Big Serge
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Sono un grande appassionato di scacchi. Sebbene sia solo un giocatore di medio livello, sono affascinato dalle innumerevoli varianti e dagli stratagemmi strategici che i grandi giocatori riescono a creare partendo dalla stessa, familiare apertura. Nonostante sia un gioco antico (le regole attuali erano nate nel XV secolo in Europa), ha resistito all’enorme quantità di potenza di calcolo che gli è stata dedicata negli ultimi anni. Anche con i potenti motori scacchistici moderni, rimane un gioco “irrisolto”, aperto alla sperimentazione e ad ulteriori studi e riflessioni.
Un adagio scacchistico, che avevo imparato da ragazzo al club degli scacchi, è che uno dei maggiori vantaggi negli scacchi è quello di dover fare la mossa successiva: una sorta di lezione di prudenza per evitare di essere troppo presuntuosi prima che l’avversario abbia la possibilità di rispondere. Un po’ più avanti, però, si impara un concetto che inverte e perverte questo aforisma: lo Zugzwang.
Zugzwang (una parola tedesca che letteralmente significa “costrizione a muovere”) si riferisce a qualsiasi situazione negli scacchi in cui un giocatore è costretto a fare una mossa che indebolisce la sua posizione (come, ad esempio, un re che è costretto a rifugiarsi all’angolo per sfuggire allo scacco), una mossa che, per evitare lo scacco, lo avvicina ancora di più allo scacco matto. In parole più semplici, Zugzwang si riferisce ad una situazione in cui non ci sono mosse valide disponibili, ma è il vostro turno e dovete muovere. Se vi trovate a fissare la scacchiera pensando che preferireste semplicemente saltare il vostro turno, siete in Zugzwang. Ma, ovviamente, non potete saltare il turno. Dovete muovere. E non importa quale mossa scegliate, la vostra posizione peggiorerà.
L’idea di non avere opzioni valide ma di essere costretti ad agire è diventata un classico nell’era dell’instabilità geopolitica. Gli attori di tutto il mondo si trovano in situazioni in cui sono costretti ad agire in assenza di soluzioni valide. Zbigniew Brzezinski aveva scritto che la geopolitica è simile ad una scacchiera. Se le cose stanno effettivamente così, ad un certo punto arriva il momento di scegliere quali pezzi salvare.
Gerusalemme
È quasi impossibile trovare un’analisi spassionata del conflitto arabo-israeliano, semplicemente perché si colloca direttamente su una concatenazione di linee di faglia etnico-religiose. I palestinesi sono oggetto di preoccupazione per i quasi due miliardi di musulmani del mondo, in particolare nel mondo arabo, che tendono a considerare le sofferenze e le umiliazioni di Gaza come proprie. Israele, invece, è un argomento di raro accordo tra gli Evangelici americani (che credono che lo Stato nazionale di Israele abbia rilevanza per l’Armageddon e il destino della Cristianità) e il gruppo dirigente americano più laico, che considera Israele come un avamposto americano nel Levante. A ciò si aggiunge l’emergente religione dell’anticolonialismo, che vede la Palestina come il prossimo grande progetto di liberazione, simile alla fine dell’apartheid in Sudafrica o alla campagna di Gandhi per l’indipendenza dell’India.
Il mio obiettivo non è quello di convincere nessuno dell’inesattezza delle sue opinioni, di per sé. Vorrei invece sostenere che, nonostante queste potenti correnti emotivo-religiose, gran parte del conflitto arabo-israeliano può essere compreso in termini geopolitici piuttosto banali. Nonostante l’enorme posta in gioco psicologica rappresentata dai miliardi di persone emotivamente interessate all’argomento, il conflitto si presta ancora ad un’analisi relativamente spassionata.
La radice dei problemi risiede nella natura peculiare dello Stato israeliano. Israele non è un Paese normale. Con questo non intendo dire che sia un Paese speciale e provvidenziale (come potrebbe pensare un Evangelico americano), né che sia l’unica radice di tutti i mali. Al contrario, è un Paese unico per due peculiarità, che riguardano la sua funzione e la sua impronta geopolitica, piuttosto che il suo contenuto morale.
