A noi due! Conversazione con Gianluigi Bodi su “Un posto difficile da raggiungere” 2/2

di Alessandro Cinquegrani

Un tema che ritorna spesso è il lavoro, soprattutto in chiave negativa come perdita del lavoro, o anche come attaccamento morboso e insensato a una macchina. È un tema classico, declinato da tanti autori anche in opere recenti. Però nella tua prosa non lo percepisco come un tema socialmente sensibile, ma piuttosto sempre come una questione privata. Sbaglio? O è una prospettiva che vuoi mantenere?

Penso che la tua analisi sia corretta. Il lavoro, fin da quando sono piccolo, ha sempre rivestito un ruolo importante per me. Io ho iniziato a lavorare praticamente da ragazzino e l’idea che c’era alla base era sempre quella del: non puoi non fare nulla. Diciamo che molti hanno ottimi ricordi delle estati di quando erano bambini, i miei si aggirano tutti attorno al lavoro perché l’estate era quel momento dell’anno in cui perdevo il contatto con i coetanei e mi infilavo in un mondo popolato da adulti. Però non lo dico con uno sfondo di vittimismo, era così per molti di noi, almeno all’epoca. C’era chi lavorava nei campi e veniva trattato come un adulto, c’era chi dava una mano nel negozio dei genitori, c’era che veniva mandato a fare l’apprendista in qualche bottega artigiana. Per questo motivo, per quel che mi riguarda, il lavoro è prima di tutto una questione personale. Non è che non veda l’esistenza di una questione sociale e non ne voglio nemmeno sminuire l’importanza, ma quella questione sociale si riverbera i milioni di questioni personali e nelle storie che racconto lo sfondo sociale si fa da parte per mostrare le persone che con il lavoro ci devono vivere, che devono nutrire i familiari, che devono vestire i figli.
Non so se manterrò sempre questa prospettiva, magari un giorno mi verrà voglia di affrontare la questione a un livello più alto, ma al momento non credo di averne gli strumenti più che altro perché la società in cui viviamo cambia a ritmi così vertiginosi che spesso mi rendo conto di non riuscire stare al passo.

“Racconto di Natale”

Eros e Thanatos: un grande tema archetipico, per lo più declinato sul fondo della festa. Mi viene in mente Eyes Wide Shut, dove pure questi temi vengono declinati sullo sfondo della festa e l’Eros resta soltanto alluso e inespresso come avviene nel tuo racconto. Ho notato però che quando affronti questi grandi temi che vanno al di là del tuo personaggio più tipico ricorri al doppio, come se avessi bisogno di una mediazione, come se non riuscissi a guardare direttamente queste cose ma delegassi un personaggio narrante a vedere e interagire con questi grandi archetipi. Succede qui e succede per Il vecchio in bicicletta, dove pure c’era un altro grande tema assoluto, per così dire, come l’utopia. Mentre sei molto diretto col tuo personaggio tipico, l’uomo solo e disprezzato dagli altri, qui sembra quasi ci sia un’esitazione dell’autore, il bisogno di guardare l’immagine riflessa piuttosto che la cosa in sé. Ti riconosci in questa lettura?

Credo di capire quello che dici. Io stesso mi sono reso conto che, almeno all’inizio, avevo bisogno di porre una certa distanza tra me e quello che scrivevo. Negli anni ho cercato di individuare il motivo di questo distanziamento ma mi sono reso conto che non ce n’era uno solo, che i motivi erano molteplici e che cambiavano mano a mano che cambiava il mio modo di scrivere. Inizialmente il distanziamento mi serviva per mascherare una certa mancanza di fiducia e l’insicurezza di chi muove i primi passi e non è convinto di riuscire a difendere la propria opera. Poi mi è servito per prendere confidenza con i temi che ciclicamente tornavano e che ora sento più miei. In un certo senso era come studia-re un manuale di meccanica prima di mettersi a smontare il motore. Nel racconto che hai appena letto il tema del doppio c’è ed è evidente, ma a mio modo di vedere l’ho utilizzato non come strumento di distanziamento ma come alter ego del protagonista. Nella mia visione di questo racconto è come se i due uomini siano in realtà una stessa persona. Se vogliamo, citando un vecchio film pop come “Sliding Doors” il protagonista è sempre lo stesso che però ha fatto due scelte diverse: Eros e Thanatos.
Durante tutto il racconto la domanda del protagonista che rimane sottointesa è: E se lo avessi fatto io? A me serviva, narrativamente parlando, che questa domanda fosse ben presente e che il lettore ricordasse il momento iniziale del racconto anche quando i toni si fanno più festosi.

Un altro punto che lega questo racconto a Il vecchio in bicicletta (e forse anche al Gatto morto) è il fatto che entrambi nascono da una immagine, direi da una visione. Mentre altri nascono da un personaggio o da una situazione. Sapresti ricostruire il processo creativo dei tuoi racconti? Capire da dove nascono?

