Il presente comunicato è scritto dallə attivistə delle scuole di italiano e degli sportelli di supporto legale degli spazi sociali del Nord-Est. Come tali, ci riconosciamo nei valori e nelle pratiche dell’antirazzismo, antisessismo e antifascismo. Siamo una rete di realtà autogestite che operano in diversi territori e sono attive da molti anni. Muovendo da questi principi, portiamo avanti le nostre attività nel tentativo di formare spazi di comunità nuovi e aperti.
Il nostro agire vede la lingua come strumento di emancipazione, autodeterminazione e autorealizzazione, necessario e imprescindibile. L’insegnamento della lingua italiana non deve essere garantito in modo elitario e selettivo, ma deve essere accessibile a tuttə, a prescindere dallo status politico e dalla situazione economica. Riteniamo che solo dove siano garantiti a tuttə il diritto di esprimersi e di contribuire alla costruzione della collettività e del bene comune, partendo da e valorizzando la propria diversità, allora si possa parlare di libertà. Inoltre, riteniamo che dove l’accesso ai diritti sia negato, allora si debba parlare di privilegio, non di stato di diritto. Perciò, ci impegniamo a offrire sostegno e orientamento legale a tutti coloro che ne necessitano.
Non possiamo più tacere la realtà con cui ci confrontiamo nella nostra esperienza. Essa è frutto delle scelte fatte a livello politico negli ultimi 30 anni e sta portando a un progressivo logoramento della libertà di movimento sotto numerosi aspetti.
Il sistema d’accoglienza
Il cosiddetto sistema di accoglienza, ad oggi, non viene visto in termini di possibilità, ma di oneri inutili, se non dannosi, da ridurre quanto prima ai minimi termini. In questo senso, si rivelano paradigmatici i tagli operati da tutti i decreti approvati o in approvazione finora, da governi dell’una o dell’altra parte (si veda la riduzione di spesa prevista dal decreto Cutro, cui consegue lo smantellamento di servizi essenziali quali il supporto psicologico, l’assistenza legale, l’apprendimento della lingua italiana ecc.[1]).
Proprio a causa di ciò, ci troviamo sempre più spesso a colmare, volenti o nolenti, le mancanze strutturali che lo Stato genera, ma di cui non vuole deliberatamente farsi carico. Troviamo questa situazione non solo soncertante, ma addirittura criminale. Dapprima, le istituzioni rendono vincolanti determinate condizioni per poter ottenere diritti. Dopodiché, si affidano in maniera aleatoria all’esistenza di realtà e associazioni del terzo settore che forniscano quei servizi e tutele che possano portare all’adempimento di tali richieste. In altre parole: si crea un meccanismo per cui si obbliga ad adempiere doveri, senza far sì che si venga messi in condizione di poterlo fare, lasciando così gli individui in uno stato di marginalità e criminalizzazione – illegali solo per il fatto di essere in un luogo.
Come scuole e sportelli legali, esperiamo quotidianamente in prima persona gli effetti di questi fenomeni.
La lingua italiana come requisito per l’integrazione e non come diritto
La conoscenza dell’italiano ai livelli B1 e A2 è vincolante per l’ottenimento rispettivamente della cittadinanza e del permesso di soggiorno di lungo periodo. Così, uno strumento di autodeterminazione diventa un criterio di selezione e legalità, fonte di possibile criminalizzazione. In tutto ciò, l’unico servizio attivato per apprendere la lingua è quello fornito dai Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti – CPIA (centri EDA in Trentino), che non riescono però a soddisfare, per carenza di fondi ed esplicita volontà politica, i bisogni e le richieste da soddisfare. Innanzitutto, agli iscritti ai corsi viene richiesto un contributo economico che, per quanto non particolarmente oneroso, grava comunque su situazioni difficili e talvolta risulta motivo di esclusione. Inoltre, sono lunghissime le liste di attesa per chi richiede di frequentare i corsi, che sono in numero sempre più ridotto a causa dell’esiguità di spazi e personale (i CPIA non godono di sedi proprie, ma sono ‘ospitati’ da istituti scolastici già esistenti). Come se non bastasse, si assiste alla situazione paradossale in cui alcuni enti statali non riconoscono la validità dei titoli emessi da questi Centri, che sono essi stessi gestiti dallo stato.
La residenza: un diritto per pochi
Entriamo a contatto con l’impossibilità di poter soddisfare i requisiti per vivere più o meno stabilmente sul territorio a pieno diritto. L’idea che il permesso di restare legalmente in un luogo sia assoggettata all’ottenimento concomitante di residenza – o della dichiarazione di ospitalità, anch’essa difficilmente reperibile – occupazione e documenti è quasi irrealizzabile.
Infatti, se da un lato per le soggettività migranti l’accesso a un reddito risulta già molto difficile di per sé, è ulteriormente complicata dal fatto che il contratto di lavoro è vincolato alla possibilità di ottenere un permesso di soggiorno. Persino laddove si riesca ad accedervi, il diritto alla casa è comunque sovente negato; nell’assoluta maggioranza dei casi, i proprietari rifiutano le proposte a causa della diffidenza nei confronti di chi viene troppo spesso dipinto come un criminale dalle istituzioni e dai Mass Media. Non è neppure possibile, per nessun ente o realtà interessata, porsi come garante tra il privato e le persone in cerca di alloggio. Conseguentemente, nelle nostre città ci sono numerose persone costrette a vivere in situazione di marginalità, che nei casi più gravi ha portato addirittura a dei decessi[2]. In aggiunta, gli enti locali continuano a non dare accesso alle case popolari, a non creare strutture che accolgano chi non ha dove vivere (se non in modo estemporaneo per le cosiddette ‘emergenze freddo’) e a non rispondere alle ripetute richieste che anche noi, come spazi sociali, abbiamo avanzato per poter ottenere la residenza fittizia per coloro che non hanno un alloggio. Diritto che, purtroppo, risulta essere sotteso al vincolo della regolarità della propria posizione sul territorio (impossibile da mantenere, nel momento in cui non si ha la possibilità di vivere stabilmente in un luogo).