In primo luogo, Israele è uno Stato- guarnigione escatologico. Si tratta di una particolare forma di Stato che si auto-percepisce come una sorta di ridotta contro la fine di tutto e che, di conseguenza, diventa altamente militarizzato e propenso ad utilizzare la forza militare. Israele non è l’unico Stato di questo tipo ad essere esistito nella storia, ma è l’unico attualmente esistente.
Un confronto storico può aiutare a spiegarlo. Nel 1453, quando l’Impero Ottomano aveva finalmente conquistato Costantinopoli e posto fine al millenario imperium romano, la Russia altomedievale si era trovata in una posizione unica. Con la caduta dei Bizantini (e il precedente scisma con la Cristianità del papato occidentale), la Russia era ora l’unica potenza cristiana ortodossa rimasta al mondo. Questo aveva creato [nei russi] un senso di assedio religioso di portata storica mondiale. Circondata su tutti i lati dall’Islam, dal Cattolicesimo romano e dai Khanati turco-mongoli, la Russia era diventata un prototipo di Stato-guarnigione escatologico, con un alto grado di cooperazione tra Chiesa e Stato e uno straordinario livello di mobilitazione militare. Il carattere dello Stato russo è stato indelebilmente formato da questo senso di essere assediati, di essere l’ultima ridotta dell’autentica Cristianità e dalla conseguente necessità di avere un gran numero di uomini arruolabili e introiti dalle tasse per poter difendere lo Stato-presidio.
Israele è molto simile, anche se il suo senso di terrore escatologico è più di tipo etnico-religioso. Israele è l’unico Stato ebraico al mondo, fondato all’ombra di Auschwitz, assediato da ogni parte da Stati con cui ha combattuto numerose guerre. Se questo giustifichi gli aspetti cinetici della politica estera israeliana non è il punto. Il semplice fatto è che questa è la concezione innata di Israele. È una ridotta escatologica per una popolazione ebraica che non vede nessun altro posto dove andare. Se ci si rifiuta di riconoscere la premessa geopolitica centrale di Israele – che farebbe di tutto per evitare un ritorno ad Auschwitz – non si potrà mai dare un senso alle sue azioni.
Tuttavia, la natura escatologico-gerarchica dello Stato non è l’unico modo in cui Israele è anormale. È anche piuttosto insolito in quanto è uno Stato colonizzatore-coloniale, [l’unico] del XXI secolo. Israele mantiene centinaia di insediamenti in territori che ha praticamente annesso, come la Cisgiordania, dove vivono mezzo milione di Ebrei. Questi insediamenti costituiscono uno sforzo per strangolare demograficamente i palestinesi e assimilare le loro terre e non possono essere descritti come qualcosa di diverso dal colonialismo. Anche in questo caso, le varie argomentazioni religiose cercheranno di giustificare, o meno, questo fenomeno, ma la realtà che tutti devono riconoscere è che questo non è normale. La Danimarca non ha colonie. Non ci sono villaggi danesi costruiti nel nord della Germania per estendere il dominio danese. Il Brasile non ha colonie. E nemmeno il Vietnam, o l’Angola, o il Giappone. Ma Israele sì.
Così, Israele si sviluppa secondo una logica geopolitica unica, perché è uno Stato unico, con una natura sia del tipo guarnigione-escatologica che coloniale. La fattibilità del progetto israeliano dipende dalla capacità dell’IDF di mantenere una forte deterrenza e di proteggere dagli attacchi gli insediamenti e i coloni israeliani. Questo fatto crea per Israele un senso di vulnerabilità asimmetrica.
“Ma Serge, erudito mascalzone“, vi sento dire. “Non stai usando un gergo geopolitico troppo complesso per confondere la questione?“. Lasciatemi spiegare. In Israele esiste un’asimmetria di sicurezza perché l’IDF deve mantenere una enorme dominanza a tutto spettro rispetto ai suoi avversari, sia in una guerra convenzionale contro attori statali *che* in una difesa preclusiva che possa filtrare efficacemente le minacce a bassa intensità di attori non statali. La condizione di sicurezza di Israele è stata costruita sulla base di vittorie schiaccianti sugli Stati arabi circostanti – la Guerra dei Sei Giorni, la Guerra dello Yom Kippur e così via – ma Israele ha anche bisogno di filtrare e di difendersi costantemente da attacchi a bassa intensità. La fattibilità del progetto coloniale israeliano è garantita solo dalla superiorità di forze dell’IDF e dalla minaccia di repressioni punitive.