Io non so come funzioni per gli scrittori di serie A, non so se abbiano un modus operandi sempre uguale a se stesso e se lo seguono pedissequamente. A me non capita. Mi piacerebbe avere un metodo unico, arrivare a possedere quello che a volte viene chiamato “mestiere”. Non è così.
Il più delle volte, te lo confermo, tutto parte da un’immagine. Qui sono partito dall’immagine di un uomo che stava camminando molto vicino all’orlo del binario e mi sono chiesto cosa sarebbe successo se… Anche ne “Il vecchio in bicicletta” è andata così. Mi piace partire da un’immagine per creare attorno a essa una storia compiuta, un’interpretazione di quell’immagine che coinvolga personaggi e trama.
Altre volte parto da una domanda, un classico What if?
Ma mi è anche capitato di avere avuto la necessità di buttare fuori qualcosa che avevo dentro, di elaborare uno stato d’animo, di dare una risposta personale a questioni più grandi di me.
Non so se quella che ti sto dando sia una risposta “professionale”, ma è la migliore che posso darti al momento.
In generale ti direi che i miei racconti nascono da un’esigenza che è quella di immaginare, di creare storie, di far vivere i personaggi. Questo è il fine ultimo. Il seme che porta a questo risultato ha probabilmente nature diverse e chissà, forse in futuro mi specializzerò in un metodo unico.

“Limonium Vulgare”

Scommetterei almeno un paio di centesimi sul fatto che questo racconto è stato scritto prima degli altri. La ragione è eminentemente tecnica. Ricordo bene il momento in cui la tua scrittura è cambiata. Ci conoscevamo da poco, era forse una decina di anni fa, e parlavamo molto di questi temi. A un certo punto hai capito, quasi come un’illuminazione che la scrittura letteraria è diversa dalla scrittura tradizionale, da quella imparata a scuola. Hai scoperto la velocità che – lo dice bene Simonetti – è la caratteristica principale della nostra letteratura. Per ottenere questa velocità, il modo più semplice e immediato è la frammentazione dei periodi. Si tratta di una tecnica anche molto criticata, ma credo che ci sia modo e modo di utilizzarla. Ho l’impressione che all’inizio ricorressi a questa tecnica in modo più rigoroso, mentre poi hai cominciato a utilizzarla in modo forse più personale poiché ne avevi assorbito la tecnica. Ecco, mi sembra che questo racconto appartenga al periodo più rigoroso. I periodi sono più brevi, più frammentati. Però devo dire che la cosa funziona e il racconto scorre molto bene. Ma l’altra cosa molto efficace è che forse proprio in virtù di questa tua ricerca, hai costruito un personaggio che ha lo spazio che deve avere. Nei primi racconti avevamo parlato del rischio di ingombrare un po’ i personaggi, cioè che la tua figura di autore finisse non dico per soffocare ma almeno per stare addosso ai personaggi, senza lasciare loro la possibilità di esprimersi completamente. Ora invece crei un personaggio a tutto tondo, con una sua storia, una sua parabola e un suo destino. E proprio questa libertà che lasci al personaggio permette agli altri personaggi di crescere meglio. Pensa al padre: è certamente il personaggio minore più efficace della raccolta (almeno fin qui). Mi capita di dire in alcuni corsi di scrittura che se un autore mette tutto se stesso nel personaggio principale resta poco da dare agli altri. Qui riesci invece a gestire il sistema dei personaggi nel modo migliore pur narrando il tuo tema, cioè il male del mondo. Probabilmente conta il fatto che la protagonista sia una donna, quindi necessariamente è sufficientemente lontana da te. Non è una domanda, in effetti, ma se davvero questo racconto è stato scritto prima degli altri, forse potrebbe essere l’occasione per un bilancio sull’evoluzione della tua scrittura.

Inizio con il dirti che in effetti la prima versione di questo racconto risale a parecchi anni fa. La struttura di base era la stessa, l’ambientazione pure, cambiavano alcuni particolari minori e cambiava il finale. Quando, più di recente, ho deciso di riscriverlo perché la storia continuava a piacermi e perché secondo me la protagonista e il padre avevano delle potenzialità ho voluto mantenere inalterata la voce e la struttura. Ecco quindi che è rimasto quell’utilizzo rigoroso della frammentazione del periodo.
Detto questo, non so se sono in grado di fare un bilancio dell’evoluzione della mia scrittura. Un bi-lancio secondo me viene bene quando si è profondamente consapevoli della propria scrittura e dei propri mezzi e a me pare di non essere ancora riuscito a raggiungere una forma definitiva, come se fossi ancora nel pieno di una fase di profonda evoluzione.
Un paio di cose però penso di averle capite. Rispetto alle prima cose che scrivevo che erano molto più asfissianti credo di aver imparato a far respirare un po’ la storia. Mi capitava di scrivere un racconto e siccome si trattava comunque di una storia cupa tutto il tono del racconto restava cupo e il ritmo era quasi monotono. Mi sono reso conto che per rendere ancora più buie le zone d’ombra c’è bisogno di un po’ di luce.
Di conseguenza credo di aver fatto qualche passo in avanti anche sulla gestione del ritmo all’interno del racconto e anche sulla costruzione della trama.
Si tratta di un work in progress naturalmente perché, per come la vedo io, sono solamente all’inizio di un percorso che mi auguro mi porti a guadagnare una certa lucidità e consapevolezza in riferimento alle cose che scrivo.

