno degli accordi di Parigi bisognasse promuovere un’eliminazione progressiva dei combustibili fossili.
In questa cornice, nonostante tutto, COP28 ha decretato dei colpi di scena. Per prima cosa, sono stati i negoziati climatici più partecipati, in termini di delegati, della storia delle COP: più di 100 mila partecipanti, tra cui più di 2400 erano rappresentati del settore fossile che superavano addirittura l’unione di tutti i delegati delle cosiddette “nazioni vulnerabili”, che erano circa 1500. Se ancora non fosse chiara la presenza massiva del settore fossile all’interno di questi negoziati, basti pensare che solamente per quanto riguarda l’Italia, erano più i rappresentati di ENI che quelli di tutta la stampa nazionale.
Allo stesso tempo, la COP28 è uscita subito dagli schemi classici dei negoziati del clima. Infatti, durante il primo giorno, dedicato alla plenaria di apertura, il sultano Al Jaber, ha annunciato, con grande sorpresa e allo stesso tempo con altrettante critiche da parte della società civile, l’adozione del Loss and Damage. Un fondo destinato alla riparazione delle perdite e dei danni, soprattutto dei paesi e delle comunità più vulnerabili causati dagli impatti degli eventi climatici estremi. Nonostante i 30 anni di lotta per farlo adottare, il Loss and Damage è risultato una vittoria senza merito sia perché il totale di contributi versati dai paesi sviluppati, di circa 700 milioni, non raggiunge neppure lo 0,2% dei danni subiti nel 2023 dai paesi e dalle comunità vulnerabili, sia perché il fondo per i prossimi cinque anni verrà gestito dalla Banca Mondiale con il rischio di esacerbare il debito economico tra Sud e Nord Globale.
In generale, questa COP è stata una vittoria senza merito perché se è vero che alla fine delle due settimane il documento più importante e più attesto, il Global Stocktake, inizia con la frase “Transitioning away from fossil fuels”, è anche vero che questo non è abbastanza. Si è lasciato ancora troppo spazio a soluzioni tecnologiche come la cattura e il sequestro di carbonio per continuare la proliferazione di ulteriori esplorazioni e nuove concessioni per estrarre idrocarburi, quando è scientificamente provato che è urgente interromperle immediatamente tutte a livello mondiale.
Se è vero che rispetto alla prima bozza, il documento finale del Global Stocktake presenta un testo con una terminologia più rafforzata, questo non basta. Per la prima volta, nella storia delle COP, è stata inserito il nucleare come un’energia di transizione, il ritorno di Lazzaro come direbbe Tim Flannery, autore del signore del clima, una scelta insensata, anacronistica e totalmente insensata. Infatti, questo sistema di produzione energetica considerato in particolare dai progressisti un sistema “pulito”, presenta un impatto, in termini di emissioni di carbonio non allineato con gli obiettivi di Parigi. Bisogna considerare non tanto l’impatto in termini di produzione di energetica quanto analizzare l’intero ciclo di vita di una centrale nucleare, senza entrare nel merito di dove collocarla o come smaltirne i rifiuti.
Un testo che è debole anche dal punto di vista dell’adattamento in termini di finanziamenti, piani e strategie su possibili azioni e misure da perseguire. Sono, però, state anche adottate diverse dichiarazioni fondamentali e discusse per la prima volta nei negoziati climatici, tra cui quella riguardante la salute e la resilienza dei sistemi sanitari, così come quella riguardante l’agricoltura sostenibile e la sicurezza alimentare. Nonostante tutto, la Conferenza delle Parti si dimostra per l’ennesima volta uno spazio essenziale, ma allo stesso tempo incapace, per motivi economici e politici, di allinearsi con le richieste dei movimenti e delle organizzazioni sociali e ambientali, ma soprattutto con l’urgenza climatica mondiale che è in corso e che ogni giorno risulta sempre più evidente. Una vittoria solamente semantica, libera da responsabilità e vincoli. Ancora una volta è stato fatto quello che era necessario, ma non quello di cui si aveva realmente bisogno.