Ancora più importante è il fatto che l’IDF non solo deve mantenere la superiorità nella guerra ad alta intensità (con gli Stati vicini), ma deve anche filtrare efficacemente le minacce a bassa intensità, come gli attacchi episodici con razzi e le incursioni transfrontaliere di Hamas. La vitalità degli insediamenti israeliani dipende in particolare da quest’ultimo aspetto, reso possibile dall’intelligence israeliana, da un fitto sistema di sorveglianza e da barriere fisiche.
Un’analogia può essere utile.
Sapevate che l’Impero romano non difendeva i propri confini? Può sembrare strano, ma è vero. Soprattutto nei periodi di massimo splendore (da Augusto a Nerone), Roma disponeva di meno di 30 legioni, il cui dispiegamento lasciava ai confini vasti spazi privi di truppe romane. Quindi, come faceva l’Impero a rimanere al sicuro?
Nel I secolo, Roma aveva dovuto affrontare una rivolta ebraica nella sua provincia di Giudea. All’apice della sua potenza, Roma non si era mai trovata di fronte ad una vera e propria minaccia da parte dei ribelli ebrei, e, dopo diversi anni di controinsurrezioni, il movimento era stato in gran parte debellato. Alla fine del 72 d.C., i Romani avevano intrappolato alcune centinaia di ribelli in una fortezza in cima alla collina di Masada. I ribelli avevano rifornimenti limitati. Sarebbe stata una cosa banale per Roma lasciare un distaccamento ad assediare la fortezza e aspettare che i difensori si arrendessero. Ma questo non era lo stile romano. Invece, era stata utilizzata un’intera legione per costruire un’enorme rampa sul fianco della collina, che era stata utilizzata per trasportare su per il pendio le macchine d’assedio e sfondare la fortezza.
Perché? Per Roma, questo impegno di forze apparentemente eccessivo (un’intera legione per stanare qualche centinaio di ribelli ebrei affamati) valeva la pena, perché manteneva il timore generalizzato che qualsiasi attacco, qualsiasi disobbedienza contro l’Impero avrebbe fatto cadere un enorme martello. “Se ci mettete i bastoni tra le ruote, vi daremo la caccia e vi uccideremo”. In un certo senso, l’eccessivo impegno di forze era la cosa più importante, e serviva come vistosa dimostrazione di un abuso di forza militare. Roma era stata in grado di proteggere i confini di un enorme impero per secoli con una generazione di forze straordinariamente bassa, unicamente con la minaccia di una vittoria schiacciante e punendo in modo affidabile (potremmo dire eccessivo) coloro che invadevano o si ribellavano. Nel caso degli Ebrei del I secolo, il loro tempio era stato raso al suolo, gran parte di Gerusalemme distrutta e la loro leadership uccisa o dispersa.
Ironia della sorte, Israele si trova ora in una situazione simile a quella dei suoi antichi signori romani, con la necessità di mantenere uno spettro completo di forze e la volontà politica di esercitare il proprio potere in modo punitivo, al fine di sostenere la deterrenza e proteggere il proprio progetto di colonizzazione. Proprio come la Roma del I secolo, Israele percepisce che la sua capacità di interdire le minacce a bassa intensità è stata messa in discussione dalla sorpresa strategica di Hamas ad ottobre e, come Roma, l’IDF sta tentando di dare prova di un vistoso abuso di forza militare.