Un personaggio distante da te, dicevo, ma anche, finalmente, ricorri a un’ambientazione che è molto tua, che conosci molto bene e che è estremamente suggestiva: quella di un luogo di villeggiatura molto noto, Jesolo, con le sue dinamiche stagionali e le ricadute che questo ha sulla popolazione. Ma lo racconti in modo molto autentico, senza stereotipi, proprio perché lo conosci bene: penso ad esempio al padre della protagonista che lavora nei campi, o alla metafora dell’Islanda. Io credo che questa sarebbe l’ambientazione perfetta per un romanzo. Che rapporto hai con questi luoghi dove sei cresciuto?

Quando sentivo dire che uno scrittore dovrebbe scrivere solo di ciò che conosce mi veniva un attacco di depressione perché, devo ammettere, c’è poco che io conosca davvero. Ho una buona dose di curiosità, mi piace imparare cose nuove ma “conoscere” per quel che mi riguarda ha un significato pro-fondo.
Come dici bene tu, Jesolo e Cavallino (il posto in cui sono vissuto fino ai trent’anni) sono la mia terra, sono un paesaggio che conosco bene, hanno delle dinamiche che conosco (o almeno conoscevo).
Anni fa ho scritto un racconto che aveva come ambientazione proprio questo scenario e l’ho presen-tato a un concorso letterario. Mi è stato detto che non se ne poteva più di racconti ambientati in provincia. Ecco, quel commento sprezzante devo dire che mi ha ferito e ha prodotto un blocco di parecchi mesi. Se dovevo scrivere di quello che conoscevo e quello che conoscevo aveva rotto le scatole che spazio c’era per me?
Il tuo primo libro, che io considero uno dei libri più belli che io abbia mai letto e che tuttora mi per-seguita, aveva un’ambientazione provinciale, ma nel secondo, che trovo altrettanto meraviglioso, il respiro è molto più ampio e l’ambientazione è tutt’altro che provinciale.
Io credo che tu abbia trovato il modo per andare oltre perché hai una profonda conoscenza dei temi e della materia che da vita a “Pensa il risveglio”.
La domanda “che spazio c’è per me?” è una domanda che in parte resta ancora aperta anche se al momento mi preoccupa meno. Quello che mi preoccupa è riuscire a scrivere perché non è affatto scontato.
Ho iniziato a scrivere un romanzo ambientato a Cavallino perché ho sentito la necessità di farlo e perché mi pareva di aver trovato la storia giusta da raccontare. Avrà un’ambientazione provinciale? Certo. Sarà un problema? Non ne ho idea ed è prematuro pensarci. Adesso mi interessa portarlo a termine prima di andare in pensione.
Per quel che riguarda il mio rapporto con i luoghi in cui sono cresciuto penso che non sia molto diver-so dal rapporto che tante persone hanno con i luoghi che li hanno visti crescere: odio e amore.
Dal punto di vista paesaggistico il Litorale del Cavallino è uno spettacolo. Barena da una parte, spiag-gia e mare dall’altra. Quando il cielo è limpido, dalla parte della Barena si vedono le montagne e i tramonti sono sempre uno spettacolo di colore.
Quando mi capita di tornare da quelle parti mi trovo sempre bene e l’andarsene è sempre carico di nostalgia.
D’estate Cavallino viene invaso da centinaia di migliaia di turisti e in autunno tutto sparisce nella nebbia. In fin dei conti è un luogo bipolare.
Forse però lo sto sentendo più mio ora di quando non ero ragazzo. Quando ero ragazzo ero convinto che mi stesse stretto, ero certo che “lì fuori” c’era qualcosa che mi aspettava. Non c’era.

“Willa non si allontana mai di casa”.

Ma cosa ti hanno fatto di male i gatti?

Immaginavo che prima o poi qualcuno se ne sarebbe accorto. Alcuni di questi racconti sono stati pubblicati su rivista nel corso degli anni per cui la presenza di gatti, alcuni dei quali destinati a brutta fine, non era mai stata così massiccia come ora.
In realtà i gatti non mi hanno fatto nulla di male e pur non avendone nemmeno io li adoro.
La loro presenza ha a che fare con due cose ben precise. La seconda, sì, inizio dalla fine, è relativa a una cosa detta da Murakami e che ho letto qualche tempo fa. Penso fosse un’intervista che aveva a che fare con “L’uccello che girava le viti del mondo” romanzo che io all’epoca trovai eccezionale. In quell’occasione Murakami disse all’intervistatore che gli capitava di inserire almeno un gatto in ogni cosa che scriveva perché la prima volta che l’aveva fatto era stato pubblicato e quindi si era convinto che i felini gli portassero fortuna. A me è capitata una cosa simile quindi quando posso inserisco sempre un gatto.
Ma la ragione principale in realtà è la prima. Per me il gatto incarna vari aspetti dell’essere umano. In-carna l’indipendenza, l’indolenza, il fascino, la pericolosità e tante altre caratteristiche. I gatti sono animali misteriosi. In questo racconto il gatto rappresenta la sanità mentale che viene distrutta dalla malattia.