L’accoglienza non si attua con politiche securitarie e repressive
In questo contesto di astrusità burocratiche, di vuoto istituzionale e di taglio alle spese, il logos politico e pubblico è sempre più imperniato sulla repressione e la sicurezza. Anziché preoccuparsi di garantire i diritti di tuttə, si investono energie e risorse nel potenziamento del sistema di controllo e repressione (purtroppo, anche in altri numerosi ambiti). É solo in questo senso che possiamo leggere eventi come la sospensione del patto di Schengen, il rafforzamento della sorveglianza alle frontiere interne ed esterne allo stato, l’armamento delle forze di ordine pubblico, la creazione obbligatoria in tutte le regioni di Centri Per il Rimpatrio (CPR; che altro non sono che carceri per chi detenuto non potrebbe essere, in base alle nostre leggi), l’apertura di Hub di accoglienza in zone periferiche della città (appositamente nascosti alla popolazione e insufficienti a garantire diversi beni di prima necessità), nonché il carattere facoltativo della presenza di servizi di accoglienza ordinaria nei territori (a fronte di quella obbligatoria dei CPR).
Il lavoro nel “terzo settore”: tra precarizzazione, sfruttamento e speculazione
Oltre a chi dovrebbe essere ‘accolto’, questo sistema mantiene in stato precario e limita le possibilità anche di tuttə quellə che lavorano e gravitano attorno all’accoglienza. Sono infatti molteplici le persone che, occupate in cooperative e associazioni, vengono sottopagate, sottoposte a contratti precari ed escluse dalla possibilità di ricevere gli strumenti necessari per poter svolgere la loro mansione al meglio delle loro possibilità.
In aggiunta, questo meccanismo scopre il fianco a chi, tra i molti, vede in tutto ciò una possibilità per arricchirsi a spese della collettività, approfittando del fatto che la vittoria dei bandi prefettizi per la gestione dei servizi dell’accoglienza è basata sull’offerta economicamente più vantaggiosa. Troppo spesso siamo venuti a conoscenza di come cooperative e altre realtà imprenditoriali abbiano approfittato in modo criminale di questa situazione, sfruttando, umiliando e discriminando.
È ancora ipotizzabile vedere qualcosa di positivo in questo sistema?
La nostra risposta, decisa e unanime, è negativa. Riteniamo infatti che non sia il meccanismo che non stia funzionando correttamente, ma che siano il modo e la logica stesse in cui esso è stato concepito che siano distorte e sbagliate. In realtà, ci accorgiamo che, se lo intendiamo come un sistema mirato a emarginare, criminalizzare e reprimere la diversità, il ‘congegno accoglienza’ funziona anche troppo bene.
Di conseguenza, abbiamo deciso di costituirci come rete e di mobilitarci attivamente per mostrare e rovesciare l’ipocrisia di questo sistema. Esso, da un lato, attribuisce alle persone in movimento la responsabilità degli effetti della migrazione. Dall’altro, manca di investimenti sulla loro libertà e sulla garanzia dei loro diritti e spende – economicamente, mediaticamente e organizzativamente – nella repressione, nella creazione di irregolarità e sfruttamento e nella violazione della dignità e dei diritti di tutti. Ci rifiutiamo di essere sostegno di ciò, anche se ci troviamo sempre più sovraccaricati nel nostro agire, in quanto sono materialmente sempre meno i soggetti che operano in questi settori e si battono in questo ambito.
In conclusione, condanniamo quelle istituzioni che dovrebbero garantire diritti e rigettiamo l’idea di dover assolvere e sopperire agli obblighi che esse stesse prevedono e che esplicitamente delegano a soggetti terzi. Esigiamo un cambio nel modo di guardare e di gestire ciò che viene da ormai decenni descritta come un’emergenza in cui sia possibile sospendere lo stato di diritto, ma che in realtà costituisce una costante connaturata alla storia umana e un diritto internazionale. Esistono politiche e linee di finanziamento ramificate a tutti i livelli (europeo, statale, regionale e territoriale) per il controllo e la repressione, mentre manca la costruzione di reti territoriali reali per una collettività più giusta. Denunciamo e chiediamo quindi che le istituzioni rispondano a queste mancanze e invitiamo chi si riconosce in queste parole a unirsi a noi e prendere parola in forma comune.
Scuola di italiano Moussa Balde, LSA Paratod@s – Verona
Scuola di italiano Liberalaparola – Ass. Open Your Borders, CSO Pedro – Padova
Welcome refugees, CS Bocciodromo – Vicenza
Scuola Libera La Parola, CS Bruno – Trento
Scuola Marielle Franco, CS Arcadia, Schio
Scuola LiberaLaParola, centro Dedalo – Mira
Scuola di italiano Fuoriclasse, CS Django – Treviso
Bozen solidale, Spazio autogestito 77- Bolzano