Ecco perché, il 7 ottobre, Israele si è trovato in Zugzwang. Doveva muoversi, ma l’unica mossa disponibile era un’invasione enormemente distruttiva della Striscia di Gaza, e questo perché la logica strategica israeliana impone una risposta asimmetrica. L’attacco di Hamas ha necessariamente innescato un’invasione di terra e una campagna aerea concordante con l’obiettivo apparente di eliminare l’organizzazione, nonostante l’ovvia certezza che ciò avrebbe causato una strage a Gaza e perdite anormalmente elevate per l’IDF. Si tratta di un’area altamente popolata, densamente insediata e piena di civili che non sanno dove andare. Qualsiasi risposta israeliana era destinata ad uccidere e ferire un gran numero di civili, ma la necessità di una risposta era dettata dalla natura stessa dello Stato israeliano.
In definitiva, ho sempre creduto che non ci sia una soluzione duratura al conflitto arabo-israeliano se non con la vittoria militare di una delle due parti. Né una soluzione a due Stati né una soluzione ad uno Stato è praticabile, data l’attuale costruzione dello Stato israeliano e il suo contenuto ideologico. La soluzione ad uno Stato (che dia la cittadinanza ai palestinesi all’interno della comunità israeliana) difficilmente soddisferebbe qualcuno, ma sarebbe particolarmente ripugnante per gli israeliani, che la percepirebbero correttamente come una resa de-facto tramite una sopraffazione demografica. Una soluzione a due Stati richiederebbe un ritiro strategico di Israele dagli insediamenti occupati. In breve, tutti i potenziali accordi diplomatici costituiscono una sconfitta strategica per Israele, che potrà realizzarsi solo quando Israele avrà effettivamente subito una sconfitta strategica sul campo di battaglia.
Perciò, la bellicosità in Israele è ai massimi livelli. All’interno dei parametri peculiari della sua logica strategica, Israele deve distruggere Gaza con la forza militare, altrimenti dovrà affrontare gli effetti dell’irrimediabile discredito della deterrenza dell’IDF e, di conseguenza, il collasso del suo progetto coloniale. O la capacità dei palestinesi di generare minacce a bassa intensità sarà distrutta o la popolazione sarà esiliata nel Sinai. Gerusalemme non ha particolari preferenze.
In definitiva, gli osservatori stranieri devono capire che il conflitto arabo-israeliano è in pratica predestinato dalla particolare natura dello Stato israeliano. Essendo uno Stato-guarnigione escatologico e coloniale, Israele non è in grado di relazionarsi normalmente con i palestinesi (che non hanno affatto uno Stato) e l’unica via d’uscita è una sconfitta strategica israeliana o la frantumazione di Gaza. Non si tratta di un rompicapo con una soluzione univoca.
Washington e Teheran
In concomitanza con il crollo della stabilità israeliana, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare lo sgretolamento delle loro posizioni nella regione, in particolare in Iraq e in Siria. Questo, forse ancor più della situazione israeliana, rappresenta un tipico esempio di Zugzwang geopolitico.
Per cominciare, bisogna comprendere la logica strategica dei dispiegamenti strategici americani. L’America ha fatto un uso generoso di uno strumento di deterrenza strategica noto colloquialmente come Tripwire Force. Si tratta di una forza sottodimensionata, dispiegata in avanti e situata in zone di potenziale conflitto, con l’obiettivo di dissuadere il nemico dall’intraprendere azioni offensive, in modo che si capisca che si è pronti a rispondere. L’esempio classico di una forza “tripwire” era stato il minuscolo schieramento americano a Berlino durante la Guerra Fredda. Troppo piccola per disturbare o respingere un’offensiva sovietica (e, in effetti, lo era in modo evidente), la guarnigione americana a Berlino aveva lo scopo di offrirsi come potenziale vittima, negando all’America qualsiasi latitudine politica per abbandonare l’Europa in caso di conflitto. Le forze americane in Corea del Sud hanno uno scopo simile: dal momento che un’incursione nordcoreana nel Sud causerebbe certamente delle vittime tra le truppe americane, Pyongyang capisce che questa sarebbe, di fatto, una dichiarazione guerra agli Stati Uniti oltre che alla Corea del Sud.
Nel complesso, la forza “tripwire” è uno strumento utile e consolidato di deterrenza strategica, utilizzato sia dagli Stati Uniti che dall’Unione Sovietica (come nel caso del dispiegamento a Cuba) durante la Guerra Fredda.