Questo è quel tipo di racconto che lascia una sensazione strana nel lettore, una sensazione di sospensione, il bisogno di sapere, di capire di più. È così che funziona un racconto: quando continua a lavorare nella tua testa per giorni e non se ne va. In più dai forma a qual-cosa che conosciamo ma a cui non sappiamo dare un nome, diventa qualcosa di mitologico. Per fare questa operazione, letterariamente eccellente, c’è bisogno di una grande fiducia nei propri mezzi e anche nel lettore. Non c’è bisogno di spiegare, di dare formule e soluzioni. Ho l’impressione che l’autore di questo racconto sia diverso da quello dei primi, quello mi sembrava più esitante, meno fiducioso, aveva bisogno di dire, di rendere esplicito. Credo che qualcosa di decisivo sia cambiato. Non è necessariamente un giudizio di merito, anche se io preferisco questo autore, mettermi accanto a lui e guardare con stupore le vicende di questi personaggi.

Io e te ne abbiamo parlato di recente. Nei giorni successivi alla pubblicazione di “Un posto difficile da raggiungere” mi sono arrivati alcuni feedback di lettori forti e competenti. Ciò che mi ha sorpreso è stato constatare che ognuno di loro, come è ovvio che sia, aveva uno o due racconti che preferiva rispetto agli altri, ma che questi racconti raramente combaciavano. Qualcuno ha amato molto “La macchina che produce gli ingranaggi” che, se non ho capito male, rientra un po’ nel filone del “rende-re esplicito” mentre altri hanno apprezzato di più “Willa non si allontana mai da casa” e “Gli inquilini del piano di sotto” che invece potremmo far rientrare nei racconti “fiduciosi”.
Potrei essere tentato di dirti che la diversità che vedi sia una questione di pura e semplice evoluzione della scrittura, ma non sono sicuro che sia davvero solo questo aspetto a differenziare i racconti. Credo che una parte della differenza nasca anche dal tipo di storia che ho raccontato. Nel caso de “La macchina che produce gli ingranaggi” ho lavorato molto di più sul dettaglio, ho sentito l’esigenza di raccontare attimo per attimo alcune scene perché io stesso le vedevo nella mia mente dipanarsi attimo per attimo.
Con “Willa non si allontana mai di casa” invece, forse anche per il fatto che l’input iniziale me l’ha dato l’immagine di un cielo oscuro illuminato da lampi e con i tuoni che sembravano colpi di tamburo, ho proceduto in maniera diversa, con un taglia e cuci, se mi permetti il termine, più intenso e calcolato. Inoltre, in questo racconto, non era importante per me che il lettore arrivasse alle mie stesse conclusioni, ma che percepisse una sorta di perturbazione nell’anima del personaggio principale.

“La statua sulla colonna”

Anche questo racconto è come il precedente. Crea un mito macabro, lavora forse sugli stessi temi dei primi racconti, ma la sua dimensione irrazionale crea uno spazio dell’immaginazione inedito. La statua è proprio il simbolo del perturbante. Si ha la sensazione di affondare nell’inconscio. Quasi che siano nati in uno stato di trance visionaria. Ti ci riconosci?

Il perturbante mi affascina molto, non c’è dubbio. Amo poi quei racconti in cui la narrazione resta sempre in bilico tra il naturale e il soprannaturale, quei racconti in cui tutto sembra filare per il verso giusto e poi, un singolo elemento, ci fa capire che quello che abbiamo letto fino a ora non ha nulla a che vedere con il mondo che ci circonda ma si incastona in una realtà altra che può essere inquietante e spaventosa.
La statua di questo racconto è una specie di idolo, qualcuno a cui si presenta un sacrificio. Inizialmente è una presenza garbata mentre alla fine è un catalizzatore della pazzia.
In una delle domande precedenti hai parlato di “racconto sull’ansia”. “La statua sulla colonna” è la mia idea dell’ansia. Non tanto per quel che riguarda la statua, ma per il rito che compie il protagonista, un rito che fino alla fine sembra essere unico, ma che invece si rivela parte di una serialità terrificante.

Un altro cambiamento riguarda la forma brevissima. Mi sembra sia perfettamente nelle tue corde. Associ a questa forma un genere così perturbante o è un caso?

