Venerdì 26 gennaio ad inaugurare lo Sherbooks Festival 2024 è stata la presentazione del libro L’era della Giustizia Climatica. Prospettive politiche per una transizione dal basso di Paola Imperatore ed Emanuele Leonardi. Sul palco c’è Paola Imperatore che insieme al conduttore Antonio Pio Lancellotti ci ha permesso di toccare alcuni dei temi cruciali del libro.
L’era della Giustizia climatica (2023, edizioni Orthotes) fa un resoconto complessivo dei processi di transizione ecologica e delle lotte contro la crisi climatica con una doppia prospettiva: quella dall’alto ovvero dal punto di vista del capitalismo; e soprattutto quella dal basso che invece indaga i movimenti sociali.
Il concetto di Giustizia Climatica si trasforma nei decenni e porta con sé un cambiamento ontologico del concetto di ambientalismo. Nella parte introduttiva del libro si ripercorrono i passaggi fondamentali di tale trasformazione come ad esempio il Summit della terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992 o come la nascita del Movimento No Global.
La narrazione della crisi climatica negli ultimi anni è entrata nel dibattito politico e pubblico come un problema planetario che interessando il globo nella sua complessità ci mette tutti nella stessa barca. Ma questo racconto sterilizza il significato di crisi climatica e svuota la sua dimensione radicale e trasformativa. Per quanto sia vero che per la prima volta ci troviamo di fronte ad una sfida di portata mondiale è altrettanto vero che il modo in cui l’esposizione alla crisi climatica e anche le cause di quest’ultima ricadono sulle persone è molto differenziata in base ad una serie di oppressioni già esistenti: classe, genere, età provenienza, razzializzazione.
Il modo in cui noi siamo posizionati nell’ordine sociale influenza in maniera significativa sia il nostro contributo ai processi che generano riscaldamento globale e degrado ecologico ma anche quanto e come siamo esposti alle conseguenze di tale catastrofe climatica. Guardando a qualche dato esemplificativo: l’80% dei rifugiati climatici sono donne; il 70% delle vittime dell’ondata di calore che si è abbattuta sull’Europa nel 2003 provenivano da una classe popolare questo perché avevano case più piccole senza sistemi di aerazione o erano costretti a vivere in case sovraffollate; l’80% delle persone (vittime e dispersi) dell’uragano Katrina che si è abbattuto in Florida nel 2005 erano persone razzializzate, in quanto risiedevano in zone con un maggior dissesto idrogeologico e quindi erano più esposti alle conseguenze di alluvioni, uragani e altri fenomeni climatici avversi.
Questi dati ci confermano che non siamo davvero tutti nella stessa barca. Ci troviamo nella stessa tempesta ma con mezzi totalmente diversi a seconda delle nostre possibilità.
Se poi ci concentriamo sull’aspetto di chi produce e di chi decide quali sono le produzioni e quanto possano impattare sul clima questo non essere tutti nella stessa barca diviene ancora più evidente. Vi è una percentuale minuscola dei più ricchi del pianeta, l’1%, che consuma più di chiunque altro ed incide sulle decisioni politiche economiche e finanziarie in maniera smisurata e incontrollata. Anche in questo caso i dati parlano per sé. Secondo i dati dell’Oxfam 1 miliardario economico produce due milioni di volte in più di CO2 rispetto a un povero climatico. È una asimmetria che esiste da sempre, ma viene finalmente messa al centro del discorso politico dal movimento climatico globale che inizia a denunciare questa contraddizione e fa intravedere le strategie politiche che stanno dietro alla narrazione del “siamo tutti nella stessa barca”. Evidenziano inoltre che il sistema delle COP (conferenza delle parti (“conference of the parties”) della convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) è fallito proprio perché c’è una parte dell’élite che non ha nessuna intenzione di risolvere il problema e anzi ha trovato nella crisi climatica un’opportunità redditizia per aprirsi nuovi settori di mercato. Nel libro questo fenomeno viene definito “secessione dell’elite”.
Proprio partendo da questa tendenza di utilizzare la stessa economia e i suoi meccanismi per dare un prezzo alla natura valorizzando il limite ambientale possiamo osservare una transizione ecologica così detta dall’alto. Il capitalismo nella sua fase neo-liberale è riuscito ad utilizzare il limite ecologico a proprio vantaggio affermando che essendo il problema climatico nato all’interno di un determinato sistema economico solo quest’ultimo con le sue conoscenze tecniche può trovare le soluzioni adatte.