Oggi gli Stati Uniti adottano una strategia simile in Medio Oriente nel confronto con l’Iran. Gli obiettivi strategici dell’America in Medio Oriente non sono, in realtà, particolarmente complessi, anche se spesso vengono fatti apparire tali semplicemente per il fatto che gli esponenti della politica estera americana non sanno o non vogliono spiegarsi.
L’obiettivo strategico americano, in poche parole, è quello di stabilire un’area denial [impedire il controllo di un territorio] e contrastare l’egemonia iraniana in Medio Oriente. Questo, a sua volta, è un’estensione della più ampia grande strategia americana che consiste nell’impedire agli egemoni regionali, preminenti o potenziali, di consolidare posizioni di dominio nelle loro regioni: Russia e Germania in Europa, Cina in Asia orientale, Iran in Medio Oriente. La storia geopolitica del mondo moderno è quella di un triplice contenimento da parte degli Stati Uniti tramite l’utilizzo di una serie di satelliti regionali, proxy e schieramenti in avanti. L’Iran è oggetto del contenimento americano perchè è l’unico Stato del Medio Oriente con il potenziale per diventare un egemone regionale.
I persistenti dispiegamenti americani in località come l’Iraq e la Siria dovrebbero quindi essere intesi principalmente come sforzi per interrompere l’influenza iraniana e combattere le milizie iraniane (questi dispiegamenti sono a loro volta necessari perché l’avventurismo americano negli ultimi due decenni ha creato in Iraq e in Siria dei vacui Trashcanistans [lett. Stati-bidone della spazzatura] vulnerabili alla strisciante influenza iraniana). [Questi dispiegamenti] possono essere intesi come una forza “tripwire” con un valore operativo limitato.
Sfortunatamente, gli Stati Uniti hanno scoperto i limiti di questi scheletrici schieramenti avanzati. La presenza americana nella regione è troppo esigua per scoraggiare in modo credibile un attacco, ma sufficientemente ampia per invitarlo.
Il problema, molto semplicemente, è che i mezzi standard americani sono relativamente inutili per dissuadere l’Iran e i suoi proxy, e questo per tutta una serie di ragioni. La rappresaglia americana standard in risposta ad azioni offensive contro le sue strutture o il suo personale – gli attacchi aerei – ha uno scarso valore deterrente contro combattenti irregolari che sono sia disposti a subire perdite che mentalmente abituati ad una lunga lotta di logoramento strategico e di sopravvivenza. L’Iran e i suoi alleati hanno orizzonti temporali lunghi e sono in grado di resistere ad attacchi brevi e violenti.
Inoltre, l’Iran e i suoi alleati prosperano in condizioni di disordine governativo, che li abitua alla capacità dell’America di distruggere gli Stati (creando quelli che io chiamo “Trashcanistans“). Creare un Trashcanistan in molte circostanze può essere strategicamente utile: con uno Stato fallito si può creare un vuoto caotico proprio di fronte al nemico. Nelle giuste circostanze, questa è una leva potente per la negazione di un’area geostrategica. Nel caso dell’Iran, tuttavia, i centri falliti (o almeno destabilizzati) creano vuoti che l’Iran è in grado di riempire in modo naturale. Questo è il motivo per cui la bellicosità geopolitica dell’America in Medio Oriente ha coinciso con decenni di crescita costante dell’influenza iraniana.
Tutto questo per dire che le manovre americane in Medio Oriente non costituiscono un deterrente credibile né per l’Iran né per i suoi proxy. Questo è dimostrato in tempo reale dal fatto che le dimostrazioni di forza americane non riescono a frenare le attività iraniane. Le basi americane hanno subito attacchi missilistici incessanti da parte di proxy iraniani (attacchi che hanno ucciso soldati americani) e il movimento Ansar Allah (gli Houthi) continua ad ostacolare la navigazione nel Mar Rosso nonostante una campagna aerea limitata. In un contesto geostrategico in cui la deterrenza non è più credibile, le forze “tripwire” (come le basi americane di Al-Tanf e Torre 22) cessano di essere un deterrente e diventano dei semplici obiettivi. Inoltre, la morte dei soldati americani non suscita più l’indignazione dell’opinione pubblica e l’ardore bellicoso di un tempo. Dopo decenni di guerre in Medio Oriente, gli americani si sono semplicemente abituati a sentire parlare di vittime in luoghi sconosciuti e di cui non si preoccupano. Pertanto, sia come strumento geostrategico che di politica interna, l’utilità della forza tripwire è ormai cessata.