Mi fai una domanda a cui non avevo mai pensato e non so se ho una risposta concreta da darti, posso però provare a riflettere.
Non credo di associare la forma breve al perturbante, o almeno non a livello coscio. Credo più semplicemente che mi sia più congeniale, raccontando certe storie, mantenere un numero di battute più basso per non diluire troppo la forza della storia.
Credo, per quel che mi riguarda, che nel raccontare storie perturbanti sia necessario trovare un equilibrio che permetta di delineare una cornice ben chiara, portare i lettori in un luogo bene preciso che possa essere ben raffigurato e poi, una volta messi a loro agio ecco che arriva il colpo di accetta sulla nuca.
Questa però è solo una mia idea e, ti ripeto, non avendoci mai pensato prima, non so se in futuro scriverò un racconto perturbante di ottantamila caratteri.

“Gli inquilini del piano di sotto”

Ecco un altro mito macabro, questi racconti hanno una compattezza molto efficace. Mi chiedo se per te questi inquilini abbiano un significato preciso o meno. A me come lettore piace pensare che non ce l’abbiano: in fondo è questo il fascino di raccontare storie invece di dire cose.

Giusto oggi, una persona che ha letto la raccolta, mi ha scritto per dirmi che il suo racconto preferito è stato “Gli inquilini del piano di sotto” perché i carnivori sono la metafora perfetta di questa società che ci sta cannibalizzando.
Io quando ho scritto questo racconto non stavo pensando assolutamente alla nostra società, ma pensandoci bene capisco perché a questa lettrice sia venuto in mente questo paragone e tutto sommato direi che è pure calzante.
Questo racconto nasce dall’influenza di uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi dieci anni e cioè “La carne” di Cristò. Io non uso mai la parola capolavoro, ma per questo libro credo che sia utilizzabile. Volevo riprodurre quelle atmosfere cupe e carnali che mi avevano tanto affascinato, ma l’influenza principale, quella che mi aveva portato a scriverne una prima versione almeno una ventina di anni fa, deriva del racconto “La casa occupata” di Julio Cortázar. Anche in questo caso un racconto perturbante.
Comunque, quando dici che ti piace pensare che gli inquilini non abbiano un significato preciso, sposi la mia stessa linea di pensiero. A me interessava giocare con l’atmosfera, con il senso di angoscia, con la paura per qualcosa di più grande di noi. Vedi? Forse sto parlando ancora di ansia, non è un caso che la versione definita sia nata durate il marzo della prima quarantena Covid. Credo che questa sto-ria abbia assorbito molto del mio stato d’animo.

Poi anche qui c’è la scrittura. L’io narrante scrive prima della sua fine. Forse è un paradigma del tuo modo di intendere la scrittura? Almeno in questi racconti così estremi, così “ultimi”.

L’io narrante scrive prima della sua fine perché vuole lasciare traccia del suo passaggio, vuole lasciare un pezzo di sé anche quando non ci sarà più e, nel suo caso, è disposto anche a lasciare un’immagine terribile.
Non l’avevo pensata in questi termini ma credo che al di là del piacere di raccontare storie, anche io, come molti, scrivendo cerco di aggirare le restrizioni della morte. Forse ho la speranza che ci sia qual-cosa di mio anche dopo che il mio corpo fisico non ci sarà più e i miei neuroni avranno smesso di produrre elettricità.
L’idea della letteratura che rende immortali mi ha sempre affascinato. Ovviamente qui vanno fatte le dovute distinzioni. Per quel che mi riguarda si tratta di un’immortalità relativa, diciamo legata alla cerchia familiare, mentre per altri grandi scrittori si tratta di un’immortalità assoluta. Tutti leggono Kafka, Shakespeare, Dante e altri scrittori di questo calibro. Io non punto a tanto ovviamente, ma la speranza è che ci sia qualche mia storia buona al punto da sopravvivermi. Non so se sia un segnale di arroganza, io la vedo più come paura di ciò che è inevitabile.

“Mi basta Gesù”

Se non sbaglio è la prima volta che parli, sia pure in un modo tragicamente grottesco, di re-ligione o almeno di mito evangelico. Che rapporto hai con la religione? E in più: pensi che questo abbia a che fare con la tua idea di scrittura? Voglio dire: dalle risposte precedenti si evince che tu hai un’idea molto alta della letteratura che addirittura avrebbe il potere di so-pravviverti. È un’idea che per esempio io che dedico la mia vita lavorativa e non solo alla letteratura non ho minimamente. Proprio questa forza di sopravvivere alla propria morte è co-munemente demandata alla religione, invece tu affidi questa sacralità alla letteratura.