Sulla base di questo assunto è nato il sistema COP. Per capirci meglio basti pensare a come è stato affrontato il problema delle emissioni di CO2, attorno al quale si è consolidata una COP che alla fine ha trovato come soluzione praticabile quella di trattare la CO2 come un oggetto interno a delle dinamiche di mercato. Internalizzare il problema in meccanismi di mercato: questa è la soluzione del capitalismo. E infatti oggi esiste un mercato della CO2 che consente ai paesi di scambiarsi la CO2 avanzata o prodotta. Di esempi ce ne sono molti altri: la creazione di termovalorizzatori o inceneritori partendo dai rifiuti e quindi innescare un nuovo ciclo produttivo dallo scarto; sul tema dell’estrattivismo vengono utilizzati i detriti dell’escavazione per dar vita ad un nuovo mercato. La transizione ecologica recupera l’impianto teorico dell’economia neoliberale ponendolo come risposta alla crisi.
Ma non esiste solo una transizione ecologica dall’alto. Vi è una transizione ecologica cosiddetta dal basso, che parte dai movimenti capaci di intrecciare la lotta climatica e le lotte sociali. La Justice Transition (transizione giusta) deve le sue origini al movimento operaio dei chimici e petrolchimici che negli Stati Uniti già negli anni 70 iniziava a porsi la questione di ricreare un rapporto sinergico tra ecologia e lavoro. E oggi continuano ad esistere movimenti capaci di creare avanzamenti enormi sulla questione climatica. Il problema ambientale è vissuto nelle piazze, tra grida di lotta e non con l’uso di tecnicismi teoremi economici, divenendo un dispositivo di trasformazioni radicali e non un elemento per la gestione tecnica della crisi climatica.
La transizione ecologica è al centro del dibattito pubblico e di sicuro un ruolo fondamentale lo hanno giocato ai movimenti climatici ma non bisogna sottovalutare l’influenza di altri movimenti che hanno saputo declinare il tema ambientale su un piano radicale e di classe e che hanno costruito attorno al proprio malcontento una capacità di risposta (GKN, gilets jaunes). Vi è la base una denuncia che unisce tutte queste lotte: non possono essere gli strati più poveri a pagare il prezzo della crisi climatica, soprattutto perché non ne sono loro la causa. Tuttavia si riscontra un limite: i movimenti di tale natura si esauriscono con l’esaurirsi del principale oggetto della movimentazione. C’è bisogno di costruire una politica per il territorio che riesca a dare uno slancio a medio lungo termine a questi comitati che possono veramente ottenere risultati importanti e diventare spine nel fianco di interessi capitalisti.
Focalizzandoci sul nostro paese possiamo dire che l’Italia è un vero e proprio laboratorio di comitati ambientali. Ha avuto esperienze fondamentali come la lotta di GKN, le lotte al petrolchimico di Marghera, Il comitato No Grandi Navi, il movimento No Tav, o ancora tutta la questione dell’Ilva.
Gkn in particolare è stata e continua ad essere una vera e proprio bussola che ha rimesso al centro dell’attenzione la classe operaia con rivendicazioni lavorative tali da smuovere chi ormai si era rassegnato, ha dato inoltre un nuovo immaginario culturale (spettacoli teatrali, festival working class) e ha rivitalizzato le lotte climatiche calandole su un terreno di classe.
Nel capitolo conclusivo viene affrontata l’idea di sciopero che negli ultimi anni è andato oltre la dimensione del lavoro salariato che ormai non è più una dimensione egemone. Ripercorrendo velocemente le varie evoluzioni dello sciopero si vede come si è passati da uno sciopero sociale che mette al centro il tema della precarietà e si sostanzia nel blocco della produzione per poi passare allo sciopero transfemminista che mette in evidenzia ulteriori modi di incidere e bloccare alcuni meccanismi produttivi. Di tutt’altra natura sono stati gli scioperi climatici organizzati dalle generazioni più giovani le cui modalità erano essenzialmente l’interruzione della formazione scolastica e dunque non ha al centro il blocco della produzione. Eppure nell’ultimo anno è nata un’ulteriore forma di sciopero climatico denominato dagli autori “sciopero per la vita”. Si pensi agli scioperi della scorsa estate nelle cucine dei McDonald’s di Bari o nei capannoni industriali del torinese dove è stata bloccata la produzione a causa delle temperature che rendevano insostenibile continuare a lavorare. Non è uno sciopero che parte da un ragionamento teorico ma dalla materialità. E forse è proprio il fulcro dell’ecologia: quello di cui siamo circondati è materialità, l’aria che respiriamo è materiale. è stata una presa di coscienza dei lavoratori che mostra un possibile ampliamento dello sciopero climatico che entra nel piano produttivo, radicandosi nei luoghi di lavoro. Il nome dato è appunto “sciopero per la vita” in quanto i lavoratori per sopravvivere si sono assunti tutti i rischi tra cui quello del licenziamento.
E sarà un compito e una sfida dei movimenti sociali abbracciare queste forme di lotta per capire quale traiettoria costruire insieme.