Ancora una volta, i nostri buoni amici romani forniscono un’analogia istruttiva.
Nei primi anni del II secolo (all’incirca tra il 101 e il 106 d.C.), il grande imperatore romano Traiano aveva condotto una serie di campagne che si erano concluse con la conquista della Dacia, un regno indipendente. Anche se l’intervista di Putin a Tucker Carlson ha probabilmente contribuito a normalizzare le prolisse digressioni storiche, ci asterremo dall’illustrare le particolarità delle origini indoeuropee dei Daci e diremo semplicemente che la Dacia dovrebbe essere considerata come l’antica Romania. In ogni caso, il grande Traiano aveva conquistato la Dacia e aggiunto all’Impero una nuova, vasta e popolosa provincia. Eppure questa conquista era stata considerata come un segno di debolezza da parte dei Romani. Come mai?
Per secoli, Roma aveva controllato indirettamente la Dacia trattandola come una sorta di regno cliente-alleato ai suoi confini, tenuta in riga con le spedizioni punitive e la minaccia che esse rappresentavano. Ogni volta che i Daci iniziavano a costituire un problema (ad esempio compiendo razzie nel territorio romano o diventando troppo indipendenti o assertivi), Roma effettuava attacchi punitivi, bruciando i villaggi dacici e spesso uccidendo i capi e i re dacici. Nel I secolo, tuttavia, la Dacia era diventata sempre più potente e politicamente consolidata e Roma si era sentita costretta ad agire in modo più aggressivo. In breve, Traiano aveva dovuto conquistare la Dacia – una campagna militarmente costosa e complicata – perché la deterrenza di Roma stava svanendo e la minaccia di limitate incursioni punitive era diventata sempre meno spaventosa per i Daci.
Questo è un classico esempio di paradosso strategico. L’evaporazione del vantaggio strategico aveva minato la deterrenza di Roma, costringendola ad adottare un programma militare molto più costoso ed espansivo a compensazione della sua debolezza. Il paradosso è che la conquista della Dacia era stata un’impresa militare impressionante, ma resa necessaria dal crollo della deterrenza e dell’intimidazione romana. Se Roma fosse stata più forte, avrebbe continuato a controllare la Dacia con metodi indiretti (e più economici), che non richiedevano lo stazionamento permanente di diverse legioni. Era stata una grande vittoria (che aveva portato molti benefici tangibili all’Impero), ma, a lungo andare, aveva rappresentato un innegabile contributo alla sovraestensione e all’esaurimento dell’Impero Romano.
Vediamo una dinamica simile in Medio Oriente, dove il calo del potere di deterrenza dell’America potrebbe presto costringerla a prendere misure più aggressive. È per questo che le voci che invocano la guerra con l’Iran, per quanto squilibrate e pericolose, hanno, in realtà, colto un aspetto cruciale del calcolo strategico americano. Le misure limitate non bastano più per intimidire, e questo potrebbe non lasciare nulla a disposizione, se non la misura completa.
E così, l’America si trova di fronte allo Zugzwang. A tutt’oggi sembra che la tradizionale cassetta degli attrezzi americana abbia un valore deterrente scarso o nullo e le basi americane nella regione sembrano essere più bersagli che forze tripwire. Allo stesso modo, la limitata campagna aerea contro lo Yemen non sembra aver degradato in modo significativo la volontà o la capacità degli Houthi di colpire le navi [dirette ad Israele]. Un recente attacco di decapitazione contro il gruppo Kataib Hezbollah – sulla carta un’impressionante dimostrazione di intelligence e capacità di attacco americana – ha portato solo ad un’altra esplosione di violenza nella Zona Verde di Baghdad. Più in generale, l’aumento dei dispiegamenti strategici americani (sotto forma di una presenza terrestre rafforzata e dell’arrivo di mezzi navali) non sembra in grado di scoraggiare in modo significativo l’asse iraniano.