Io non possiedo il dono della fede. Invidio che ce l’ha, ma a me manca. Penso che si possa partire da qui per identificare il mio rapporto con la religione. E credo anche, come fai notare tu, che questa mancanza abbia a che fare anche con il rapporto che ho con la letteratura e la scrittura. A volte mi rendo conto di cercare nei libri qualcosa di cui sento l’assenza, cerco di riempire un vuoto passando da un romanzo all’altro anche se mi rendo conto che quel vuoto non si riempirà mai nemmeno se do-vessi leggere tutti i libri mai pubblicati. E forse è anche per questo motivo che ho un’idea molto alta della letteratura. L’ho sempre avuta. Se dovessi cercare di capirne il motivo credo che dovrei tornare all’adolescenza. In casa mia non c’erano molti libri, anzi, praticamente nessuno, ma mia zia lavorava in una biblioteca per cui mi capitava ogni tanto di andarla a trovare e mi piaceva girare per gli scaffali, prendere in mano un libro, leggerne alcune pagine e poi rimetterlo al suo posto. Ho iniziato a leggere con più costanza verso i diciassette anni e quando mi sono trovato tra le mani libri come “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, “La linea d’ombra” o “I dolori del giovane Werther” ho avuto una rea-zione molto forte. Prima di tutto mi sono reso conto che gli autori di quei libri erano morti, ma la loro opera circolava ancora. Poi ho capito che mi sarebbe piaciuto far sentire agli altri le emozioni che avevo provato anche io con dei testi tutti miei. Purtroppo per me, essendo dotato anche di qualche tara caratteriale, il tutto si è risolto con un conflitto tra la voglia di scrivere e l’idea di non esserne de-gno che nonostante tutto continua ancora. Questo è anche uno dei motivi per cui, quando mi acco-stano a uno scrittore famoso, quando cioè mi dicono: sai, questa cosa mi ha ricordato il primo Fante, io non sono mai come rispondere e finisco per fare scena muta. Io capisco bene che l’accostamento non è un accostamento di valori ma di affinità di temi o magari di somiglianza alla lontana eppure mi pare sempre “blasfemo”.
In questo racconto la religione viene accostata a uno dei maggiori simboli del pop che l’umanità abbia mai prodotto e a me piaceva giocare su questo binomio perché entrambi gli elementi, in qualche mo-do, fanno parte di un sistema di fede. Ho voluto metterli sullo stesso piano.

Un tema che nella tua vita è molto importante è quello della paternità, e in particolare del bi-sogno di protezione verso i figli. Nei tuoi racconti non compare molto se non qui e forse in Limonium vulgare. Come mai tocchi così poco un tema che ti è così caro secondo te?

Bella domanda. Pensa che per quel che mi riguarda quello del rapporto padre e figlio è un tema che ho trattato anche troppo. Probabilmente la mia percezione è diversa perché questo rapporto è il nucleo di un romanzo inedito a cui ho lavorato per anni e quindi ho l’impressione di essere sempre imprigionato in questa tematica. Pensandoci bene, in questa raccolta, anche ne “Il rito” c’è un rapporto padre e figlio, mentre in “Un gatto morto sul ciglio della strada” c’’è, sullo sfondo, una paternità mancata.
Non posso prevedere il futuro ma, siccome questo è sicuramente uno dei temi a cui tengo di più, sono quasi certo che in futuro tornerò a sporcarmici le mani. Soprattutto riguardo alla protezione nei con-fronti dei figli e l’ansia di controllare tutte le minacce sapendo che si tratta di un’impresa folle.

“Bar posta”

Questo racconto parla di “Un posto difficile da raggiungere” e infatti il protagonista ci arriva per puro caso dopo alcune vicissitudini. Questo posto è una sorta di cronorifugio privato, per dirla con Gospodinov. Pensi che possa essere una delle chiavi di lettura dell’intera raccolta? Una sorta di rifiuto del presente e un desiderio di rifugio in un passato irraggiungibile?

“Bar posta” è indubbiamente un rifugio. La sua genesi ha a che fare con la mia infanzia. Prima di tutto il Bar posta in qualche modo esiste davvero. E’ semplicemente un collage di alcuni luoghi che ho frequentato da bambino quando andavo in vacanza in Toscana con i miei genitori. Avevo dei parenti lì, li andavamo a trovare tutte le estati e quando facevamo una gita tra i tornanti restavo sempre affascinato da questi piccoli locali che sembravano provenire da un’altra epoca. Erano completamente diversi da quelli che ero abituato a frequentare io nel mio paese. C’era, in questi posti, la sensazione che il tempo andasse a una velocità diversa, più lenta e che una parte del mobilio provenisse da un’epoca lontanissimo. Nel posto in cui andavo c’era davvero una saletta sotterranea in cui avevano messo una cabina telefonica, c’erano davvero gli anziani che giocavano a carte, guardavano il Giro d’Italia e bestemmiavano. E c’erano i gagliardetti, la polvere depositata, le file di liquori dai colori e dai nomi più improbabili. Ho semplicemente preso da dentro di me qualcosa che mi aveva affascinato quando ho sentito la necessità di rallentare il ritmo. Di ascoltarmi meglio. Questo è quello che fa il protagonista, inizia ad ascoltarsi.