L’America si troverà presto di fronte alla prospettiva di una scelta difficile, tra una ritirata strategica o un’escalation. In entrambi i casi, lo schieramento nella regione di una piccola forza tripwire diventa obsoleto e l’America dovrà ritirarsi o andare più a fondo. È per questo motivo che ora si accendono i campanelli d’allarme nel mondo della politica estera [americana], che teme un ritiro americano dalla Siria, insieme a richieste sempre più strampalate di “bombardare l’Iran“. Questo è lo Zugzwang: due scelte sbagliate a propria disposizione.
Kiev
Infine, veniamo al fronte europeo, dove gli Stati Uniti si trovano di fronte ad un’altra scelta difficile. Nell’ultimo anno, la premessa strategica dell’America in Ucraina è stata messa in serio dubbio da due importanti sviluppi. Questi sono stati: 1) l’abissale fallimento della controffensiva ucraina e 2) la riuscita mobilitazione da parte della Russia di truppe supplementari e del suo complesso militare industriale, nonostante il tentativo di strangolamento attraverso le sanzioni occidentali.
Improvvisamente, l’idea che l’America possa indebolire in modo asimmetrico la Russia sembra vacillare sempre più, dal momento che ora è assai dubbio che l’Ucraina possa riconquistare territori significativi ed è evidente che le forze armate russe sono sulla buona strada per emergere dal conflitto più grandi e significativamente indurite dall’esperienza. In effetti, sembra che i risultati più importanti della politica ucraina di Washington siano stati la riattivazione della produzione militare russa e la radicalizzazione della popolazione russa.
Ora Washington si trova di fronte ad una scelta. Inizialmente la sua preferenza era stata quella di sostenere le forze armate ucraine con materiale a basso costo (vecchie scorte del blocco sovietico provenienti dai membri della NATO dell’Europa orientale ed eccedenze disponibili di sistemi occidentali), ma ora questa scelta ha chiaramente fatto il suo corso. Gli sforzi all’interno del blocco NATO per espandere la produzione di sistemi chiave, come i proiettili per l’artiglieria, sono in gran parte bloccati, e il Pentagono, man mano che passa il tempo, sta tranquillamente riducendo i suoi obiettivi di produzione. Nel frattempo, è emerso un consenso sul fatto che gli sforzi della Russia per aumentare la produzione di armi hanno avuto un notevole successo e che il complesso industriale russo gode di un vantaggio significativo sia nella produzione totale che nel costo unitario dei sistemi chiave.
Quindi, che fare?
L’Occidente (e con questo intendiamo l’America) ha tre opzioni:
1. Diminuire il sostegno all’Ucraina, effettuando di fatto una ritirata strategica e cancellando Kiev come risorsa geostrategica condannata.
2. Continuare con l’attuale sostegno, cercando di mantenere un minimo di potenza di combattimento dell’AFU, tenendo a malapena in vita l’Ucraina e portandola all’esaurimento strategico.
3. Aumentare massicciamente il sostegno all’Ucraina attraverso una politica industriale militare su vasta scala, in effetti mettendo parzialmente l’Occidente in assetto di guerra per conto dell’Ucraina.
Il problema è che la Russia è in vantaggio nella transizione verso un’economia di guerra e non ha difficoltà a vendere questa scelta alla propria popolazione perché il Paese è, di fatto, in guerra. La Russia gode di vantaggi significativi, come costi di produzione inferiori e catene di approvvigionamento più compatte. In un anno di elezioni, con una parte crescente dell’elettorato e del Congresso che sembra stanca di sentir parlare di Ucraina, è difficile immaginare che gli Stati Uniti si impegnino in una ristrutturazione economica de facto e in una dirompente economia di guerra a favore dell’Ucraina. In effetti, sembra che stia crescendo l’allarme per una possibile interruzione degli aiuti militari degli Stati Uniti, con l’ultimo pacchetto di aiuti che sembra non poter passare in Parlamento a causa dell’ultimo imbroglio sulla sicurezza dei confini [con il Messico].