Il protagonista di questo percorso a ritroso nel tempo è il solo, mi sembra, tra i tuoi personaggi che abbia un buon lavoro e una sorta di realizzazione professionale. Eppure è proprio lui a vivere in modo più esplicito il desiderio di tornare a un passato più umile. C’è in questo anche una critica sociale? E – te la pongo come provocazione – non c’è un po’ un rischio che il messaggio sia che si stava meglio quando si stava peggio, cioè una sorta di messaggio qualunquistico, fuori dalla realtà, secondo cui i poveri sono felici e i ricchi piangono?

Quella che tu poni come provocazione è un dubbio che mi ha accompagnato fin dalle prime fasi di stesura di questo racconto. Se il lettore dovesse percepire che il messaggio è appunto “ i poveri sono felici e i ricchi piangono” allora significherebbe che ho scritto un racconto che non funziona perché il mio messaggio, se davvero un messaggio vuole esserci, non ha nulla a che fare con la bellezza del mondo bucolico. A me interessava guardare all’aspetto del ritmo che ognuno di noi imprime nella propria vita e alla successione di tappe, spesso serrate, che ci costringiamo a toccare per sentirci realizzati.
“Bar posta” non è un racconto sul passato meraviglioso e puro messo a confronto con il presente orrido e cattivo, ma è un racconto che parla di tempo, di assaporare le cose con calma, di riscoprire il gusto per le piccole cose. Niente di tutto ciò è impedito al ricco. Il protagonista non decide di lasciarsi tutto alle spalle buttando alle ortiche una vita di sacrifici, ma decide di fermarsi un attimo, guardarsi attorno, vivere l’esperienza che gli è capitata per caso. Poi io sono convinto che ci sia una certa saggezza nelle cose di una volta, ma che la stessa saggezza possa essere ritrovata anche oggi, deve so-lo essere scovata e per farlo c’è bisogno di poco rumore di fondo.

“Invictus Maneo”

Carino il gioco di parole del titolo con lo zaino Invicta. Ma mi piace come sei in grado di creare un’atmosfera passata attraverso oggetti, canzoni, programmi televisivi. Però vorrei tornare sulla genesi dei racconti e sul rapporto con la realtà perché mi pare che questo racconto aiuti molto a ragionare su questo. Tu in Inghilterra sei stato da studente, forse proprio a Reading (non mi ricordo esattamente), dove è ambientato il racconto. Non so se ci sia un reale discrimine ma provo a chiederti: un racconto come questo secondo te serve a raccontare quella tua esperienza, ovviamente trasfigurandola narrativamente, oppure Reading è lo sfondo di un racconto che poteva anche essere ambientato altrove?

Sì, io ho fatto l’Erasmus a Reading un posto che non avevo mai sentito nominare e che poi è diventato importantissimo per la mia vita. Al di là di questo aspetto autobiografico, credo che questo racconto potesse nascere solo con lo sfondo di Reading e in un certo senso è profondamente legato all’avventura Erasmus.
I due protagonisti di questo racconto si trovano a condividere uno stesso luogo. Il fatto di essere italiani in terra straniera, come spesso succede, li avvicina anche se a dirla tutta non sembrano avere molti punti in comune. Ma la cosa più importante, per me, è che i due protagonisti vivono la città in maniera diversa, per uno di loro è un punto di partenza mentre per l’altro è un punto di arrivo. Tu parli di atmosfera creata con oggetti, canzoni, programmi TV. Io credo che siano i dettagli apparentemente più insignificanti a rendere più credibili le storie che scriviamo. Nei gli anni novanta fino ai primi anni duemila, se all’estero vedevi uno zaino Invicta sapevi che chi ce l’aveva sulle spalle era un italiano. E sapevi che quello zaino sarebbe stato pieno di spillette e scritte e che quelle scritte sarebbero cambiate in base alla boy band del momento. Sono questi dettagli che mi tengono ancorato a una storia.
Cerco di concludere. In questo racconto non ho voluto raccontare la mia esperienza da studente Erasmus, ho voluto provare a raccontare ciò che succede nel momento in cui incontri una persona in un dato momento della tua vita, una persona che non hai mai visto prima e non vedrai dopo, ho voluto provare a raccontare delle cose che ci lasciamo addosso quando ci avviciniamo l’un l’altro, quelle spillette che attacchiamo ai nostri zaini.

Torni al tema del doppio, dell’essere o non essere l’altro che si incontra casualmente. Si sente molto qui il mistero della vita, o meglio direi delle vite potenziali, delle sliding doors. Io direi che questo mistero è il bello della vita, invece sembra che a te spaventi, forse perché incontrollabile. È così?

Adesso di parlo di pagina bianca. Quando mi metto a scrivere e ho davanti una pagina bianca molto spesso mi si affaccia davanti agli occhi un turbinio di linee e simboli, quasi una matassa. Da quella matassa io devo estrapolare qualcosa che abbia un senso. Voglio raccontare una storia, ho magari già chiaro il personaggio principale, ciò che gli può succedere e magari ho addirittura il finale. Sembra una situazione vincente, no? Eppure io, davanti a quella pagina bianca, davanti a quel groviglio indistinto che mi si para davanti continuo a chiedermi: qual è la strada giusta? Qual è l’unica strada che deve percorrere questa storia? La strada che può rendere questa storia unica.
E quindi sì, si stratta di lavorare continuamente sulle sliding doors, di scegliere di volta in volta da quale parte del bivio girare.
Poi quando ho messo il punto finale mi fermo a pensare se ho davvero scritto la migliore versione di ciò che avevo in mente, se invece non debba tornare indietro di qualche pagina e, a quel bivio lì, prendere l’altra strada.
Non sono spaventato da queste infinite possibilità perché in effetti, mal che vada, il racconto resta nel cassetto assieme a gli altri. Mi rendo conto però che a volte mi capita di pensarla in questi termini anche in relazione alla vita di tutti i giorni e so che utilizzare lo stesso sistema pensato per i racconti è impossibile. So che le sliding doors nella vita ci sono e so che spesso nemmeno ci accorgiamo di averne attraversa una eppure la tendenza a rimuginare sul “What if” è sempre presente.
Penso sia una delle cose più efficaci per generare ansia per cui sto cercando di lavorarci un po’ su per limitare la sua presenza nella mia vita.

“Il bambino interiore al campeggio”

Il bambino interiore rappresenta in qualche modo l’aspettativa altrui, se capisco bene, l’invito implicito ad essere o non essere in un certo modo. Il protagonista lo scopre in modo inaspettato e inconscio, da una persona che quasi disprezza forse anche per le differenze sociali. Sembra che lo viva come una pressione negativa, però alla fine ha un influsso positivo sul protagonista. Come interpreti questa pressione inconscia che in fondo è in tutti noi?

Qui torniamo in qualche modo ai racconti che sono legati al territorio in cui ho passato la mia infanzia, la mia adolescenza e in cui sono diventato adulto.
Il bambino interiore è, nel racconto, quella parte del nostro cervello che ci avvisa che stiamo per rag-giungere una tappa ben precisa o che dobbiamo lasciarci alle spalle un momento della nostra vita. Per chi ha vissuto la stagionalità rigida che vivono gli abitanti delle mete turistiche sa che anno dopo an-no alcune dinamiche si ripropongono. Aprono i campeggi, iniziano ad arrivare i primi turisti tedeschi, poi arrivano i turisti danesi, poi ritornano i tedeschi e infine, in massa, arrivano gli italiani e poi, a settembre, quello che era in principio uno spiazzo verde costellato di roulottes, tende e camper, diventa di nuovo uno spazio vuoto e desolato. L’anno dopo riparte tutto da capo e, di anno in anno, inizi a pensare che il tempo non vada veramente avanti, che tutto sia bloccato in un perenne ora fatto si spiagge e pelle abbronzata.
A un certo punto per me è arrivato il bambino interiore che, in fin dei conti, non ha fatto altro che dirmi: guarda che è ora di andare avanti, per te è ora, puoi andare avanti mantenendo un contatto con il bambino che è in te, quello che sguazzava tra i cavalloni, ma credimi, è meglio se ti muovi perché per te qui non c’è altro.
Il protagonista prende la decisione che fa per lui, altri restano e per loro va bene così, non tutti affrontiamo lo stesso percorso.

Non me l’aspettavo e me ne compiaccio: il tuo romanzo a variazioni finisce bene, il tuo protagonista trova una propria dimensione nella maturità, nella famiglia. Che sia proprio questo il posto difficile da raggiungere? La serenità della famiglia? Forse alla fine l’hai raggiunto anche tu, nonostante le paure, le angosce rappresentate in questo libro, quel posto così difficile e in fondo così semplice? Te lo auguro.

Alessandro Busi, scrittore e psicologo, dopo aver letto il mio libro mi ha scritto per dirmi che gli era sembrata una raccolta piena di speranza. A me piace pensare che lui abbia ragione perché, anche se qualcuno, in passato, mi ha detto che scrivo sempre cose tristi, per me la speranza sta anche nel far intravedere che c’è uno spiraglio tra le nuvole che abbiamo davanti a noi.
Il protagonista di “Un gatto morto sul ciglio della strada” avrà vita facile dopo il finale del suo racconto? Assolutamente no. La protagonista di “Limonium Vulgare” avrà la vita e il lavoro che desidera? Non ne ho idea, me lo auguro, ma non lo posso sapere. So però che davanti a lei c’è uno sprazzo di luce e so che farà di tutto per seguirlo.
Sì, forse il posto difficile da raggiungere è una certa serenità di animo che, per quel che mi riguarda, significa anche sapere accettare i miei limiti e i miei difetti in quanto essere umano imperfetto e capa-ce di errare. Non so se ho raggiunto quel posto, so che mi sembra che la strada sia quella giusta e intanto metto un piede davanti all’altro.

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