In Ucraina l’America si trova quindi di fronte a uno Zugzwang. Può scegliere di impegnarsi al 100%, ma questo significherebbe vendere al pubblico americano un riarmo rapido e dirompente in tempo di pace, *e* scommettere su un pezzo vacillante a Kiev (che ora sta affrontando un rimpasto ai vertici di comando e con un’altra roccaforte difensiva in frantumi ad Avdiivka). La ritirata strategica sotto forma di un abbandono di Kiev potrebbe essere la più sensata da un punto di vista puramente costi-benefici, ma ci sono indubbiamente fattori di prestigio in gioco. Abbandonare del tutto l’Ucraina e lasciare che venga sconfitta sarebbe visto, giustamente, come una vittoria strategica russa sugli Stati Uniti.
Rimane la terza possibilità, ovvero il tipo di aiuti a pioggia, che mantiene la percezione del sostegno americano all’Ucraina ma che non offre alcuna prospettiva reale di vittoria ucraina. Si tratta di un’operazione cinica, che prepara gli ucraini ad una morte lenta e di cui essi stessi potranno essere ritenuti responsabili – “non abbiamo mai abbandonato l’Ucraina, hanno perso“.
Non ci sono alternative valide? Questo è lo Zugzwang.
Conclusione: escalare o andarsene
Il problema geostrategico di base che gli Stati Uniti (e il loro partner ectopico, Israele) devono affrontare è che la loro capacità di produrre contromisure asimmetriche e poco costose si è esaurita. Gli Stati Uniti non possono più sostenere l’Ucraina con un surplus di granate e MRAP, né possono scoraggiare l’asse iraniano con reprimende e attacchi aerei. Israele non può più mantenere l’immagine delle sue impenetrabili difese, da cui dipende la sua peculiare identità.
Rimane la difficile scelta tra ritiro strategico e impegno strategico. Le mezze misure non bastano più, ma c’è la volontà di una misura completa? Per Israele, che non ha alcuna profondità strategica ma una concezione di sé unica a livello storico-mondiale, era inevitabile scegliere l’impegno rispetto al ritiro strategico (che, in questo caso, sarebbe molto più metafisico che puramente strategico ed equivarrebbe alla decostruzione dell’identità israeliana). Da qui l’enorme e violenta operazione israeliana a Gaza – un’operazione che non avrebbe mai potuto essere diversa, data la densità della popolazione e il suo significato escatologico.
L’America, tuttavia, ha una grande profondità strategica, la stessa che le aveva permesso di ritirarsi dal Vietnam o dall’Afghanistan con pochi e significativi effetti negativi in patria. La possibilità che l’America rimanga prospera e sicura rimane anche dopo un [eventuale] ritiro dalla Siria e dall’Ucraina. In effetti, le famose scene caotiche di evacuazione frenetica da Saigon e Kabul rappresentano momenti straordinariamente lucidi nella politica estera americana, momenti in cui il realismo aveva prevalso e le pedine perdenti degli scacchi erano state lasciate al loro destino. È un atteggiamento cinico, naturalmente, ma è così che va il mondo.
Questo è un filo conduttore della storia mondiale. I momenti più critici della geopolitica sono generalmente quelli in cui un Paese si trova a dover scegliere tra una ritirata strategica e un impegno totale. Nel 1940, la Gran Bretagna si era trovata di fronte alla scelta tra accettare l’egemonia della Germania sul continente o impegnarsi in una lunga guerra che le sarebbe costata l’impero e l’eclissi definitiva da parte degli Stati Uniti. Nessuna delle due era una buona scelta, ma aveva scelto la seconda. Nel 1914, la Russia aveva dovuto scegliere tra abbandonare l’alleato serbo o combattere una guerra con le potenze germaniche. Nessuna delle due opzioni sembrava buona, e aveva scelto la seconda. La ritirata strategica è difficile, ma la sconfitta strategica è peggiore. A volte, non ci sono scelte valide. Questo è lo Zugzwang.
Big Serge
Fonte: bigserge.substack.com
Link: https://bigserge.substack.com/p/the-age-of-zugzwang
14.02.2024
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org